missione francescana e contemplativa: lo spirito di Assisi

Intervento alla riunione delle famiglie francescane ad Assisi


La preghiera di Assisi



Non vi nascondo che prendere la parola alla Porziuncola, davanti ai rappresentanti delle quattro famiglie francescane italiane, oltre ad una certa emozione mi provoca non poco tremore. La Leggenda Maggiore, come voi ben sapete, scrive che: “Il santo amò questo luogo più di tutti gli altri luoghi del mondo. Qui, infatti, conobbe l’umiltà degli inizi; qui progredì nelle virtù; qui raggiunse felicemente la meta”(1048). Insomma, qui sentiamo particolarmente vivo lo spirito di Francesco che in questo frangente storico si presenta ancor più attuale. E non è affatto peregrino, almeno per me, ricordare quella visione che un frate ebbe proprio in questo luogo prima della sua conversione. Scrive la Leggenda Maggiore: “Gli sembrò di vedere innumerevoli uomini, colpiti da cecità, che stavano attorno a questa chiesa, in ginocchio e con la faccia rivolta al cielo. Tutti protendevano le mani verso l’alto e, piangendo, invocavano da Dio misericordia e luce. Ed ecco, venne dal cielo uno splendore immenso, che, penetrando in loro tutti, portò a ciascuno la luce e la salvezza desiderate”(Ivi, 1049). All’inizio di questo nuovo millennio la schiera di uomini e di donne che protendono le mani verso il cielo è certamente ben più vasta di quella che vide quel frate. E ci auguriamo tutti che dal cielo venga luce e salvezza. In ogni caso, a me pare di poter legare al sogno di allora quello che accadde il mattino del 27 ottobre del 1986, quando per la prima volta, uomini rappresentanti delle grandi religioni mondiali, proprio da questo luogo, tesero le mani a Dio per invocare la pace per il mondo.


Erano cristiani (cattolici, ortodossi, protestanti, anglicani), ebrei, musulmani, buddisti, induisti, shinto, uomini delle religioni tradizionali e altri, venuti ad Assisi su invito di Giovanni Paolo II. Ricordo ancora con vivezza i prodromi di questo incontro. Era il 1985 e il Papa aveva ricevuto il gran muftì della Siria; si trattava della prima visita di un musulmano in Vaticano. Passò qualche mese e, in un incontro privato, il Papa disse più o meno queste parole: “E’ necessario fare qualcosa l’anno prossimo per la pace. I politi non riescono a trovare una strada per scongiurare il pericolo nucleare. Si potrebbero chiamare a raccolta tutti i responsabili delle religioni per invocare da Dio quella pace che gli uomini non sanno darsi”. Non passò molto tempo e iniziarono i preparativi per realizzare l’incontro. Man mano andavano avanti i preparativi ci si rese sempre più conto che non era possibile chiamare i capi religiosi a Roma. E la scelta cadde su Assisi. Non c’era altra città che potesse accogliere una manifestazione come quella. E ricordo la commozione di quel 27 ottobre di fronte ad un evento che andava oltre, molto oltre, qualsiasi elaborazione teologica sino ad allora elaborata. E tuttavia quell’incontro sprigionava una forza spirituale a cui era impossibile resistere. Non nasceva da una riflessione astratta. Era un frutto dirompente dello Spirito.


Fu una giornata di sola preghiera; fatta gli uni accanto agli altri, non più – come disse il papa – gli uni contro gli altri. E Assisi abbracciò come in un’unità spirituale quelle preghiere che venivano da ogni parte della terra. Si tennero in luoghi diversi della città, ma erano preghiere vicine spiritualmente oltre che geograficamente. I rappresentanti delle confessioni cristiane e delle grandi religioni mondiali, erano 127, vissero un giorno memorabile per esperienza spirituale. E con loro, tutti quelli che presero parte all’evento. Persino le guerriglie, quel giorno, accolsero l’invito a sospendere le loro azioni di guerra. Non ci fu dibattito teologico. Solo il silenzio religioso segnò quella giornata. Non discorsi, quindi, salvo quello del papa, ma solo una grande comunione di preghiera. Cosa avevano in comune quegli uomini di religione? Il bisogno di invocare dall’alto quella pace che il mondo non sapeva darsi.


