Pasqua 2008 – Venerdì santo

Pasqua 2008 - Venerdì santo

Care sorelle e cari fratelli,


 


abbiamo ascoltato il racconto della Passione di Gesù. Ogni volta il nostro cuore si commuove nel vedere come un uomo così buono sia stato invece condannato e crocifisso. Siamo tutti tentati di dire che se ci fossimo stati noi le cose non sarebbe andate così. In verità, noi continuiamo a far parte di coloro che lo hanno messo a morte. Se anche Pietro, che era il primo dei discepoli, è stato complice di questa morte, quanto più noi? Infatti, ogni volta che non ascoltiamo il Vangelo, ogni volta che seguiamo più noi stessi che l’amore per il Signore, ogni volta che ci dimentichiamo di lui per pensare solo a noi, ogni volta che facciamo del male agli altri, oppure tutte le volte – e forse sono la maggioranza – che non facciamo del bene agli altri, diventiamo complici di quella folla che scelse la violenza, ossia Barabba e non Gesù, il mite ed umile di cuore. Ma il Signore lo sa e per questo è venuto in mezzo a noi e vuole che i nostri cuori cambino e diventino simili al suo. Abbiamo ascoltato dal vangelo di Giovanni che un soldato gli trafisse il cuore con una lancia ed uscì “sangue ed acqua”, come a voler sottolineare che ci ha amato sino all’ultima goccia di sangue. Ha versato tutto il suo sangue per noi, ossia ha spesso tutta la sua vita per noi. Ci ha amati più di quanto noi amiamo noi stessi.


E sulla croce appare con una chiarezza incredibile proprio questo amore senza limiti di Gesù. Fermiamoci a considerare le sue parole sulla croce riportate dal vangelo di Giovanni. La prima parola è rivolta alla madre. Gesù la vede sotto la croce e magari ricorda come in una sintesi l’intera vita passata con lei. Ora sarebbe rimasta sola. Gesù non pensa a sé, non chiede alla madre di aiutarlo. Gesù pensa a lei e le dice: “Donna ecco tuo figlio”. Gli affida il giovane discepolo. Potremmo tradurre: “Amalo come ha amato me” e poi rivolto al discepolo: “Ecco tua madre”. Maria avrebbe in certo modo preso il discepolo sotto la sua materna protezione. Ma il miracolo più vero è quel che nota dopo l’evangelista: “E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé”. Care sorelle e cari fratelli, dalla croce, che doveva significare la conclusione ingloriosa di questo giovane profeta di Nazaret, nasceva una nuova famiglia, la comunità dei credenti. La croce che doveva significare lo scioglimento di ogni legame, nasceva una nuova solidarietà tra un giovane e una anziana. Dalla croce, dall’amore rinasce la vita.


L’altra parola che segue a queste è la richiesta di un bicchiere d’acqua: “Ho sete”. Forse mai come ora si comprende quel che Gesù aveva detto: “Ho avuto sete e mi hai dato da bere”. Purtroppo quei soldati gli diedero una spugna imbevuta di aceto. E la rifiutò. Certamente Gesù aveva la gola riarsa e aveva bisogno di una bevanda per vincere l’arsura. Ma la sua gola riarsa era il segno di un’altra sete, quella degli uomini. L’aveva già detto al pozzo di Samaria, quando Gesù chiese a quella donna di darle da bere. Gesù aveva certamente sete, era mezzogiorno, più o meno la stessa ora della croce, ma la sua vera sete era il cuore di quella donna, voleva liberarla dalla schiavitù della solitudine ridarle la serenità e la salvezza. Gesù sulla croce ha sete del nostro amore. Per questo è venuto sulla terra. Purtroppo il contrasto sta nel confronto con noi: egli ha sete di noi e noi non solo non ce  ne accorgiamo ma non abbiamo sete di lui. Andiamo a dissetarci in tante altre fontane eccetto che alla sua. Facciamo nostra la preghiera del salmista: “O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta arida, senza acqua”(Sl 63,2). Apprendiamo oggi ad avere sete di Gesù. E saremo dissetati, come disse alla samaritana: “Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete” e aggiunse: “Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4, 14).


La terza e ultima parola pronunciata da Gesù sulla croce è: “E’ compiuto!” Con questa espressione Gesù affermava che la sua vita terrena era finita e che aveva portato a compimento la missione che il Padre gli aveva affidato. Poteva finalmente incontrare la morte. E, infatti, nota l’evangelista: “chinato il capo, spirò”(Gv 19,30). Aveva superato tutte le tentazioni che gli si erano parate avanti e aveva scelto sempre di fare la volontà del Padre, come aveva sempre detto: “Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”(Gv 4,34). L’ora, quella per la quale era venuto – un’ora difficile, anzi drammatica – era finalmente giunta e Gesù l’ha vissuta fino in fondo, gli è andato incontro, come abbiamo ascoltato nel Vangelo al momento della cattura nell’Orto degli Ulivi. L’intera storia di salvezza narrata nelle Scritture trovava nella croce il suo compimento, come lo stesso Giovanni scrive: tutto avveniva “perché si adempisse la Scrittura”(Gv 19,24).


La Croce è divenuta salvezza e fonte di vita. Oggi la Chiesa è certamente triste per la morte di Gesù e chiede a ciascuno di noi di sostare sotto la croce. Le chiese sono spoglie, non c’è la Messa e al vescovo è chiesto di non portare l’anello in segno di lutto. Ma in quella croce noi già vediamo la risurrezione. Non è una morte senza speranza, per questo noi cristiani, di fronte alla morte, siamo addolorati ma non disperati, tristi ma non senza speranza. La Croce diviene segno di vita, segno di un amore che non consoce limiti. Ed è per questo che la liturgia ci invita a pregare per il mondo intero, perché la morte di Gesù non sia vana. E’ una preghiera che si estende da un capo all’altro della terra come le braccia della croce perché tutti, a qualsiasi nazione cultura fede appartengono, siano abbracciati dalla croce di Gesù.