No allo scontro di inciviltà

Intervista di Confronti

a cura di Mostafa El Ayoubi


«Quello che sta accadendo non è uno scontro di civiltà ma, in realtà, uno scontro tra inciviltà, perché imporre con la forza delle armi o del conflitto le proprie prospettive è un’attitudine assolutamente incivile». Intervista al presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo della Cei.


A distanza di tanti mesi dalla pubblicazione, le vignette satiriche sul profeta Mohammed continuano a suscitare reazioni talvolta anche molto violente in seno alle popolazioni islamiche, con effetti disastrosi sul rapporto tra Occidente e mondo islamico e sul dialogo già difficile tra cristianesimo e islam. A tale proposito, abbiamo chiesto un parere a monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo della Cei, particolarmente colpito da quanto sta accadendo, in quanto don Andrea Santoro, una delle vittime di questo scontro, era un suo carissimo amico.


Lei è stato amico di don Andrea Santoro. Che ricordi ha di lui?

Con don Andrea Santoro ci siamo trovati alla fine degli anni Cinquanta nel seminario romano minore. Siamo rimasti insieme fino all’ordinazione nel 1970. Era un ragazzo molto riflessivo, che amava la vita. La seconda metà degli anni Sessanta, cioè nel periodo tra il Concilio e il dopo Concilio, si respirava un nuovo clima culturale nella società italiana. È stato il periodo in cui don Andrea ha maturato la coscienza di dare uno spessore più chiaro al vangelo e riportarlo vicino alla vita dei più poveri e del mondo giovanile. Mi ricordo quando insieme imparavamo a suonare la chitarra per poter comprendere il mondo dei giovani. Don Andrea continuò questo impegno appassionato nelle parrocchie romane per la comunicazione evangelica. Voleva essere un testimone del vangelo fino in fondo, con tratti anche radicali e poco comprensibili per qualcuno. Sentiva il peso di una vita parrocchiale strutturata, cosa che lo portò alla scelta avvenuta nel 2000 di andare in Turchia.


Perché ha scelto la Turchia?

La sua decisione di andare in Turchia nacque dal bisogno, innanzitutto, di tornare alle origini delle comunità cristiane e, quindi, alle radici del cristianesimo. Voleva che la testimonianza evangelica emergesse quasi libera dalle pesantezze di strutture pastorali. È andato lì come per restituire un debito ad una terra che aveva portato il vangelo in Europa. Lui sentiva come un debito di riconoscenza, andando lì a riportare quel vangelo che da quella terra aveva ricevuto.


Ha scelto la Turchia perché è il crocevia tra il cristianesimo occidentale e quello orientale, e il crocevia con il mondo islamico. Ecco, in questo crocevia lui volle rivivere l’avventura evangelica. La sua missionarietà era «sui generis», fatta non da una imposizione robusta con strutture, grandi costruzioni, ma con la forza debole solo del vangelo e del suo amore.


L’assassinio di don Andrea si colloca in un quadro difficile nel rapporto tra il mondo cristiano e quello islamico. Lei ritiene che la stagione del dialogo sia chiusa e che siamo ormai allo scontro tra civiltà?

Al contrario, io penso che la stagione del dialogo debba continuare, altrimenti uccideremmo un’altra volta la sua testimonianza. Qualche tempo fa, quando si sottolineava questo tipo di scontro e si attizzava il fuoco anche tra le fila dei cristiani, lui ebbe a dire, riprendendo i suggerimenti evangelici, che «i cristiani sono uomini della croce, non della spada» e quindi credo che siamo chiamati a promuovere l’incontro e il dialogo. Quello che sta accadendo non è uno scontro di civiltà ma, in realtà, uno scontro tra inciviltà, perché imporre con la forza delle armi o del conflitto le proprie prospettive è un’attitudine assolutamente incivile.


Secondo lei, a chi giova questo scontro?

Secondo me non giova a nessuno, se non a chi, per fini che non sono religiosi, strumentalizza anche la fede a fini esclusivamente politici e di potere concreto. Ci sono abili strateghi che non si fanno scrupoli né di strumentalizzare i sentimenti più profondi né di uccidere uomini e donne senza alcun problema, non hanno alcuno scrupolo pur di raggiungere un potere politico o economico al servizio delle loro prospettive, che non sono certo prospettive religiose. La storia europea conosce episodi analoghi e abbiamo compreso oggi quanto poco entrasse la fede e quanto invece entrasse la prospettiva politica. Credo che parlare di scontri di religioni o di civiltà sia una semplificazione che porta acqua solo agli estremisti.


