«Paradiso e inferno sono qui tra noi»
Per Francesco d’Assisi, ormai alla fine dei suoi giorni, era la benvenuta, al punto da sentirla sorella. Sorella morte è il titolo che don Vincenzo Paglia ha deciso di dare al suo nuovo libro (Piemme), che affronta il tema più scandaloso della vita. «Più dolce sarebbe la morte se il mio sguardo avesse come ultimo orizzonte il tuo volto», fa dire Shakespeare ad Amleto. In questa vicinanza e in questa condivisione è forse la ragione stessa del libro, nato prima dall’esperienza diretta e dalla conseguente riflessione con gli amici della Comunità di Sant’Egidio: «Ci siamo trovati per anni di fronte a situazioni liminari, con i malati di Aids quando la loro condanna era inevitabile, o con i tanti anziani accompagnati sino alla fine dei loro giorni. Abbiamo sentito il bisogno di affrontare il tema dell’eutanasia che appare una cesura violenta e problematica: di qui, via via, la discussione si è allargata non solo alle questioni che riguardano la legge e la medicina ma all’intero mistero della morte e della vita».
In genere, di fronte al morire si rimane senza parole: il suo libro sfida il tabù.
«In effetti, affrontando la questione della morte, si è come sbattuti di fronte ad un mistero impenetrabile e che tuttavia ci coinvolge in maniera drammatica. E non si trovano parole. Il credente deve ripartire da Gesù. Sono le pagine centrali del libro che mi hanno permesso di dialogare con le diverse sensibilità, anche laiche, alla ricerca di parole che accomunino. È il tentativo di trasmettere un po’ di speranza, contro il rischio di banalizzare la vita e di occultare la morte. Oggi, la morte è diventata la nuova pornografia. Deve essere nascosta e guai a “svelarla”. E invece è necessario — per dire — toglierle il burka».
Non le pare che spesso il mondo cattolico sia prigioniero delle dichiarazioni dottrinarie di principio e che fatichi a percepire il cambiamento?
«Certo, anche noi cristiani dobbiamo ripensare le questioni ultime: l’oltre dopo la morte, l’Inferno, il Paradiso, il giudizio, la salvezza. Dobbiamo ripensarle nel cuore della storia, e non come una cosa solo a venire. Nel Credo affermiamo di credere nella “vita eterna”, non semplicemente nell’“aldilà”. La fede va legata alla vita, all’oggi. Ad esempio, l’inferno inizia già da questa terra: la Siria, la Nigeria, i bambini che muoiono di fame, i naufraghi nel Mediterraneo, non stanno vivendo l’inferno? Anche il Paradiso inizia qui: ogni volta che facciamo un gesto d’amore… Mi ha colpito il racconto di suor Emanuelle, una donna che trascorse la sua vita nel quartiere dell’immondizie del Cairo: lei mette in parallelo la morte triste di Onassis, abbandonato in una clinica, e quella consolata di un povero raccoglitore di immondizia circondato dall’amore di chi gli voleva bene».
Come si può liberare dal male un mondo che conosce lo sterminio quotidiano, le tragedie del mondo, il naufragio di massa dei migranti nel Mediterraneo, la morte per fame dei bambini, la violenza cieca del terrorismo islamico?
«Il Signore della creazione è il nemico irriducibile del male e della morte: combatte l’una e l’altra e non sopporta che si abbattano sugli uomini. E chiama i credenti a combattere. Certo, appare una battaglia impossibile, ma la fede è anche lotta (agonia). San Paolo invita a sperare contro ogni speranza (una frase che piaceva molto anche a Pannella), e aggiunge che la speranza non delude. L’amore è la chiave della fede e della vittoria sulla morte, è l’arma contro lo sterminio quotidiano che continua proprio perché manca l’amore. Mentre crescono muri e diffidenze. La morte inizia il suo lavoro più distruttivo là dove non c’è l’amore e l’uomo resta solo».
È nell’idea di uomo come essere «relazionale» che si innestano i suoi dubbi sull’autodeterminazione?
«Certo. La libertà individuale — che resta una grande conquista — se è sciolta da qualsiasi vincolo ci getta nella fossa della solitudine con un illusorio delirio di onnipotenza. Guai a sentirci padroni assoluti della nostra vita, a sentirci come Dio. L’amico Giuseppe De Rita ha ragione nel parlare di “egolatria”, di un nuovo culto, quello dell’Io, sul cui altare sacrifichiamo tutto, noi stessi e gli altri, in ambito privato e in ambito pubblico. Pensiamo ad Aleppo. Sugli altari degli interessi individuali delle diverse parti si sacrificano bambini, donne, gente inerme con la sola colpa di stare ad Aleppo. In una cultura iperindividualista, l’interesse individuale prevale sempre su quello pubblico. Ma siamo tutti interdipendenti, persone e popoli. La dimensione della relazionalità va riconquistata.
Un capitolo del suo libro si intitola con un verso di John Donne: «Nessun uomo è un’isola».
«Rispetto alla autodeterminazione nel campo individuale, nel libro riporto la reazione di Luciana Castellina di fronte alla decisione di Lucio Magri di darsi la morte in una clinica. Mi ha colpito la sua riflessione. Lei, anche se favorevole alla legge sull’eutanasia, ha affermato di non riuscire a perdonarlo: “Vuol dire che i legami di amicizia non servono a fermarti e che il tuo dolore conta più del dolore che procuri”. Sento una grande preoccupazione di fronte all’aumento dei suicidi. È sempre una sconfitta. Di tutti».
È difficile rendere conto agli altri di ogni tuo gesto intimo. Come possiamo condannare il suicidio di Pavese o di Primo Levi o di tanti altri che hanno voluto andarsene per ragioni insondabili?
