Quante guerre, quale pace

Intervento al convegno della Fondazione Spadolini

 Quante guerre, quale pace


Il concetto di guerra e di pace all’inizio del terzo millennio

  Il terzo millennio non poteva iniziare peggio di così, diceva Mario Luzi in una recente intervista. Non solo quante guerre, ma quali guerre! A differenza di ieri, coinvolgono sempre più i civili. Oggi, ogni guerra diviene subito guerra civile: colpire la popolazione è un modo sicuro per indebolire l’avversario. Lo sanno bene i guerriglieri che terrorizzano la gente disarmata e ancor meglio i terroristi che si propongono stragi di civili. E anche le guerre “pulite” li colpiscono. Per di più le guerre lasciano strascichi incredibili. Ha ragione Ryszard Kapuscinski: “La guerra non finisce il giorno in cui si firma l’armistizio. Il dolore dura a lungo… In fondo la guerra non finisce mai. La guerra è la conseguenza dell’interruzione della comunicazione tra gli uomini”. La guerra contemporanea ha assunto inoltre una terribile capacità di colpire: si usano armi micidiali che superano la soglia della difesa. Per questo chi grida ai rischi della guerra è un realista, un uomo di ragione. E chi l’ha vissuta, proprio perché ne conosce i drammi, non si lascia andare al contagio delle passioni collettive: la paura che esige la guerra preventiva, l’odio che vuole la distruzione dell’altro… Giovanni Paolo II, in un suo discorso al corpo diplomatico, è giunto a dire: “Le esigenze di umanità ci impongo oggi di andare risolutamente verso l’assoluta proscrizione della guerra e di coltivare la pace come bene supremo, al quale tutti i programmi e tutte le strategie devono essere subordinate”. Il panorama complesso delle guerre è stato ancor più ingarbugliato dal terrorismo divenuto una terribile sfida. La letteratura in materia è ormai notevole. Credo però che vada evitato il pericolo di una reductio ad unum, ossia di concentrare l’attenzione su questo immane pericolo come fosse l’unico. E’ un pericolo terribile e va stroncato con decisione, ma anche con precisione. Sbagliare obiettivo e strategia diventa pericolosissimo.


A me è stato chiesto di fare qualche riflessione sul dialogo come nuova forma di negoziato. Bin Laden dichiara: “Occorre rispondere con le armi al dialogo”. E’ una provocazione che non va raccolta perché è funzionale al suo disegno. La stessa teoria del conflitto delle civiltà rischia di fare il gioco dei diversi fondamentalismi che vivono solo di contrapposizione senza quartiere. Parlare di conflitto di civiltà tra Islam e Cristianesimo, identificato poi con l’Occidente, significa non comprendere la complessità della storia e delle sue vicende. E, in ogni caso, a mio avviso, il dialogo è più forte delle armi. Purtroppo viene poco praticato, anche perché spesso è banalizzato. Esso, invece, ha una dimensione complessa che riesce ad entrare nelle pieghe del mondo contemporaneo. L’opera della Comunità di Sant’Egidio in questo campo ha dato non pochi risultati positivi. Faccio tre soli esempi.


Il primo riguarda la pace in Mozambico. Senza narrarne la storia dico solo che, dopo 17 anni di guerra (1.500.00 di morti e più di 1.000.000 di profughi), si è potuto raggiungere un accordo di pace tra il governo e la guerriglia. Parlare di dialogo in questo processo di pace ha voluto dire un lavoro lungo, complesso, duro e che ha richiesto una incredibile pazienza e una notevole tenacia, con il coinvolgimento di governi e di istituzioni, compresa la presenza dei militari italiani. E quando l’allora ministro della Difesa voleva ritirare le truppe, siamo riusciti a convincerlo per farle restare; decisione che si è rivelata strategicamente importantissima. Boutros Boutros Ghali, allora segretario generale dell’ONU, ebbe a dire: “La Comunità di Sant’Egidio ha sviluppato tecniche che sono differenti ma al tempo stesso complementari rispetto a quelle dei peacemakers professionali…ha lavorato discretamente per anni al fine di fra incontrare le due parti…E’ stata particolarmente efficace nel coinvolgere altri perché contribuissero ad una soluzione. Ha messo in atto le sue tecniche caratterizzate da riservatezza e informalità, in armonia con il lavoro ufficiale svolto dai governi e dagli organi intergovernativi. Sulla base dell’esperienza mozambicana è stato coniato il termine “formula italiana” per descrivere questa miscela, unica nel suo genere, di attività pacificatrice governativa e non. Il rispetto per le parti in conflitto, per quelle coinvolte sul terreno, è stato fondamentale in questo lavoro”.