Giovanni Paolo II parla di Assisi come di un “luogo che la figura serafica di Francesco ha trasformato in Centro di fraternità universale”. Potremmo dire che in certo modo esplicitava il nome di Assisi, traeva cioè dalla memoria ancora viva e forse poco esplorata di Francesco quella dimensione universale che è l’unica via per la pace e la salvezza della convivenza umana. Da quel giorno in effetti Assisi travalicava i confini della cristianità per raggiungere quelli estremi del mondo. Non venivano superati solo i confini geografici, ma anche quelli delle religioni, delle civiltà e delle culture. Assisi, insomma, riceveva come una nuova vocazione, una nuova chiamata. E qui possiamo subito porre un primo interrogativo: e i francescani? Non ricevono anch’essi una nuova vocazione, una nuova chiamata proprio da questo incontro? Voi che portate Assisi nel cuore e nelle vesti la testimonianza di Francesco non dovreste risplendere dello spirito di Assisi? Vi confesso, peraltro, che quella iniziativa straordinaria promossa dal Papa e vissuta così intensamente da tutti i presenti, rischiava di restare un gesto isolato. Non mi fermo a narrarvi le difficoltà che avemmo – parlo della Comunità di Sant’Egidio – per riproporre l’iniziativa nell’anno seguente. Si deve allo stesso Giovanni Paolo II, venuto a conoscenza delle difficoltà che venivano poste, la decisone di continuare l’esperienza di Assisi. Quell’evento, in verità, rappresentò una svolta nell’atteggiamento del cattolicesimo contemporaneo verso le religioni, ed anche un cambiamento per la visione che le religioni non cristiane avevano del cristianesimo. Da Assisi infatti partiva un unico messaggio, nonostante la diversità dei credo. Le religioni, nella preghiera, si sono ritrovate l’una accanto all’altra e, dal profondo della loro invocazione e della loro tradizione, è partita un’unica invocazione, un unico messaggio di pace.


Il mondo era ancora in una condizione di guerra fredda e il pericolo nucleare era vivo. Ci si può chiedere: che cosa potevano fare questi uomini di religione? Non era forse una cerimonia in più? E il silenzio che vissero in quel giorno non nascondeva impotenza? Non rischiava di essere un gesto per consolare le persone religiose dell’impotenza di fronte agli scenari del mondo dominati dal bipolarismo? Non fu così. Quella manifestazione manifestava la fiducia nelle energie spirituali e nella straordinaria forza della preghiera. E’ questa la prima grande lezione di Assisi. O, se volete, la prima grande direttiva che parte da quell’evento. Era una preghiera senza commistioni sincretistiche, ma rispettosa delle diversità, convinta che dalla fede religiosa si possono sprigionare energie di pace. Giovanni Paolo II vide la possibilità che si liberassero nuove energie di pace, in un tempo bloccato dalla guerra fredda, quando sembrava che solo le due grandi potenze fossero in grado di sciogliere i conflitti o di provocarli, in definitiva di dare la pace o di minacciarla seriamente. Il resto sembrava una sovrastruttura, rispetto alla struttura di fondo che era la realtà di potenza dei due imperi.


Il papa, nel suo discorso conclusivo sulla piazza di S. Francesco, sfidando il freddo che colpiva sferzante, disse: “Forse mai come ora nella storia dell’umanità è divenuto a tutti evidente il legame intrinseco tra un atteggiamento autenticamente religioso e il grande bene della pace… la preghiera è già in se stessa azione, ma ciò non ci esime dalle azioni al servizio della pace”. E proseguiva: “insieme abbiamo riempito i nostri occhi di visioni di pace: esse sprigionano energie per un nuovo linguaggio di pace, per nuovi gesti di pace, gesti che spezzeranno le catene fatali delle divisioni ereditate dalla storia o generate dalle moderne ideologie. La pace attende i suoi artefici…”. Dal colle di Assisi, in un mondo bloccato nella guerra fredda, il papa lanciava un sogno: un sogno di pace, chiedendo che questo sogno fosse ripreso. Lo chiamò “spirito di Assisi”.


