L’uomo e la salvaguardia del creato – Festival filosofia Modena

Intervento al festival della Filosofia di Modena

 Non è usuale che un vescovo nel pieno del mattino di una domenica pronunci una lectio in piazza, e non un’omelia in chiesa. Una ragione comunque c’è, a partire dall’invito rivoltomi per questo congresso così prestigioso, e per il tema: l’uomo e la salvaguardia del creato. Forse non c’è momento più opportuno della domenica per affrontarlo da parte di un credente. Come sapete ogni domenica, milioni e milioni di cristiani confessano il simbolo di Nicea-Costantinopoli che si apre con queste parole: “Credo in Dio, creatore del cielo e delle terra, di tutte le cose visibili e invisibili”. E’ un’affermazione che sta all’inizio del credo cristiano. Nel racconto biblico, il settimo giorno è quello del “riposo” di Dio dopo la fatica della creazione nei sei giorni precedenti. In tal modo, la festa e il riposo nel settimo giorno sono iscritti nel profondo della creazione. I cristiani, hanno scelto “il giorno dopo il sabato” come il momento della festa, per rivivere il mistero della risurrezione di Gesù. Successivamente diventerà anche giorno del “riposo”. Purtroppo, oggi, le domeniche sono sempre più bistrattate e spesso sacrificate sull’altare del consumo, del profitto, del mercato. Non è però così questa mattina.

Volendo riprendere l’esempio, si deve constatare purtroppo che nei sei giorni di “lavoro” gli uomini deturpano più che difendere il creato. Ed è urgente prendere coscienza del grave pericolo che si stiamo tutti correndo: “Nessuna generazione della storia che ci ha preceduto  – scrive Dorothee Solle, una teologa – ha mai potuto dire un no alla creazione, come possiamo farlo noi oggi”; e Gunter Anders, un altro teologo, scrive: “L’epoca in cui viviamo, anche se dovesse durare all’infinito, è in modo definitivo l’ultima epoca dell’umanità… Viviamo nel tempo della fine, vale a dire, in quell’epoca la cui fine può essere provocata da noi in ogni istante”. Sono affermazioni gravi, basti pensare al nucleare o ai disastri ecologici. Di fronte a tali tragedia c’è chi auspica, come Anders, che venga suscitato il “coraggio della paura”. Siamo talmente addormentati e vigliacchi da non avere neppure il coraggio di aver paura! Eppure, le possibilità tecniche sviluppate nel XX secolo possono portarci verso una distruzione dell’embiente della nostra terra. La “crisi ecologica” può provocare un “morte ecologica” del pianeta.

 

I limiti dello sviluppo

 

Già nel 1972, il Club di Roma metteva in guardia dalla cieca fiducia nel progresso apportato dalla civiltà tecnico-scientifica. Gli studiuosi raccolsero le loro conclusioni in un rapporto dal significativo titolo: I limiti dello sviluppo. La sostanza dell’avvertimento era chiara: lo sfruttamento della natura mediante la produzione tecnica non può essere portato avanti all’infinito. Sono passati quaranta anni e purtroppo quegli avvertimenti non sono stati presi sul serio. Eppure la crisi economica globale che stiamo vivendo sembra confermare quelle previsioni. L’ultimo aggiornamento del rapporto fatto nel 2004, prevedeva che proprio entro il secondo decennio di questo secolo, la crescente inaccessibilità delle risorse non rinnovabili su cui si basa il sistema economico, avrebbe innescato un rapido declino della produzione industriale. Mano mano che tale produzione si riduce, anche l’alimentazione e i servizi sanitari peggiorano facendo diminuire la speranza di vita che era stata in rapida crescita per tutto il secolo scorso. Ormai da alcuni anni, fra agosto e settembre il prelievo di risorse naturali supera la capacità annua di rigenerazione; ciò significa che negli ultimi tre mesi dell’anno utilizziamo il capitale naturale accumulato rendendo la terra più povera per le generazioni future. Oggi siamo più consapevoli che la distruzione dell’ambiente, ad opera del sistema economico mondiale, rappresenta un serio rischio per la sopravvivenza dell’umanità. Gli esperti continuano a documentare la drammaticità della situazione. Gli allarmi sui cambiamenti climatici seguono ormai a cascata.

