Politica e cultura in Umbria

Intervento al convegno di Spoleto

 

Ringrazio l’Assessore Bracco, la Presidente Marini e la Regione dell’Umbria per l’invito rivoltomi. E’ un’occasione di confronto importante per ricercare soluzioni nuove, per allargare il dibattito alle diverse componenti della società regionale. Vengo da un importante convegno interdisciplinare di studi su San Valentino che si sta svolgendo in questi giorni a Terni e che ha fatto emergere quanto la storia religiosa sia interna alla storia sociale e culturale delle realtà della nostra regione e come, viceversa, la storia della nostra regione sia interna alle vicende delle comunità religiose. E’ un punto questo che mi sta particolarmente a cuore e che purtroppo è stato poco perseguito nel passato. A mio avviso va compresa e sollecitata quella insopprimibile esigenza di pluralità che sola può rendere efficaci i nostri sforzi per far crescere le realtà regionali, renderle più vivibili ed anche più giuste. Se non si riconosce questa esigenza di pluralità saremo complici di un danno per tutte le realtà sociali della nostra regione. Sarebbe, in fin dei conti, un modo per far vincere l’ideologia contro la ragione, contro il confronto critico, contro la stessa cultura.

 

Certamente la cultura ha a che fare con una dimensione non settoriale della vita sociale e delle singole persone. Per questo è essenzialmente apertura, disponibilità a lasciarsi interrogare dal nuovo, disponibilità ad abbandonarsi al mistero. L’impegno per la cultura fa superare la pericolosa tentazione di difendere la propria identità storica senza rinnovarla. Scrive il Compendio della dottrina sociale della Chiesa: “Una cultura può diventare sterile ed avviarsi a decadenza quando si chiude in se stessa e cerca di perpetuare forme di vita invecchiate […] La formazione di una cultura capace di arricchire l’uomo richiede invece il coinvolgimento di tutta la persona, la quale vi esplica la sua creatività, la sua intelligenza, la sua conoscenza del mondo e degli uomini, e vi investe, inoltre, la sua capacità di autodominio, di sacrificio personale, di solidarietà e di disponibilità a promuovere il bene comune”(n.556). Sono parole che spingono nel cuore del dibattito, e chiamano in causa le relazioni tra cultura, creatività, sapere e responsabilità sociale.

 

Non sono stato presente al dibattito, ma dalle poche battute che sono riuscito a cogliere mi pare che due siano le questioni principali intorno alle quali la discussione dovrebbe continuare. Innanzi tutto quella del rapporto tra cultura e sviluppo economico locale. Su questo aspetto penso che la conferenza ha detto parole importanti che dovrebbero ri-orientare le azioni e i comportamenti. Insomma, alle parole d’ordine debbono seguire le azioni, i comportamenti e le politiche. In una mia intervista di qualche settimana fa sottolineavo quanto la cultura fosse importante per la crescita economica, per l’ampliamento delle condizioni per edificare una società più vivibile e più giusta. Non solo. La cultura è anche un settore produttivo, una parte cioè del complesso sistema attraverso il quale l’economia cerca di rispondere ai bisogni delle persone, rispettandone la libertà e la dignità. Investire in cultura come modo per fare politiche di sviluppo locale non è dunque solo pensare alla conservazione dei beni culturali. Cosa importantissima e da sostenere con investimenti per rendere fruibile il patrimonio della nostra storia artistica, religiosa e intellettuale. E non è neppure soltanto pensare alla cultura e agli “eventi culturali” come strumenti per la messa in moto di flussi turistici. Intendiamoci, anche in questo caso nessuno può minimizzare l’importanza – non solo economica – del turismo culturale, come di quello religioso e di quello ambientale. Tutti fenomeni in grado di generare crescita, integrazione, solidarietà. Tuttavia la questione che forse deve starci ancor più a cuore, in Umbria, è quella della cultura come produzione, come creazione, nel campo dell’arte, dello spettacolo, delle nuove tecnologie, della ricerca. Non possiamo rinchiuderci nei confini, pur importanti, dell’indotto commerciale e turistico quando pensiamo alla cultura come motore di un nuovo sviluppo dell’Umbria.