 
Lo “spirito di Assisi”


Lo “spirito di Assisi” significa perciò l’avvicinamento dei diversi mondi religiosi sulla via del dialogo, per raggiungere l’unica meta: la pace tra i popoli. E’, infatti, l’unità della famiglia umana il sogno che si manifestò ad Assisi. Giovanni Paolo II, nell’allocuzione del 22 dicembre di quell’anno, lo diceva con chiarezza: “Presentando la Chiesa cattolica che tiene per mano i fratelli cristiani e questi tutti insieme che congiungono la mano con i fratelli delle altre religioni, la Giornata di Assisi è stata un’espressione visibile delle affermazioni del Concilio Vaticano II. Con essa e mediante essa siamo riusciti, per grazia di Dio, a mettere in pratica, senza nessuna ombra di confusione e sincretismo, questa nuova convinzione, inculcata dal Concilio, sull’unità di principio e di fine della famiglia umana e sul senso e sul valore delle religioni non cristiane”. Il Papa affermò che in Assisi la Chiesa aveva compreso meglio se stessa e la sua missione nel mondo. E, potremmo aggiungere, che con quell’evento di Assisi la Chiesa coglieva con chiarezza uno dei segni dei tempi che ben presto si sarebbe presentato come uno dei nodi centrali della vita del mondo contemporaneo.


E’ sorprendente infatti che, proprio negli ultimi decenni del Novecento, un secolo che appare il più secolarizzato della storia, anzi un secolo in cui si è teorizzata la scomparsa delle religioni, proprio sul finire, vede il rifiorire delle religioni. Non poche iniziative di dialogo in ricerca della pace sono connesse alla consapevolezza che i credenti possono contribuire alla pace molto più efficacemente di quanto credono. I credenti hanno una forza “debole” di pace, ma efficacissima. E’ una lezione esigente che induce tutti a sperare di più e a osare di più, perché tanti paesi del mondo non conoscano più l’atroce esperienza della guerra o dell’odio civile. Del resto molte comunità religiose, in parecchie parti del mondo, ricevono pressioni o sono tentate di legittimare contrapposizioni e conflitti. Tutti i credenti sono chiamati ad osare di più. E, in tale contesto, voi francescani siete chiamati ad essere esemplari nel pregare per la pace, nell’operare per la fraternità tra i popoli, proprio perché la testimonianza di Francesco è incredibilmente chiara ed efficace in questo senso.


Il nostro è un tempo in cui uomini di religione o di etnia diversa di fatto vivono gli uni accanto agli altri. E’ l’esperienza dell’Europa di fronte all’immigrazione, ma anche di una nuova comunanza tra Est e Ovest. E’ la sfida del mondo africano dove, specie in questa stagione difficile, ci si confronta con le fragilità degli Stati nazionali che le differenze etniche, religiose o d’altro genere possono mettere in discussione. E’ la sfida della rinascita delle nazioni, dei rapporti tra religioni e nazioni, dei processi di pulizia etnica in alcune regioni del mondo. Ma è anche la sfida del mondo virtuale in cui si entra sempre più a contatto con tutti: nel virtuale si vive sempre più assieme e siamo destinati a incrociarci con chi è diverso da noi. E’, infine, la sfida di un mondo in cui si vede tutto e si vede sempre più la ricchezza di pochi e la miseria di tanti. A tutto questo si è aggiunta poi la ferocia del terrorismo, o meglio dei terrorismi, che sconvolgono la vita del pianeta. Sappiamo bene quel che ha prodotto l’attacco alle torri gemelle di New York. Non mi dilungo su quel che significa la necessaria lotta al terrorismo. Ma sarebbe davvero miope se pensassimo che il futuro del pianeta si possa costruire concentrandosi unicamente sulla lotta a questa terribile piaga e magari facendolo in modo semplificato e puramente muscolare con la cosiddetta “guerra infinita”.