Basti pensare ai problemi relativi all’energia, l’ambiente e il clima. Sappiamo tutti ormai che il graduale esaurimento dello strato di ozono e l’«effetto serra» hanno ormai raggiunto dimensioni critiche a causa della crescente diffusione delle industrie, delle grandi concentrazioni urbane e dei consumi energetici. Scarichi industriali, gas prodotti dalla combustione di carburanti fossili, incontrollata deforestazione, uso di alcuni tipi di diserbanti, refrigeranti e propellenti: tutto ciò – com’è noto – nuoce all’atmosfera ed all’ambiente. Ne sono derivati molteplici cambiamenti meteorologici ed atmosferici, i cui effetti vanno dai danni alla salute alla possibile futura sommersione delle terre basse per l’innalzamento dei mari, dall’avanzata del deserto in alcune aree al crescente rischio di alluvioni e cicloni in altre. Mentre in alcuni casi il danno forse è ormai irreversibile, in molti altri esso può ancora essere arrestato.

Stiamo letteralmente consumando la terra e danneggiando quelle funzioni essenziali al mantenimento della vita come la stabilità del clima, la rigenerazione della fertilità dei terreni, la ricarica delle riserve di acqua dolce e pulita. Si prevede che a causa dell’inquinamento, dei cambiamenti climatici e di un uso distruttivo del territorio, un miliardo e 800 milioni di persone non ha accesso ad acque potabili sicure; a causa dei cambiamenti climatici a tale numero si potrebbero aggiungersi entro il 2050 altri 2 miliardi e 800 milioni di persone.

Stiamo minacciando perfino la straordinaria varietà delle specie che garantisce il cammino della vita nel corso dei milioni di anni, attraverso il dispiegamento di una creazione che continua nel processo evolutivo della biosfera. E’ ormai opinione diffusa nel mondo scientifico, ribadita anche in un recente articolo apparso sulla prestigiosa rivista “Nature”, che ci siamo pericolosamente avviati verso la 6° estinzione di massa, ma sarebbe la prima volta che a provocarla sarà una delle specie: quella umana. L’azione irresponsabile dell’uomo sta provocando sulla vita del nostro pianeta un effetto simile a quello dell’enorme meteorite che 65 milioni di anni fa abbattendosi sulla terra causò la scomparsa dei dinosauri e della maggioranza delle specie viventi.

Vi è poi il gravissimo problema della povertà nel mondo con la crescente disparità tra paesi ricchi e paesi poveri. Le crisi ecologiche innescano gravi crisi umane o aggravano crisi pre-esistenti, come carestie, fame, guerre per il possesso di risorse sempre più scarse, guerre perfino per l’acqua, diffusione di malattie, causando un gran numero di rifugiati per motivi ambientali. Secondo il rapporto 2009 dell’IPCC (Comitato intergovernativo sul cambiamento climatico) entro la metà di questo secolo 200 milioni di persone, provenienti in massima parte dai paesi più poveri, rischiano di diventare permanentemente sfollati per cause ambientali.   Aveva ragione Indira Gandhi quando, di fronte a tale assurdità, affermava: “la povertà è il peggiore inquinamento” (Poverty is the worst pollution). Qui si dovrebbe aprire il lungo capitolo sul rapporto tra l’ecologia e la lotta alla povertà: il destino dei poveri e la sorte del pianeta sono infatti strettamente collegati. Faccio solo un cenno. Non si potrà ottenere il giusto equilibrio ecologico, se non saranno affrontate direttamente le forme strutturali di povertà esistenti nel mondo. Ad esempio, la povertà rurale e la distribuzione della terra in molti paesi hanno portato ad un’agricoltura di mera sussistenza e all’impoverimento dei terreni. Quando la terra non produce più, molti contadini si trasferiscono in altre zone, incrementando spesso il processo di deforestazione incontrollata, o si stabiliscono in centri urbani già carenti di strutture e servizi. Inoltre, alcuni paesi fortemente indebitati stanno distruggendo il loro patrimonio naturale con la conseguenza di irrimediabili squilibri ecologici, pur di ottenere nuovi prodotti di esportazione. Di fronte a tali situazioni, mettere sotto accusa soltanto i poveri per gli effetti ambientali negativi da essi provocati – come talora avviene – è un modo del tutto inaccettabile di valutare le responsabilità. Occorre, piuttosto, aiutare i poveri, a cui la terra è affidata come a tutti gli altri, a superare la loro povertà, e ciò richiede una coraggiosa riforma delle strutture e nuovi schemi nei rapporti tra gli Stati e i popoli.