L’increscioso episodio delle vignette danesi ha portato acqua al mulino degli estremisti da entrambe le parti. Lei cosa ne pensa?

Io penso che, da una parte, la libertà di stampa non è un randello che ognuno può usare come crede, e questo bisogna affermarlo con chiarezza; dall’altra, una reazione come quella che si sta verificando, fino ad episodi di uccisione, è totalmente ingiustificabile e ovviamente da condannare con fermezza. Forse c’è anche un estremismo diverso tra ammazzare una persona e denigrare una religione, tuttavia la logica di fondo, alla fine, è la stessa.


Il suo incarico specifico all’interno della Cei è quello di promuovere l’ecumenismo e il dialogo interreligioso. Su quali temi si potrebbe rilanciare il dialogo, in questo clima di scontro?

Io credo che l’impegno più arduo e anche più utile sia quello di tessere i rapporti franchi ma anche solidi fra le persone, i gruppi, le istituzioni, e quindi intensificare la conoscenza reciproca. Si tratta, a mio avviso, di intraprendere un cammino di convivenza tra persone, tra gruppi di culture e di fede diverse.


Non è semplice, anche perché se per i cristiani l’ecumenismo ormai si trova su un terreno che trova consenso su tante cose, l’incontro con l’islam è più complesso: siamo su terreni storicamente e culturalmente distanti. Mentre il cristianesimo ha dialogato con la modernità e, per certi versi, è stato persino purificato da eccessi fondamentalisti, non è ancora così con l’islam. L’islam non ha avuto la rivoluzione francese, non ha avuto l’Illuminismo, non ha avuto la scienza, l’impatto con il metodo storico-critico e oltre.


C’è una disparità culturale tra questi due mondi che rende più difficile il dialogo. Vi è un gap sulle questioni giuridiche, sulle questioni della concezione della società, sulle questioni sul rapporto tra società civile e società religiosa, sulla laicità intesa in senso generalissimo; qui la distanza è davvero notevole. Ma questo, semmai, invece di allontanarci dalla strada del dialogo deve incentivarci a percorrerla con maggiore intensità.


Più di dodici milioni di musulmani vivono ormai stabilmente in Europa, e nel nostro paese sono circa un milione. A che punto è il dialogo con queste persone, soprattutto qui da noi in Italia?

Io credo che si siano fatti passi notevoli rispetto al dialogo. Purtroppo non c’è stata sempre un’attenzione a tutto campo, non c’è stato neppure un discernimento tra le diverse anime che compongono questo milione di musulmani.


La superficialità, talora, prevale e fa di ogni erba un fascio. Tutto ciò ritarda la crescita della coscienza delle diversità e di una comprensione adeguata, da parte dei musulmani come da parte nostra.


Non è certo semplice l’orizzonte dell’integrazione, soprattutto con i musulmani. I fatti avvenuti a Londra, del resto, lo dimostrano: gli attentati furono preparati non da nuovi immigrati ma dai figli di seconda generazione.


Tuttavia, se dovessimo lanciare uno sguardo prospettico, è più facile che l’islam europeo si modifichi rispetto ad un islam arabo o dei paesi a maggioranza islamica, perché l’essere in minoranza porta a dialettizzare in maniera un po’ più robusta con la propria cultura di origine. Ma occorre maggiore attenzione da parte dell’Europa per evitare da una parte la ghettizzazione e dall’altra la demonizzazione dei musulmani. Per gli europei c’è una chance: aiutare l’islam a dialogare con la modernità e l’orizzonte nel quale impegnare i nostri sforzi è esattamente questo.


In che modo i valori religiosi da entrambe le parti possono contribuire a questo dialogo difficile ma necessario per una convivenza pacifica?

Il credo religioso è quanto c’è di più intimo nel cuore di un uomo e, a mio avviso, può essere un motivo di incontro e non di scontro. Paradossalmente si deve chiedere a tutti di essere più credenti perché è mia convinzione profonda che nel cuore di ogni fede ci sia l’amore e non l’odio, il rispetto e non la sopraffazione.


Lei ha parlato di amore e non di odio. C’è invece chi, come Oriana Fallaci, incita all’odio nei confronti dei musulmani. Qual è il suo messaggio ai cristiani, per non cadere nella trappola dello scontro di civiltà?

Io non posso non riproporre a tutti i cristiani l’antica verità di fede, che tutti siamo figli dell’unico Padre e tutti abbiamo nel cuore una scintilla di Dio ed è questa che dobbiamo accendere perché ciò che ci divide non ci opponga l’uno contro l’altro, cercando di costruire una convivenza che rispetti le cose più sane.


(da CONFRONTI)