Certo è che la condizione umana sta diventando sempre più il convivere tra diversi. Ma non è facile questa convivenza: troppe differenze all’interno della mondializzazione inducono verso individualismi irresponsabili, tribalismi difensivi, nuovi fondamentalismi. C’è gente che si sente aggredita e spaesata di fronte a nuovi vicini e a un mondo troppo grande, e quindi si lascia prendere dalla paura del presente e del futuro. Vediamo persone, gruppi e popoli innalzare barriere, vicino e lontano da noi. Costoro chiedono spesso alle religioni di proteggere la loro paura, magari con le mura della diffidenza. Nascono così fondamentalismi di generi diversi che, come fantasmi, pullulano e inquietano. Crescono anche fondamentalismi di carattere etnico o nazionalista, che giungono sino al terrorismo. Il fondamentalismo è una grande semplificazione che affascina giovani disperati, gente spaesata per cui questo mondo è troppo complesso, inospitale, ma che può interessare politici spregiudicati alla ricerca di scorciatoie per il potere. E i fondamentalismi hanno il marchio dell’odio, se non della lotta al diverso religiosamente o etnicamente. Ma la sfida del futuro, anche se il terrorismo viene domato, è racchiusa nella capacità che i popoli hanno di vivere assieme pur restando diversi. Questo sta a dire che la prima e più urgente educazione da fare è quella, appunto, del convivere tra diversi. 


E questo orizzonte è importante sia per le civiltà che per le religioni. Del resto, se è vero che i mondi religiosi, fino a qualche tempo fa, potevano ignorarsi l’un l’altro, oggi non è più così. In ogni caso era certamente più facile, anche se non meno dannoso, restare lontani gli uni dagli altri. Oggi le religioni convivono nello steso territorio. Ma perseverare in una mutua ignoranza porta rapidamente verso un pericoloso inasprimento. Responsabili religiosi isolati si trovano talvolta costretti in orizzonti troppo nazionalisti. L’universalità, che è propria delle diverse tradizioni religiose, si libera nel contatto e nel dialogo con le altre religioni. E in effetti gli incontri tra uomini di religioni diverse che si sono susseguiti negli anni, a partire da quello di Assisi, hanno messo in rilievo ciò che unisce, facendo restare in piedi anche ciò che differenzia e divide.


L’esperienza della Comunità di Sant’Egidio, che ha riproposto di anno in anno la preghiera di Assisi nelle diverse città europee, mostra la fecondità di questi incontri. Non si tratta di simulare un facile irenismo e tanto meno di trovare un minimo comune denominatore religioso. Il dialogo vero e sincero non appiattisce. E’, invece, l’arte paziente di ascoltarsi, di capirsi, di riconoscere il profilo umano e spirituale dell’altro. Il dialogo è un’arte della maturità delle culture, delle personalità, dei gruppi. Non è facile il dialogo, anche perché non è né metodo né una strategia. Il dialogo è uno stile di vita. E’ una spiritualità, quella di Francesco, appunto. O, se volete, quella di Giovanni XXIII che amava dire: cerchiamo quel che unisce e mettiamo da parte quel che divide. Non si tratta di attutire la propria identità. Semmai è vero il contrario, solo chi è davvero credente può dialogare con efficacia. Essere credenti, ossia cogliere la profondità della propria fede.


E le religioni, se scendono nel profondo del loro credo, sono una scuola di convivenza e di pace. Esse non hanno la forza politica per imporre la pace ma, trasformando l’uomo dal di dentro, invitandolo a distaccarsi dal male, lo guidano verso un atteggiamento di pace del cuore. Nell’appello che concludeva l’incontro di Milano, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio nel 1993, firmato dai rappresentanti di tutte le religioni mondiali, si legge: “Il nostro unico tesoro è la fede. Il dolore del mondo ci ha fatto chinare sulle nostre tradizioni religiose alla ricerca di quell’unica ricchezza che il mondo non possiede: abbiamo sentito echeggiare dal profondo un messaggio di pace ed emergere energie di bene. E’ l’invito a spogliarci di ogni sentimento violento e a disarmarci di ogni odio. La mitezza del cuore, la via della comprensione, l’uso del dialogo per la soluzione dei conflitti e delle contrapposizioni, sono le risorse dei credenti e del mondo.” E l’appello si conclude così: “Innanzi tutto però dobbiamo riformare noi stessi. Nessun odio, nessun conflitto, nessuna guerra trovi nelle religioni un incentivo. La guerra non può mai essere motivata dalla religione. Che le parole delle religioni siano sempre parole di pace!”