Vi è poi la tragedia delle guerre che continuano ad abbattersi sul pianeta e che generano disastri anche sul piano della salvaguardia del creato. La scienza moderna dispone già delle capacità di modificare l’ambiente con intenti ostili, e tale manomissione potrebbe avere a lunga scadenza effetti imprevedibili e ancora più gravi. Nonostante che accordi internazionali proibiscano la guerra chimica, batteriologica e biologica, sta di fatto che nei laboratori continua la ricerca per lo sviluppo di nuove armi offensive, capaci di alterare gli equilibri naturali. Oggi qualsiasi forma di guerra causa incalcolabili danni ecologici. Le stesse guerre locali o regionali, per limitate che siano, non solo distruggono le vite umane e le strutture della società, ma danneggiano la terra, rovinando i raccolti e la vegetazione e avvelenando i terreni e le acque. I sopravvissuti alla guerra si trovano nella necessità di iniziare una nuova vita in condizioni naturali molto difficili, che creano a loro volta situazioni di grave disagio sociale, con conseguenze negative anche di ordine ambientale.

 

Indispensabile un sussulto morale

 

Di fronte alla portata drammatica della crisi ecologica è ovviamente del tutto impensabile un ritorno al passato, come pure un illusorio blocco della scienza e dello sviluppo. Cosa fare, allora? E’ urgente individuare strade innovative e coraggiose e stabilire i criteri di un nuovo rapporto con la “natura” che mettano al centro lo sviluppo di ogni persona e dell’intera umanità. Tali strade vanno certamente ricercate sul piano tecnico e politico, ed è il compito precipuo delle classi dirigenti delle società del pianeta, ma questo è difficile che avvenga senza un generale sussulto morale che spinga a individuare un comune orizzonte che intervenga efficacemente sulla “civiltà tecno-scientifica” e coinvolga i comportamenti dei popoli.

Lo scriveva negli anni ’70 Hans Jonas, il filosofo tedesco che è stato tra i primi a porre sul tavolo la gravità della questione ecologico. Di fronte all’incombente pericolo della distruzione dell’ambiente, propone la domanda sulla responsabilità personale e collettiva, ritenendola l’unica via per intaccare in radice l’edonismo della moderna cultura del godimento e dell’uomo tecnologico come “macchina desiderante”. Il martellante carpe diem – continua il filosofo – che ripropone il benessere individuale come legge suprema di comportamento, rende sempre più discutibile il primato del benessere individuale o di gruppo. La ricerca del proprio benessere a qualsiasi costo si scontra con il benessere collettivo e mette a rischio la continuità stessa della vita del pianeta. Per questo, concludeva il filosofo, principio di responsabilità e comportamenti eco-solidali non possono essere disgiunti.

Ionas sostiene, inoltre, che il problema è di tali proporzioni da chiamare in causa non solo una nuova etica ma anche una nuova ascesi che coinvolga le diverse culture e le stesse grandi religioni del mondo. E, per auspicare un adeguato scatto morale, fa riferimento a ciò che significò l’inizio del cristianesimo per la società dell’epoca: “All’inizio del Cristianesimo vi furono uomini che sotto l’influsso di una potente religione ultraterrena fecero di tutto per l’ascesi. Per amore della vita terrena ciò non è mai stato fatto. C’è solo in particolari momenti, quando un popolo è in pericolo e i giovani fremono per difendere la patria. Non so se è possibile ottenere senza religione trascendente un’ascesi nella massa, laddove il pericolo non è così chiaro come su una nave che affonda, ma si estende per decenni e attraverso i continenti”. Sono riflessioni che puntano in alto: auspicano passioni forti, scelte audaci da parte di tutti. Tutto ciò, ovviamente, non è possibile senza una profonda rivoluzione delle coscienze. Non si tratta solo di fare adeguate scelte politiche e tecniche, ma perché sia possibili ed anche efficaci si richiede un generale sussulto delle coscienze che suscitino una nuova visione del senso della vita, dello sviluppo e della felicità. Insomma, c’è bisogno di una grande visione sul mondo e sul suo destino. Purtroppo, a me pare che siamo entrati nel nuovo secolo scarichi di visioni e di passioni. Siamo tutti, singoli e collettività, un pò a testa bassa, ripiegati su noi stessi.

