Omelia alla messa finale al Congresso sulla Dei Verbum

Omelia alla messa finale al Congresso sulla Dei Verbum

Care sorelle cari fratelli,


 siamo giunti al termine di questi nostri giorni che ci hanno visti radunati per ricordare i 40 anni della Costituzione conciliare sulla Parola di Dio. Sono stati giorni intensi di riflessione, di dibattito, di ascolto e di preghiera. Man mano passavano i giorni ho visto crescere nei vostri volti la gioia; la gioia di essere assieme avendo al centro la Parola di Dio. Anche noi, potremmo dire come i due di Emmaus che il nostro cuore si è  riscaldato. E dalle nostre labbra sale la stessa preghiera: “Resta con noi, Signore”. E il Signore resta. Sì, il Signore resta con noi, non solo nel ricordo di questi giorni ma soprattutto è per noi una consegna o, se volete, irrobustimento della nostra vocazione ad essere ascoltatori e servi della Parola.


Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci suggerisce che il Signore resta con noi come un seminatore che continua a seminare la sua parola. E la semina anzitutto nel nostro cuore. Il Papa Benedetto XVI ce lo ha ricordato. L’intera Chiesa e ciascuno di noi vive non per stesso ma per il Vangelo. Luca ci dice che Gesù ha davanti a sé una folla numerosa che attende da lui una parola. E’ l’immagine stessa della Chiesa che prefigura quella dell’intera umanità. Sia noi che il mondo abbiamo bisogno di ascoltare la Parola di Dio, di nutrircene ogni giorno. Le nostre parole, quelle che ascoltiamo e quelle che il mondo continua a presentarci, non salvano e spesso rendono amara la vita. Per questo Gesu’ continua a parlarci. E questa parabola, ci mostra la centralità della Parola di Dio nella vita del credente. Caso raro nei Vangeli, Gesu’ stesso ne da la spiegazione, quasi a voler dire che, se non si comprende questa, non si possono comprendere neppure le altre pagine del Vangelo. Capirla perciò è essenziale per chi vuole seguire Gesu’. Il senso di fondo è chiaro: si deve vivere dell’ascolto del Vangelo e non della propria presunzione.


Narra l’evangelista che il seminatore esce per seminare e a larghe bracciate getta il seme; non sembra preoccuparsi di scegliere il terreno, visto che tre quarti dei semi vanno perduti a causa delle precarie o addirittura avverse condizioni del suolo. Ed infatti solo quei semi che cadono sulla terra buona danno un frutto abbondante. Gesu’, anche se non lo dice, si paragona al seminatore. E’ sua, del resto, tipicamente sua, certo non nostra, la generosità nello spargere il seme. Un generosità che potrebbe apparire faciloneria. Quel seminatore non è un misurato calcolatore nel gettare il seme. Anzi, potremmo dire che persino lo spreca. Sembra, inoltre, che riponga fiducia anche in quei terreni che sono piu’ una strada o un ammasso di pietre che una terra arata e disponibile. Eppure anche lì il seminatore getta il seme; chissà, magari in una crepa, potrebbe attecchire prima che il “maligno” venga e lo rubi. Certo è che tutto il terreno è importante per il seminatore. Importante forse quanto lo stesso seme. Può essere un terreno ingombro di sassi magari grandi come macigni, oppure pieno di erbe amare e di sterpaglie selvatiche; o anche arido e sassoso, scosceso e impervio. Eppure per il seminatore non c’è parte di questa terra che egli non consideri degna di attenzione. Nessun terreno è scartato, nessun cuore, nessuna nazione è inadatto al Vangelo.


Il terreno, infatti, è il mondo, ed anche quella parte di mondo che è ciascuno di noi. Non è difficile riconoscere nella diversità del terreno la complessità del nostro mondo e quella personale di ciascuno di noi. Gesu’ non vuol dividere gli uomini e le donne in due categorie, quelli che rappresentano il terreno buono e gli altri quello cattivo. Ciascuno di noi riassume tutte le gradazioni di terreno riportate dal Vangelo. Magari un giorno è piu’ sassoso e un altro meno; altre volte accoglie il Vangelo, ma poi si lascia sorprendere dalla tentazione; e in un altro momento ascolta e vive. Una cosa è certa: ogni persona ha bisogno che il seminatore entri nel suo terreno, perché ne rivolti le zolle, vi tolga i sassi, ne sradichi le erbe amare e vi getti con abbondanza il seme. Al terreno spetta il compito di accoglie il seme.


Il seme, lo sappiamo, è la Parola di Dio. Ed è sempre un dono. E pur venendo da fuori della nostra vita, entra così profondamente in essa da diventare una cosa sola, sino a trasformarla.


E’ in questo senso che si possono intendere le parole dell’apostolo Paolo a Timoteo quando afferma che le Sante Scritture sono “utili per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo. E’ a dire che la Scrittura trasforma il cuore, conduce l’uomo verso la sua pienezza.


Noi stessi, cari fratelli e sorelle, diventiamo discepoli, nella misura in cui cresciamo alla scuola del Vangelo e non di noi stessi. E a questa scuola si apprende l’urgenza di diventare a nostra volta servi di quel seme, ossia seminatori. Possiamo applicare anche qui le parole che Gesu’ rivolse ai discepoli dopo la moltiplicazione dei pani e disse loro: “Date voi stessi loro da mangiare”. Il miracolo del pane è di Gesu’, ma la distribuzione è dei discepoli. Così è della Parola. Essa è di Dio, ma la sua seminagione oggi è affidata a noi.


Talora può accadere che le nostre mani, abituate forse a toccare cose che giudichiamo grandi di valore, considerano poco questo piccolo seme. Quante volte anche noi abbiamo ritenuto ben piu’ importanti le nostre tradizioni e le nostre convinzioni rispetto alla debole e fragile parola evangelica! Eppure, come nel piccolo seme è raccolta tutta la forza che porterà alla pianta futura, così nella parola evangelica risiede l’energia che crea il nostro futuro e quello del mondo.


Questo congresso ci chiede una nuova generosità nello spargere il seme della Parola di Dio. E’ quell’entusiasmo per ogni manifestazione del libro di cui parlava papa Giovanni.

Voglia il Signore concedercelo. E vivremo anche noi la gioia dei primi cristiani quando vedevano la Parola di Dio crescere e moltiplicarsi.