Non è scontro di civiltà

Non è scontro di civiltà

Non è scontro di civiltà
Sono passati più di tre mesi dal tragico atto terroristico abbattutosi sugli Stati Uniti d’America. Un drammatico evento che ha cambiato il corso della storia. C’è chi dice che il nuovo secolo è iniziato in quel giorno. L’Europa non vedeva sul suo suolo la guerra da più di mezzo secolo. E gli Stati Uniti, che tante volte hanno partecipato a guerre fuori del loro territorio, non l’avevano mai vista a New York. Ecco perché quell’attentato ha reso tutti come attoniti, sconcertati, allibiti, impauriti. E ci ha visti tutti partecipare con profondo dolore a un lutto di un popolo colpito così duramente. Era ovvio che si creasse un fronte comune per combattere il terrorismo.


E il mondo intero sembra oggi come concentrato su questa lotta. Possono esserci differenziazioni sui metodi da usare, non certo sulla necessità di sradicare questa pianta velenosissima. E, in ogni caso, gli sviluppi che gli avvenimenti bellici stanno prendendo sono al centro dei pensieri dei governi e nello stesso tempo mettono in accelerazione le preoccupazioni della gran parte dei popoli. Ho già accennato su queste pagine al rischio che la paura che ormai domina tra la gente possa spingere ancor più a ripiegarsi su se stessi e a restringere lo sguardo sui propri piccoli orizzonti. Vorrei aggiungere una ulteriore preoccupazione. Ed è la seguente. Non possiamo fermarci a risolvere solo il presente, perché la soluzione è possibile unicamente se abbiamo già lo sguardo fisso sul futuro che vogliamo costruire. E’ a dire che dobbiamo domandarci già ora cosa accadrà una volta terminata la guerra. Ammettendo, infatti, che Ben Laden venga catturato e che il governo dei talebani sarà sconfitto, i problemi che ci hanno fatto cadere nella paura restano ancora quasi tutti sul tappeto. Se qualcuno dice che il mondo intero si trova immerso in una guerra di religione se non addirittura in un vero e proprio scontro di civiltà, rischia di portare acqua solo ai terroristi, i quali sono ben interessati a nascondere dietro queste idee i loro veri obiettivi. In ogni caso, una volta finita la guerra, ci troviamo ancora di fronte al problema della convivenza tra i popoli, tra le culture, tra le civiltà, tra le religioni. Per questo è drammaticamente urgente preoccuparsi sin da ora a come sia possibile convivere tra persone diverse, tra fedi diverse, tra popoli diversi.


E la convivenza è l’unico sbocco, se vogliamo vivere in pace. La globalizzazione del mercato, della tecnica, delle comunicazioni rende impossibile ogni divisione. Quel che nei secoli passati è stato possibile (in Europa si diceva: “cuius regio eius religio” per dividere i cattolici dai protestanti), ora è impossibile. L’ordine del mondo uscito dalla seconda guerra mondiale (quello che, nella sua drammaticità, ha comunque accompagnato gli ultimi cinquanta anni del Novecento con la divisione del mondo in due blocchi), non è più proponibile, seppure lo volessimo. Non ci resta altro che incamminarci verso la convivenza. Ed è qui pertanto che bisogna concentrare i nostri sforzi: ri-apprendere e ri-praticare l’arte del convivere (per secoli è stata possibile). E come ogni arte, anche questa richiede disciplina interiore, conoscenza e comprensione reciproca, superamento di pregiudizi e valori condivisi. Ma c’è una convinzione previa: nel fondo dei popoli e delle religioni ci sono le energie per la convivenza, come anche le forze bieche e violente. Si tratta di sconfiggere queste ultime e far crescere le altre. Un grande patriarca di Costantinopoli diceva: Tutti i popoli sono buoni. Ognuno merita rispetto e ammirazione. Ho visto soffrire gli uomini. Tutti hanno bisogno di amore, se sono cattivi è forse perché non hanno incontrato il vero amore…So pure che esistono forze demoniache e oscure, che a volte si impossessano degli uomini e dei popoli, ma l’amore di Gesù è più forte dell’inferno”. Non possiamo condannare nessun popolo in sé e nessuna religione in sé. Per costruire un futuro di convivenza c’è bisogno di più religione e di più ragione, da parte di tutti.