Le religioni hanno una responsabilità decisiva nella convivenza: il loro dialogo tesse una trama pacifica, respinge le tentazioni a lacerare il tessuto civile, e libera dalla strumentalizzazione delle differenze religiose a fini politici. Ma questo richiede audacia e fede. Richiede coraggio. Chiede che si abbattano con la forza morale, con la pietà, con il dialogo, tutti i muri che separano gli uni dagli altri. Grande può essere il compito delle religioni nell’educare all’arte del convivere. Grande è anche il compito delle religioni nel ricordare che il destino dell’uomo va al di là dei propri beni terreni – come molte insegnano -, e che si inquadra in un orizzonte universale, nel senso che tutti gli uomini sono creature di Dio. Da sempre i loro santi e i loro saggi scrutano un orizzonte globale. E tra questi Francesco è esemplare e da tutti ammirato e accolto.


Di fronte alle numerose guerre che ancora dilaniano il pianeta possiamo chiederci se le religioni non siano in verità sconfitte dalla guerra. Credo che l’icona di Assisi e lo spirito che ne è scaturito,  continuino a parlare misteriosamente dell’unità del genere umano. Ripeto che attorno allo “spirito di Assisi” si è dato vita ad un proficuo dialogo tra uomini di religione. Tanti e tanti incontri si sono succeduti, compresi quelli che lo stesso Giovanni Paolo II ha tenuto ancora in Assisi. L’amicizia, la conoscenza, la stima reciproca sono state dimensioni forti che hanno favorito la resistenza al demone del conflitto. E abbiamo visto che le diversità, se collocate nell’orizzonte dello spirito di Assisi, non sono il grande ostacolo. E il conflitto fra religioni, civiltà e culture non è inevitabile. La tesi di Huntington non è esattamente l’opposto di Assisi. E da notare che le diversità non debbono scomparire. Rinunziarvi vorrebbe dire cadere nel relativismo, che renderebbe tutto uguale e quindi sradicato dalla storia. Non è questo il sentire dei popoli. La preghiera della gente, quella che sgorga dalla sofferenza, quella che matura nella disperazione, quella che esprime la gioia, segue i percorsi secolari differenti. E le grandi tradizioni religiose si sono fatte carico delle invocazioni di milioni di persone, rivolte non agli uomini ma a Dio. E tutte queste preghiere differenti sono radicate in identità profonde: nel bisogno di essere salvati. La differenza rappresenta la ricca geografia spirituale del mondo contemporaneo. E questo non deve scoraggiare. Differenza e dialogo sono le guide per allargare lo sguardo al mondo interno, sono le vie per trovare senso in una convivenza tra gente di religione diversa. Il dialogo non è un fatto accademico, ma un modo di vivere ogni giorno da parte di migliaia e migliaia di credenti. Frequentare le grandi tradizioni religiose, coglierne la spiritualità, non è perdere la propria identità in una confusione da moderno mercato. Anzi, è far crescere l’amore mediante la stima in un mondo complesso ma popolato di pensieri, di santità, di fede. E’ una garanzia per il futuro del mondo. La cultura e la pratica del dialogo trovano nello “spirito di Assisi”, all’inizio di questo nuovo secolo, già così ferito da incredibili conflitti, una via e una indicazione.


