Più fede e più ragione

Intervista di Famiglia Cristiana

CHIESA E SOCIETÀ
INTERVISTA A MONSIGNOR PAGLIA, VESCOVO DI TERNI

PIÙ FEDE E PIÙ RAGIONE

Nel libro Essere cattolici, scritto con Saverio Gaeta, espone la necessità di tornare al Vangelo. Ma anche quella di costruire un mondo di giustizia. Per tutti.

di Alberto Bobbio


Il titolo del libro è Essere cattolici. Lo ha scritto monsignor Vincenzo Paglia, vescovo di Terni, dialogando con Saverio Gaeta, uno dei capiredattori di questo giornale.


Non è una sorta di compendio della fede cattolica, non mette in fila le risposte alle domande come si faceva negli antichi catechismi. È un libro che racconta i significati della fede, quella verità dei Vangeli che oggi rischia l’oblio e l’irrilevanza. E spesso perché i cristiani non sanno trovare le parole per narrarla di nuovo e si limitano a ripetere formule dogmatiche.


Monsignor Vincenzo Paglia è invece uno che è abituato a trovare le parole giuste. È presidente della Commissione della Cei per l’ecumenismo e il dialogo e della Federazione biblica cattolica, è uno dei leader dell’Associazione “Uomini e religioni” della Comunità di Sant’Egidio, che ogni anno, ormai da quasi venti, organizza gli incontri interreligiosi per la pace, il dialogo tra le fedi e le culture.

Eccellenza, pure la Costituzione europea non ha considerato le radici religiose. Risultato dell’irrilevanza?

«Sicuramente, ma anche grande errore. È una Costituzione un po’ pallida, perché nasce al minimo. Ed è debole perché l’assenza della memoria della sua storia, delle sue radici giudaico-cristiane, rischia di non dare prospettive a questa Europa».

Quindi non si tratta, come dice qualcuno, di una battaglia che i cristiani hanno fatto per sé stessi?

«No, riguarda il futuro di tutti. La fiacchezza nel proporre ideali ampi e coraggiosi rende, ripeto, debole l’Europa. C’è una responsabilità dei cristiani nella comunicazione del Vangelo e c’è persino una responsabilità nelle divisioni tra i cristiani che non fa bene all’Europa».

Il dibattito sulle radici religiose ha intrecciato anche le polemiche sull’entrata della Turchia nell’Unione europea. 
Lei che opinione ha su questo argomento particolare?

«Occorre un’attenta riflessione: bisogna ragionare ed evitare decisioni affrettate. Ma non bisogna dimenticare che Costantinopoli faceva parte dell’Impero romano e che la tradizione bizantina nasce lì. Le radici cristiane dell’Europa sono legate in modo indissolubile alla Turchia. È una questione che va studiata con grande attenzione, ma anche con grande generosità».

C’è un rischio oggi, maggiore che nel passato, che si costruisca un’Europa solo dei mercati e dei mercanti?

«Il rischio c’è. La moneta unica è solo un gradino della Costituzione europea. Dobbiamo stare attenti a non perdere le ragioni di uno spazio europeo, che va al di là del mercato comune».

C’è chi osserva che si era più europeisti negli anni Cinquanta e Sessanta, quando si facevano le prove d’Europa. Lei è d’accordo?

«Sì, direi proprio di sì. Lo slancio ideale era maggiore e credo che esso fosse legato all’ispirazione religiosa dei grandi padri dell’Europa. Anche la laicità vive di questa ispirazione. Sarebbe sciocco tentare di scomporre l’idealità, dividere e quindi mettere all’angolo un elemento o un altro. In Europa il conflitto di civiltà è sconfitto in radice. Anzi, noi abbiamo un patrimonio, direi un agglomerato complesso di religione e laicità da proporre al mondo. 
Come esempio».

E l’Italia? Lavoro precario, insicurezza di prospettive, depressione. Secondo lei, la politica è un po’ in affanno?

«Concordo sull’analisi. Anzi, da non pochi anni la politica si è smarrita. 
Ci siamo attardati nel dibattito sulle strutture: legge elettorale e riforme costituzionali. E il contenuto? Non ci chiediamo per fare che cosa, quale tipo di società vogliamo costruire, quale tipo di Paese. Non ci occupiamo di prospettive che intrecciano tutti i ragionamenti sulla bioetica, sull’immigrazione, sulla pace, sul lavoro, sull’assetto del mercato, insomma, sui grandi temi. Discutere di tasse senza sapere quale Paese vogliamo non ha senso. Nel dopoguerra l’Italia è nata sulla base di una grande, corale riflessione sul bene comune, prima che sul bene privato. Questo oggi è esattamente il problema della politica».

Quindi, si contrappone la libertà all’uguaglianza…

«È inevitabile nella misura in cui è assente un dibattito sul bene comune. 
È per questo che la solidarietà è vista come un pericolo e non come prospettiva di crescita di un Paese nuovo».

C’è anche chi accusa la Chiesa di essersi tirata un po’ indietro, di difendere solo i propri privilegi acquisiti. Lei cosa ne pensa?

«La Chiesa ha tutte le carte per stare dentro alla discussione sulle prospettive del Paese. C’è, tuttavia, il rischio di una sorta di provincialismo ecclesiastico, parrocchie e diocesi ripiegate su sé stesse, che perdono la dimensione della costruzione non solo del Paese, ma anche dell’Europa e del mondo. 
Per questo io dico, nel libro, che occorrono più religione e più fede. Cioè, i cristiani devono essere più consapevoli del perché vanno in chiesa e per chi. 
Il Papa, alle Chiese ossessionate dai programmi, recentemente ha detto che il programma c’è già: Cristo Gesù, che va conosciuto e amato. E si tratta di un programma assai diverso da quello di chi ha nostalgia della cristianità, che invece è l’ossessione dei laici cosiddetti devoti, gente che confonde il cristianesimo con la cultura occidentale».

Ma lei nel libro osserva che c’è bisogno anche di più ragione. Cosa vuol dire con questo?

«Che noi stiamo incanalando la ragione solo sulla tecnica, per cui tutto ciò che è possibile è anche buono. Le sonde scendono su Marte, ma ancora manca l’energia elettrica in buona parte del mondo. Continuiamo a produrre, ma la ricchezza sta solo nelle mani del 20 per cento dei popoli. Creiamo ulteriori squilibri non più solo tra Nord e Sud. Così nel Sud aumentano i nuovi ricchi e al Nord i nuovi poveri. Dico che c’è bisogno di più ragione perché stiamo costruendo il mondo in modo assolutamente irrazionale».

Ed essere cattolici cosa significa?

«Avere più misericordia, più passione, più generosità, dare voce a chi non ce l’ha e fare della preghiera la radice della propria vita. Uno che ha più fede non sarà mai violento, saprà mediare, non avrà paura e quindi sarà in grado di dialogare con tutti, come Gesù. La paura e l’insicurezza sono la fonte di ogni fondamentalismo. Oggi vi sono due patologie drammatiche: l’integralismo e il relativismo. Attaccano sia la religione sia la fede e deformano entrambe. 
Ecco perché dico che occorrono più fede e più ragione».