«La scelta suicida non è mai un valore. Sempre lascia inevasa una disperata domanda di amore, di senso, di un futuro diverso. È come voler passare ad una vita migliore senza il ponte: si cerca con un salto — drammatico — di raggiungere l’altra sponda. Per questo guardo quel dolore con misericordia e persino con tenerezza. E mi interrogo: noi dove stavamo? E se mi viene chiesto, da sacerdote celebro sempre il funerale. A chi si è tolto la vita desidero offrire quella sponda che non ha trovato prima. Dio ascolta quella scintilla d’amore. Non è né sordo né distratto».
Nel libro ricorre la metafora del tenersi per mano.
«È la metafora della vita e della morte. Siamo gli uni legati agli altri, tutti, la solitudine è contro natura. Chi non sa stendere le mani per gli altri è un “misantropo” nel senso più deteriore della parola. Dio stesso sentì il bisogno di mani amiche, soprattutto nei momenti drammatici della sua morte. Pensiamo ai baci di quella donna mentre gli ungeva i piedi. E poi è la scena dell’orto degli ulivi e della croce che ci dicono il bisogno di amore. È il filo che unisce le pagine di questo libro».
Lei è contrario alla legge sul testamento biologico?
«Non è proprio così. Sulla questione delle dichiarazioni anticipate di volontà ci sono molte domande di diversa natura, compresa quella sul suo valore giuridico. Non dico che non si debbano scrivere le proprie volontà, scriviamole pure, ma deve sempre prevalere la relazione affettiva, appassionata, anche dialettica, tra coloro che sono coinvolti. Fare credito all’amore degli altri è un modo per sfidare la morte, per non lasciarle l’ultima parola. Anche la morte va affrontata assieme, come la vita».
Si ha sempre l’impressione che quando si parla di questi temi si formino i soliti schieramenti ideologici o fideistici e che nessuno sia disposto davvero ad ascoltare l’altro.
«Nel libro cito più volte il presidente Mitterrand, uomo di profonde convinzioni laiche, per il coraggio di ricercare risposte alla morte e alle questioni ultime. È un esempio straordinario di umanista. Sarebbe utile che laici e credenti moltiplicassero dibattiti e confronti su questi temi. È uno degli obiettivi che mi propongo con questo libro. Del resto, il radicarsi della mentalità consumista, che nega nei fatti ogni dimensione agonica della vita, porta ad anestetizzare l’esistenza. La dittatura dell’Io porta a disinteressarsi della comunità. Hannah Arendt individuava nell’atomizzazione della società il miglior alleato dei totalitarismi».
Fatto sta che la scienza permette sempre più di sottrarre la morte ai ritmi naturali e di consegnarla alla scelta del singolo per evitare una sofferenza prolungata e penosa.
«Credo sia indispensabile suscitare una nuova cultura della vita, come anche un impegno più deciso per favorire le terapie contro il dolore. Comunque non mi pare saggio legiferare sulle questioni ultime, essendo privi di pensiero e di parole condivise sulla vita e sulla morte. Oltretutto — come dice Gustavo Zagrebelsky — di fronte alle questioni ultime siamo sempre penultimi. Resta infatti aperto il progresso della scienza, la possibilità di nuove medicine, e così via».
Qual è il suo obiettivo come Presidente dell’Accademia per la Vita, nominato di recente dal Papa?
«Dialogare, creare ponti, anche in maniera dialettica, creare un nuovo umanesimo. È una prospettiva su cui Papa Francesco non cessa di insistere. Solo i ponti permettono di passare da una parte all’altra. Il fondamentalismo è assenza di ponti: esistono solo pilastri lontani gli uni dagli altri. La verità è “dialogica”: essa cerca di unire non di separare. Anche noi cristiani dobbiamo rimetterci in discussione e senza timori percorrere anche le frontiere più delicate. A chi lo accusava di essere troppo rivoluzionario, Giovanni XXIII rispondeva: “Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che lo comprendiamo meglio”».
Lei è stato presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia: che relazione c’è tra il sentimento della morte e i cambiamenti della famiglia…
«È il tema di oggi e di domani. Ed è una sfida da affrontare proprio mentre la morte è occultata e la famiglia bersagliata. C’è già una voragine tra la famiglia e la morte: alcuni decenni fa, i bambini stavano intorno al letto del nonno morente. Oggi, invece, vanno accuratamente tenuti lontani (anche se poi li vediamo vittime innocenti delle guerre senza reagire come si dovrebbe!). Questa separazione è una violenza: oscurando la morte, si cancella il senso stesso delle generazioni. Un riverbero è l’abisso che stiamo ponendo tra giovani e anziani. Va recuperata l’alleanza tra le generazioni. La morte fa parte del programma. Cancellarla significa eliminare la coscienza della continuità della vita, del passaggio del testimone».
Abbiamo cominciato accennando all’esperienza diretta: che cosa si prova accompagnando qualcuno verso la fine?
«Seguire il morente è un’esperienza profondamente umana: costringe a ad amare, a pensare agli altri e anche a se stessi, alla propria fragilità e al bisogno di aiuto. Tra i tanti ricordi mi viene in mente ora Pietro Scoppola, a dieci anni dalla sua morte. Intuendo che il nostro sarebbe stato l’ultimo incontro, mi volle vedere vestito e seduto sulla sedia: voleva benedirmi. Tante riflessioni avevamo avuto tra noi, anche vivaci, sulla Chiesta, sul paese, sulla vita umana, ma quella volta — come da una cattedra — volle dirmi parole di benedizione. È difficile dimenticare incontri come questi. Altre volte le situazioni sono più drammatiche e magari il pianto prevale, ma stare comunque accanto a chi muore e tenersi per mano, vale la vita».