La fede deve diventare cultura di riconciliazione e di dialogo, ossia un modo di vedere largo, un modo di amare senza confini, un modo di vivere che non riduce le cose ai nostri schemi, che non restringe il mondo alle nostre abitudini mentali. Ognuno deve aprire le finestre della propria mente e allargare le pareti del proprio cuore. E’ facile, molto facile, essere sensibili solo a quello che ci sta vicino, solo a quello che ci tocca e ci commuove; e ignorare ciò che sta lontano da noi. L’amore è anche un cuore ospitale a ciò che non ci tocca direttamente. L’ignoranza è funzionale all’egoismo. E nell’ignoranza appassiscono l’amore, la generosità, l’audacia, la passione. La forza dell’amore spinge ad uscire da sé per recarsi nei cuori degli altri al fine di creare una cultura d’amore, una civiltà dell’amore. La forza della riconciliazione è una energia concreta che fa superare ogni ripiegamento su di sé e aiuta ad alzare il proprio sguardo e la propria azione verso l’universalità della famiglia umana. E questo chiede ascolto rinnovato del Vangelo e attenzione critica a quel che accade nel mondo. Ci troviamo, infatti, in una situazione complessa che chiede a noi di essere uomini evangelici che sono esperti di umanità. Insomma dobbiamo conoscere il Vangelo e il mondo. San Girolamo diceva che l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di cristo; noi potremmo aggiungere che l’ignoranza dei giornali è ignoranza degli uomini.


 Francesco, fratello universale



Permettetemi, mentre mi avvio alla conclusione, di fare alcune brevi considerazioni su Francesco di Assisi. Egli, infatti, è stato il primo che ha vissuto, o meglio che ha creato, ante litteram, lo “spirito di Assisi”. Giovanni Paolo II ha potuto trasformare Assisi in una “cattedra” di fraternità e di pace, accolta da tutte le religioni, per la testimonianza universale di Francesco. Il giovane assisiate è, in certo modo, all’origine dello spirito di Assisi perché lo ha vissuto nella sua stessa vita. Mi sento del tutto inadeguato a parlarne di fronte a voi. E se lo faccio è perché ne sono in qualche modo costretto, perché parlare dello spirito di Assisi senza Francesco è  semplicemente impossibile. In ogni caso, so bene che tutti dobbiamo essere in qualche modo francescani, nel senso che tutti siamo chiamati a vivere il Vangelo alla lettera, appunto come Francesco e ad avere una sapienza umana come quella che lui aveva. Vivere lo spirito di Assisi infatti non significa perciò una sorta di acritico embrassons nous generale, ma essere uomini e donne evangeliche che sanno vivere nella complessità del mondo di oggi.


Anche per Francesco vivere secondo la forma evangelica non fu semplice, senza fatica, senza disciplina, senza lavoro su di sé, senza rinuncia, senza tagli, senza correzioni, senza riflessione, senza preghiera. Francesco dovette fare violenza a se stesso e cambiare vita radicalmente per vivere la forma evangelica. Solo la somiglianza a Cristo sino alle stigmate lo rese “missionario” in un mondo che stava in rapido mutamento e che vedeva la Chiesa ancora muta nella predicazione del Vangelo. Lo sapete bene che l’Umbria in cui viveva Francesco era una terra di grandi lotte fra città e tra fazioni all’interno stesse delle città (alla guerra di Assisi contro Perugia vi partecipò direttamente). Ma Francesco sentì il disgusto di quella vita. Scrive il Celano: “niente gli dava più alcun diletto”(1 Celano 17). Francesco ascoltò il Vangelo e volle metterlo in pratica alla lettera, senza aggiunte. Diede tutto quel che aveva ai poveri e restituì al padre quel che gli era rimasto. Per sé scelse di stare accanto ai poveri, anzi di vivere come loro. “Il povero Francesco, padre di poveri, voleva vivere in tutto come un povero; non poteva sopportare senza dolore di vedere qualcuno più povero di lui” (1 Celano 76), nota il Celano. Francesco uscì dal suo mondo, che divideva i ricchi dai poveri, i sani dai lebbrosi, i cittadini dagli esclusi (i minores), per divenire povero ed essere fratello universale, degli uomini e delle cose, degli animali e del creato, degli amici e dei nemici. Francesco, appunto, fratello minore, ossia universale. Aveva intuito una verità profondamente evangelica: l’universalità parte sempre dai poveri, dagli ultimi. Questa fraternità a partire dagli ultimi è la pace che Francesco vive per sé e che propone ai suoi frati. Ed è la radice di quel che oggi chiamiamo lo spirito di Assisi; senza di lui questo spirito è incomprensibile e improponibile.