 

In secondo luogo occorre riflettere con attenzione sul modello di società regionale che abbiamo in mente. E qui occorre essere estremamente franchi. Più volte, in diverse occasioni, ho voluto sottolineare che la nostra società regionale è una realtà policentrica; una società quindi con molti centri – e quindi in un certo senso senza “un” centro – che si articola secondo una molteplicità di funzioni sociali: la cultura, la religione, la politica, l’economia. E nessuna di queste funzioni sociali vanta un primato sull’altra. “Privato” e “pubblico” sono categorie che non riescono più a comprendere la complessità della attuale situazione e tanto meno per affrontare adeguatamente le grandi sfide che ci sono davanti. Tutte le “realtà” che compongono la società concorrono, ciascuno nel modo proprio, a far crescere l’intera società regionale, cioè tutte concorrono a quello che nell’insegnamento sociale della Chiesa viene definito il bene comune. E’ in questa ottica che occorre dunque pensare tutte le forme di collaborazione e di cooperazione necessarie a rendere le nostre realtà regionali capaci di affrontare le sfide che le attendono. Si tratta di mettere in atto una collaborazione e una cooperazione che debbono nascere dalle affinità che fanno la forza di un progetto condiviso e non da “decisori” che aspirano a comprendere la società regionale meglio di quanto la società, in tutte le sue articolazioni, comprenda se stessa. In altri termini, debbono nascere in una logica realmente sussidiaria.

 

Un elemento cruciale di questa lettura poliarchica è il tema della città e quindi dell’economia della cultura. E’ la realtà urbana infatti a fornire opportunità, dimensione, apertura alle risorse creative indispensabili per dare forma a quella miscela istituzionale, fatta di istituzioni economiche, culturali, religiose, politiche, in grado di generare crescita e sviluppo. Città e creatività sono legate essenzialmente perché lo sviluppo della creatività non è una questione di genio individuale ma il frutto di una evoluzione istituzionale, il frutto di una virtuosa interazione tra istituzioni. E la città è la prima tra le istituzioni sociali, fatte di norme, di regole, di costumi, che possono ospitare lo sviluppo della creatività. Questo punto merita qualche cenno in più. La creatività è un modo di essere dell’ambiente sociale, un insieme di relazioni che caratterizza una realtà territoriale. Si parla infatti di città creative come di città che cercano soluzioni nuove, inusuali, non scontate, per problemi altrettanto nuovi; che cambiano il modo di pensare i problemi anziché arrendersi di fronte all’impossibilità di risolverli dentro i modelli del passato. Tuttavia, molti fattori possono soffocare la creatività e spegnere la crescita delle città. La città creativa è fatta di pluralità, di diversità, di apertura. Essa teme gli interessi chiusi e corporativi dei ceti e dei gruppi, a partire dal ceto politico; teme la mancanza di opportunità per tutti, indipendentemente dalla condizione sociale di origine o dalla cerchia sociale di appartenenza; teme la mancanza di scambio e di apertura dei gruppi professionali, delle diverse realtà economiche, delle organizzazioni culturali. Spesso, purtroppo, sono proprio le organizzazioni culturali i primi ostacoli verso la crescita della creatività. E non c’è da sorprendersi. L’inerzia istituzionale, per così dire, colpisce tutte le istituzioni e tutte le organizzazioni che vivono la dimensione storica del tempo e quindi del limite. E forse un esame di coscienza è bene farlo. Mi tornano in mente le parole che Paolo VI – volendo guardare all’interno della realtà ecclesiale – rivolse nel 1964 agli artisti parlando del rapporto della Chiesa con loro: “Noi vi abbiamo fatto un po’ tribolare. Vi abbiamo fatto tribolare, perché vi abbiamo imposto come canone primo la imitazione, a voi che siete creatori, sempre vivaci, zampillanti di mille idee e di mille novità. Noi – vi si diceva – abbiamo questo stile, bisogna adeguarvisi; noi abbiamo questa tradizione, e bisogna esservi fedeli; noi abbiamo questi maestri, e bisogna seguirli; noi abbiamo questi canoni, e non v’è via di uscita. Vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci”. Ma non dovrebbero anche altre istituzioni e organizzazioni chiedere perdono e ristabilire quella che Paolo VI chiamava l’amicizia tra l’arte e le istituzioni sociali, tra l’arte e la Chiesa, tra l’arte e la città?

 

Per ristabilire oggi l’amicizia tra la cultura e la città, tra la creatività e la città, occorre rompere gli steccati degli specialismi e delle particolarità per sperimentare, sul piano dei rapporti sociali e su quello della produzione delle idee, il senso di una città aperta e pluralista. Quello tra specialismo e creatività è un rapporto dialettico, non identitario né di radicale opposizione. La creatività infatti non cresce solo all’interno dello specialismo; non è però neppure associabile all’approssimazione intuitiva, al ribellismo narcisistico o alla fantasia che rifugge dal confronto con la realtà e la funzionalità delle cose, dei progetti, dei pensieri. Cioè dalla responsabilità verso l’altro. E’ fatta quindi di disciplina e di istituzioni sociali. Gli imprenditori, ad esempio, sono in prima linea in questo sforzo di promozione della creatività. La città creativa ha infatti assoluto bisogno di imprenditori che aprano il loro lavoro alla logica dell’innovazione, che trasformino le potenzialità creative in opportunità e strumenti a disposizione di tutti. Sono loro a dover andare controcorrente per contribuire ad orientare in modo sempre nuovo il nostro sistema economico regionale. E’ qui che tocchiamo con mano il rapporto tra cultura ed economia. La cultura come fattore di sviluppo locale ma anche come oggetto di intrapresa economica e di innovazione imprenditoriale. Oggi è fondamentale sottolineare come una nuova stagione di sviluppo per le realtà regionali dell’Umbria passi innanzi tutto attraverso il coraggio dell’innovazione imprenditoriale. Schumpeter, grande economista del XX secolo, afferma: quando si intraprende la via dell’innovazione “ciò che era prima un aiuto diventa un impedimento. Ciò che era un dato familiare diventa un elemento ignoto”.