Un altro esempio riguarda l’Albania al momento della crisi che stava facendo precipitare il paese nella guerra civile. Le elezioni richieste dalla comunità internazionale rischiavano di fallire. Decidemmo di invitare a Sant’Egidio i responsabili dei diversi partiti per un patto comune che consisteva nell’accettazione del risultato elettorale da parte di tutti con le opportune garanzie di controllo da dare a chi le avesse perse. L’Italia, in quel tempo, aveva l’incarico di guidare il processo di normalizzazione. Quell’accordo, chiamato ancora oggi dagli stessi albanesi “Patto di Sant’Egidio”, permise il riavvio della normalizzazione del paese.


Il terzo esempio riguarda il Kosovo. Qui il discorso sarebbe ben più lungo e complesso. Non posso per ovvie ragioni di tempo prolungarmi. E tuttavia ho fondati motivi per dire che la guerra si sarebbe potuta evitare. Un paziente e logorante lavoro di dialogo tra le parti portò alla firma dell’unico accordo scritto tra Milosevic e Rugosa per l’avvio della soluzione del problema kossovaro. Riconsegnai personalmente agli albanesi l’Istituto di Albanologia e le facoltà universitarie. E quando fu necessario far intervenire la polizia serba per allontanare gli studenti serbi che avevano occupato le facoltà, Milosevic ordinò l’intervento in favore degli studenti albanesi. Si era, inoltre, dato l’avvio all’uso della lingua albanese in tutte le scuole del Kosovo di ogni ordine e grado. E si avviò la programmazione per il riordino del sistema sanitario. Purtroppo, la guerra interruppe il processo. Non è questa le sede per continuare la riflessione su questo versante. Posso dire che anche questa volta il dialogo fu estenuante ma i frutti erano concreti. Potrei aggiungere altri esempi che riguardano sia paesi latino-americani sia africani direttamente seguiti da sant’Egidio. Ma ci sono tanti altri processi di pace condotti su questa via, come ad esempio quello per sconfiggere l’Apartheid in Sud Africa, oppure il processo che portò al trattato di Daiton per la Bosnia, o a quello di Oslo per la questione israelo-palestinese e così oltre.


Certo, oggi sul dialogo è sceso il gelo. Un commentatore, due mesi fa, scriveva: “E il dialogo muore dai Balcani all’Iraq”. A mio avviso sarebbe drammatico se non si perseguisse con determinazione questa via che corre il rischio di non trovare più legittimazione. Certo, la lotta al terrorismo va continuata con serietà, non con pressappochismo, altrimenti il danno è peggiore dell’intervento. Ma c’è un’altra prospettiva obbligata. Ed è l’opera di aiutare la convivenza tra popoli, tra culture, tra civiltà, tra religioni diverse. Insomma, se ci si domanda come sconfiggere il terrorismo, ci si deve altresì porre quest’altro quesito: come aiutare a convivere persone, fedi e popoli diversi? L’unica strada per rispondere a questa seconda cruciale domanda è quella del dialogo. E’ una strada ardua e complessa, ma non c’è altra scelta.


La condizione umana sta diventando il convivere tra diversi. Sappiamo che non sempre è facile: troppe differenze all’interno della mondializzazione inducono verso individualismi irresponsabili, tribalismi difensivi, nuovi fondamentalismi. C’è gente che si sente aggredita e spaesata di fronte a nuovi vicini e a un mondo troppo grande, e quindi si lascia prendere dalla paura del presente e del futuro. E costoro, facilmente, chiedono alle religioni di proteggere la loro paura, magari con le mura della diffidenza. Nascono così fondamentalismi di generi diversi che, come fantasmi, pullulano e inquietano. Crescono anche fondamentalismi di carattere etnico o nazionalista, che giungono sino al terrorismo. Il fondamentalismo è una grande semplificazione che affascina giovani disperati, gente spaesata, per cui questo mondo è troppo complesso, inospitale, ma che può interessare politici spregiudicati alla ricerca di scorciatoie per il potere. E i fondamentalismi hanno il marchio dell’odio, se non della lotta al diverso religiosamente o etnicamente. Gilles Kepel osserva a proposito del libro di Huntington: “Gli islamismi lo adorano: porta acqua al loro mulino, le due civiltà sono incompatibili, dunque il mondo musulmano ha ben ragione di rinchiudersi in un’alterità radicale rispetto all’Occidente”. Ma se vai in Katar vedi solo città “americane”. Lo scontro di civiltà è un teorema semplificatorio che gli estremisti delle diverse culture aspettano per giustificare le loro posizioni.