Pace e fraternità universale per Francesco coincidono. Ed è esattamente questo il tesoro dello spirito di Assisi. E lui lo viveva a partire dai suoi. Diceva: “i frati non abbiano alcun potere o dominio, soprattutto fra loro…e chi tra loro vorrà essere maggiore sia il loro ministro e servo” (Regola non bollata, V, 22). Colui che assume una funzione di coordinamento deve comportarsi come una madre; deve rivoluzionare il rapporto dei sudditi nei confornti dei ministri; e i sudditi possono parlare “come i padroni ai loro servi, perché così deve essere, che i ministri siano servi di tutti i fratelli”(Ammonizioni, 4). Tratta i suoi frati come cavalieri della Tavola Rotonda, per significare plasticamente l’uguaglianza con tutti. Di fronte ai fallimenti il rimedio – dice san Francesco – sta nello spirito di fraternità: “si guardino dal turbarsi e dall’adirarsi per il peccato o il male di un altro”, “ lo ammoniscano, e lo istruiscano e lo correggano con umiltà e diligenza”, trattandolo come gli sembrerà meglio secondo Iddio”(Regola non bollata V). Questa fraternità è per sua natura universale, ossia aperta a tutti senza esclusione alcuna. Andando per il mondo i frati devono comportarsi in maniera evangelica, vivendo poveramente, mangiando ciò che è stato messo loro davanti, rinunciando a qualsiasi forma di violenza, e dando a chi chiede.


E’ dallo spirito evangelico che si può comprendere la sua scelta di andare dal sultano a Damietta, senza spada e forte solo della sua parola. Lo sapete bene che la crociata era persino predicata dal Papa e Francesco inizialmente ne subì il fascino. Non si deve inoltre dimenticare che la tensione con il mondo musulmano era forte almeno come oggi, se non ancor più. E la crociata era tesa allo sterminio più che alla difesa. Il Vangelo ispirò a Francesco un’altra strada, più forte della forza della spada. Non fu capito. Ma Francesco non si fermò. E non è che la nuova via gli impedisse la missione di comunicare il Vangelo, tutt’altro. Ne è testimonianza il lungo capitolo XVI della regola non Bollata ove Francesco detta, primo tra i cristiani, alcune regole di comportamento missionario. E sapeva bene cosa comportava tale missione per i suoi frati. Non si fermò infatti alla notizia del martirio di fra Eletto. E benedisse, piangendo, i sei frati che proprio dalla Porziuncola, al termine del Capitolo generale del 1219, partirono per il Marocco. Alla notizia del loro martirio disse: “Ora posso dire con verità di avere cinque frati minori”. Ho voluto dare una dignità nuova alla vicenda di questi cinque protomartiri francescani, tutti di origine ternana, in una nuova chiesa di Terni dedicata a Santa Maria della Pace.


Ma la missione tra i saraceni e gli altri infedeli (ire ad saracenos et alias infideles) non aveva per Francesco il significato di espandere il sistema ecclesiastico, bensì quello di proporre e di vivere il Vangelo universale della fraternità. Scrive che “non facciano liti e dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore del Signore e dichiarandosi cristiani”. Soltanto in seguito, “quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio”(Ivi). Non mi dilungo su questo tema; ma sono sempre rimasto suggestionato dalle considerazioni di Basetti Sani sul rapporto tra la visione della Verna e la missione ai musulmani. Certo è che per Francesco la missione, qualunque missione, parte dall’amore per ogni uomo e ogni donna perché tutti sono stati riscattati dalla croce del Signore. Questa fraternità non sarebbe piena se non si dirigesse anche verso tutte le creature. Il rapporto di Francesco con la natura, con il fuoco, con gli uccelli, con gli animali, non è un rapporto di possesso ma di convivenza e di fraternità. Tutto ciò non nasce da una sorta di romanticismo. Si radica in una povertà vissuta come forma di vita e atteggiamento di rispetto e di devozione nei confronti dell’intera creazione. Per Francesco, la povertà che viene dal Vangelo sfocia in una immensa libertà e nel godimento disinteressato di tutte le cose. E questa è la pace.