 

Se la dimensione urbana è la dimensione della pluralità per eccellenza, ogni riflessione sul rapporto tra cultura ed economia, tra cultura e sviluppo locale in Umbria non può prescindere dal riconoscimento delle diverse storie e delle diverse vocazioni delle città della nostra regione. Città industriali e città d’arte giungono ad uno stesso obiettivo, investire nella cultura per migliorare lo sviluppo locale, con percorsi ed individualità distinte. Questa diversità si presenta come un elemento di ricchezza e come peculiarità dell’intero processo che abbiamo di fronte. E’ una diversità che ci deve spingere a spostare più in alto l’asticella non ad abbassarla per trovare un livello di partenza soddisfacente per tutti. Ogni azione di sostegno a questo processo deve tenerne conto, sia essa realizzata dall’amministrazione pubblica, dal mondo dell’impresa, dal mondo del no profit e così oltre. Ciascuno dei gruppi dirigenti di queste diverse sfere sociali, quando si rivolge al catalogo delle possibili azioni per uno sviluppo fondato sulla cultura, si trova davanti ad un bivio, come il regista di uno spettacolo. E deve decidere, come scrive il grande sociologo Simmel, “se sia più conveniente per l’effetto complessivo lasciare che ogni attore esplichi la sua piena individualità, accrescendo ed animando l’insieme attraverso il concorso di sforzi indipendenti, oppure se il quadro artistico complessivo debba abbassare le individualità a un arrendevole adattamento”.

 

Penso che l’Umbria, per arrestare il lento processo di allontanamento dalle realtà più sviluppate del paese, debba sostenere con forza il “concorso di sforzi indipendenti”, secondo quella visione di società poliarchica che ho prima ricordato. In questo concorso un ruolo fondamentale spetta alla ricerca scientifica e all’università. Penso non ci sia esempio importante di città che hanno investito sulla cultura come motore di sviluppo che non abbia visto protagonista l’università. E questo discorso non può non riguardare anche le Università che sono nella nostra regione e tutti gli istituti di alta formazione. E qui un esame della situazione non può che renderci più che preoccupati. Il rapporto tra l’Università e le realtà regionali dell’Umbria deve certamente essere ripensato. Tutto il modello del decentramento, ad esempio, richiede una radicale revisione, uno scatto in avanti, un forte gesto di coraggio. Occorre chiedersi se non sia opportuno sondare anche altre soluzioni per lo sviluppo di istituzioni universitarie nella nostra regione. Anche in questo caso pluralità e sana competizione funzionano meglio di tanti verticistici modelli di programmazione.

 

Credo, infine, che le Chiese delle otto diocesi dell’Umbria e tutte le comunità religiose della regione svolgono – e debbono crescere sempre più in questa prospettiva – un ruolo fondamentale. Innanzitutto come comunità che partecipano agli sforzi dell’intera società regionale per individuare nuove vie per lo sviluppo e poi come luoghi di produzione di cultura. Lo dimostra il cammino di riflessione e di proposta che come Conferenza episcopale umbra abbiamo avviato in questi anni attorno alla questione del bene comune dell’Umbria. Un cammino che è ben rappresentato dal volume “Poliarchia e bene comune” recentemente pubblicato dall’editore il Mulino. Dalla robustezza delle esperienze religiose delle comunità cristiane dipende infatti la qualità del tessuto sociale, il grado di diffusione della fiducia e della cooperazione, la disponibilità ad una partecipazione intensa ed esigente, tutte condizioni fondamentali per la stabilità di ogni modello di sviluppo. E in particolare di un modello sofisticato come quello fondato sulla cultura.

 

La cultura può certamente diventare li motore di un nuovo sviluppo dell’Umbria. Dobbiamo tutti avere il coraggio delle scelte che consentano a questo motore di avviarsi e di non spegnersi.

Vincenzo Paglia