In tale contesto le religioni acquisiscono una nuova responsabilità. Anzitutto, non possono più ignorarsi l’un l’altro. E va notato che la mutua ignoranza conduce rapidamente all’inasprimento. Responsabili religiosi isolati si trovano talvolta costretti in orizzonti troppo nazionalisti. L’universalità, che è propria delle diverse tradizioni religiose, si libera nel contatto e nel dialogo con le altre religioni. Gli incontri tra uomini e donne di religione che si sono susseguiti negli anni, a partire da quello di Assisi, hanno messo in rilievo ciò che unisce, ed anche ciò che differenzia e divide. L’esperienza della Comunità di Sant’Egidio, che ha riproposto di anno in anno la preghiera di Assisi nelle diverse città europee, mostra la fecondità di questi incontri. Non si tratta di simulare un facile irenismo e tanto meno di trovare un minimo comune denominatore religioso. Il dialogo vero e sincero non appiattisce. E’, invece, l’arte paziente di ascoltarsi, di capirsi, di riconoscere il profilo umano e spirituale dell’altro. Il dialogo è un’arte della maturità delle culture, delle personalità, dei gruppi. E’ urgente incamminarsi verso un mondo in cui i diversi sappiano convivere. E’ qui che bisogna concentrare gli sforzi: è necessario ri-apprendere e ri-praticare, ma anche inventare di nuovo, l’arte del convivere che appunto per secoli è stata possibile. Anche questa, come ogni arte, richiede disciplina interiore, studio, conoscenza e comprensione reciproca, superamento di pregiudizi e ricerca di valori condivisi. La lezione di La Pira va ripresa con  coraggio e audacia.


La differenza non deve scoraggiare. Essa fa parte della vita contemporanea. Oggi, la maturità delle identità nazionali sta nel sapersi incontrare, aggregare, relazionare, conservare se stesse nello scambio. E qui c’è, a mio avviso, un grande segreto europeo, ossia la capacità di sintesi che l’Europa ha nelle sue radici; purtroppo non ne ha ancora piena consapevolezza. Differenza e dialogo sono le guide per allargare lo sguardo al mondo interno, per trovare senso in una convivenza tra gente diversa. Il dialogo non è un fatto accademico, ma un modo di vivere. Sappiamo che le religioni contribuiscono a definire l’identità dei singoli e dei popoli. Proprio per questo esse sono poste oggi di fronte ad un bivio: o favorire l’incontro tra popoli diversi o approfondirne i fossati. Conosciamo i drammatici effetti della seconda scelta, basti pensare ai Balcani. La scelta dell’incontro richiede un lavoro lungo, una pazienza “geologica”, diceva un amico, ma è l’unica via ragionevole. La forza della ragione lo impone, e la forza della fede lo obbliga. E’ necessario frequentare le grandi tradizioni religiose, coglierne la spiritualità, senza che questo significhi perdere la propria identità in una confusione da moderno mercato. E’ necessario far crescere l’amore mediante la stima in un mondo complesso ma popolato di pensieri, di santità, di fede. E’ una garanzia per il futuro del mondo.


La fede – e direi anche la ragione – debbono diventare cultura di riconciliazione e di dialogo, ossia un modo di vedere largo, un modo di amare senza confini, un modo di vivere che non riduce le cose ai propri schemi mentali. Ognuno è chiamato ad aprire la propria mente e il proprio cuore. E’ facile essere sensibili solo a quello che ci sta vicino, a quello che ci tocca e ci commuove; e ignorare ciò che sta lontano da noi. Il dialogo è anche una mente e un cuore ospitali a ciò che non ci tocca direttamente. L’ignoranza è funzionale all’egoismo. E nell’ignoranza appassiscono l’amore, la generosità, l’audacia, la passione, il sogno di un mondo di pace. La forza dialogo spinge ad uscire da sé per recarsi nei cuori degli altri al fine di creare una cultura della pace. E’ quel che fece Francesco di Assisi quando, in tempo di crociata, si recò dal Sultano a Damietta, non certo per fare compromessi di fede, ma per dibattere con lui. Aveva intuito la forza della “parola”. E’ quel che oggi chiamiamo lo “spirito di Assisi”, ossia l’avvicinamento dei diversi mondi religiosi sulla via del dialogo, per raggiungere l’unica meta: la pace tra i popoli. Il dialogo perciò non ha frontiere e, in certo modo, comprende anche l’amore per i nemici. E mi spiego. In un mondo divenuto un villaggio globale, amare i nemici è parte non solo dell’etica della responsabilità, ma anche di una politica responsabile: il nemico va fermato, ma anche cambiato.


C’è una convinzione che sta al fondo del metodo del dialogo: nel cuore dei popoli (e, a maggior ragione, delle religioni) ci sono energie positive per la convivenza, assieme anche a forze cieche e violente. Sconfiggere queste ultime e liberare le prime, fa parte della difficile arte del convivere. Atenagora, un credente, nato in quel crogiuolo di popoli ch’è la terra balcanica, vissuto negli Usa e poi eletto patriarca ecumenico a Istanbul, diceva: “Tutti i popoli sono buoni. Ognuno merita rispetto e ammirazione. Ho visto soffrire gli uomini. Tutti hanno bisogno di amore, se sono cattivi è forse perché non hanno incontrato il vero amore…So pure che esistono forze demoniache e oscure, che a volte si impossessano degli uomini e dei popoli, ma l’amore di Gesù è più forte dell’inferno”. Questo inizio di millennio ha bisogno di più speranza, di più giustizia e di più perdono, di più ragione e di più fede. Questo di più deve vedere uniti laici e credenti per operare assieme in vista di una convivenza di pace tra tutti i popoli.