Come si può intuire non stiamo davanti ad una questione etica, ma ad un atteggiamento profondamente evangelico. Non si tratta semplicemente dell’assenza dei conflitti, ma dell’instaurazione della fraternità evangelica. Questo spiega gli incontri di Francesco per pacificare le persone e i popoli, chiedendo a tutti la forza di perdonare. Scrive il santo: “Non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto più poteva peccare, che dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne ritorni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato”(Lettera a un ministro, 8 -9). Francesco, uomo pacificato, divenne pacificatore. E questo significò, anzitutto, una lotta interiore per sconfiggere quell’egocentrismo che attanaglia ciascuno di noi. Commentando la beatitudine evangelica dei pacifici, non a caso Francesco la collega a quella dei perseguitati: “Sono veri pacifici quelli che di tutte le cose che sopportano in questo mondo, per amore del Signore nostro Gesù Cristo, conservano la pace nell’anima e nel corpo” (Am 15:164). Conservare la pace nell’anima e nel corpo di fronte alle sofferenze del mondo è la vera forza per sconfiggere ogni tristezza. Ma questa forza richiede anche la capacità di perdonare. Nel Cantico, composto per spronare il vescovo di Assisi e il podestà a fare la pace, Francesco scrive: “Laudato si, mi Signore, per quelli che perdonano/ per lo tuo amore/ e sostengono infirmitate e tribulazione./ Beati quelli che ‘l sosterranno in pace,/ ca da te, Altissimo, sirano incoronati” (Cant 263). Francesco chiede al vescovo e al podestà non di concludere un accordo, quanto di ritrovare le energie spirituali che permettono di superare le sofferenze, e quindi di perdonare, di dominare la collera, di evitare il turbamento e di dimorare nella pace.


Francesco non scelse la politica ma non si estraniò dalla città. Anzi, entrò nelle pieghe più tragiche della vita umana per curarle ricomponendo liti e contrasti. In una società ruvida e bellicosa nei rapporti sociali, egli insegnò il valore della “cortesia” nel rapportarsi con tutti e tutto. La sua esperienza fu unica nella sua capacità di incontrare e riconciliare persone diverse tra loro. L’essere penitenti, tipica modalità del medioevo di vivere il Vangelo, ha assunto in lui una forza spirituale del tutto originale. Mentre essere cristiani significava ripudiare il mondo mediante il disprezzo di sé, per Francesco invece significò essere misericordioso con tutti. L’inizio della sua esperienza, infatti, è stare con i lebbrosi usando misericordia con loro come Dio l’aveva usata con lui. Ed è non poco significativa per il suo aspetto “rivoluzionario” l’affermazione che fece dopo il bacio del lebbroso: “Ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo”(110). Il Vangelo vissuto alla lettera gli aveva persino cambiato il gusto. Ebbene, Francesco ha avuto un gusto nuovo, pieno di dolcezza e di tenerezza, di forza e di passione, nell’incontrare gli uomini e il creato. Questo nuovo gusto è la pace.


Sì, questa è la pace per Francesco: non una cosa da fare, bensì un modo di essere e di vivere tra gli uomini. Solo se si è uomini pacifici si può essere pacificatori. Un santo monaco russo del Novecento, in piena sintonia con questo spirito, diceva: “Vivi in te la pace e a migliaia accorreranno a te”. La pace per Francesco è un modo di essere credenti e di obbedire al Vangelo. Ai suoi frati diceva: “La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più nei vostri cuori. Non provocate nessuno all’ira o allo scandalo, ma tutti siano attirati alla pace, alla bontà, alla concordia dalla vostra mitezza. Questa è la nostra vocazione: curare le ferite, fasciare le fratture, richiamare gli smarriti” (3 Comp 58: 1469). Lo spirito di Assisi parte da un cuore trasformato dal Vangelo. E Francesco ne è l’esempio più evidente.