C’è bisogno di recuperare una visione in grande della creazione. Giovanni Paolo II, in uno strardinario messaggio (1 gennaio 1990), lo affermava: “Teologia, filosofia e scienza concordano nella visione di un universo armonioso, cioè di un vero «cosmo», dotato di una sua integrità e di un suo interno e dinamico equilibrio. Questo ordine deve essere rispettato: l’umanità è chiamata ad esplorarlo, a scoprirlo con prudente cautela e a farne poi uso salvaguardando la sua integrità”. Continuava poi dicendo che “la terra è essenzialmente un’eredità comune, i cui frutti devono essere a beneficio di tutti. «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e popoli», ha riaffermato il Concilio Vaticano 11 («Gaudium et Spes», 69)”. E’ ingiusto pertanto che “pochi privilegiati continuino ad accumulare beni superflui dilapidando le risorse disponibili, quando moltitudini di persone vivono in condizioni di miseria, al livello minimo di sostentamento. Ed è ora la stessa drammatica dimensione del dissesto ecologico ad insegnarci quanto la cupidigia e l’egoismo, individuali o collettivi, siano contrari all’ordine del creato, nel quale è inscritta anche la mutua interdipendenza”.

E aggiungeva quindi: “La società odierna non troverà soluzione al problema ecologico, se non rivedrà seriamente il suo stile di vita. In molte parti del mondo essa è incline all’edonismo e al consumismo e resta indifferente ai danni che ne derivano”. La gravità del dissesto ecologico rivela quanto sia profonda la crisi morale in cui versano le nostre società. Se manca il senso del valore della persona e della vita umana è normale disinteressarsi sia degli altri che della terra. Per contrastare questo andazzo, è indispensabile e urgente un’opera di educazione alla responsabilità anche ecologica: responsabilità verso gli altri; responsabilità verso l’ambiente. Non bastano esortazioni morali, sono velleitarie. L’educazione alla responsabilità verso il creato comporta un’autentica conversione nel modo di pensare e di comportarsi. Si debbono alzare gli occhi da se stessi e sentire la responsabilità per la vita degli altri. L’austerità, la temperanza, l’autodisciplina e lo spirito di sacrificio devono informare la vita quotidiana della maggioranza per non essere costretti a subire tutti le conseguenze negative della noncuranza dei pochi.

 

L’uomo, amministratore, non padrone, del creato

 

La crisi ecologica non arriva per caso e tanto meno è senza cause. “Alla radice della distruzione dell’ambiente naturale c’è un errore antropologico” scriveva Giovanni Paolo II nella Centesimus annus (n.37). E’ la pretesa dell’uomo di essere padrone assoluto della terra (ab-solutus), ossia sciolto da ogni vincolo, e di disporne arbitrariamente, come se la terra non avesse una sua propria forma e una destinazione anteriore all’uomo stesso. La tradizione ebraico-cristiana (che in parte anche l’Islam accetta) è chiara su questo. L’uomo riceve da Dio una precisa responsabilità di custodia e di salvaguardia della creazione. Creato a immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26) l’uomo lo rappresenta nel mondo. La creazione, di cui è il culmine, gli è affidata perché “egli domini sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”(Gen 1,26). Anche la benedizione data da Dio ridice questa responsabilità: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela e dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra” (Gen 1,28).

L’uomo deve essere fecondo, ossia vivere e affermare la qualità della vita lottando contro la morte: non deve sparire né ritrarsi, ma moltiplicarsi abitando l’estensione della terra. Riempirla non significa calpestarla, né moltiplicarsi senza misura, ma abitarla rendendola una dimora buona per tutti. Il verbo “soggiogare” (kavash), può significare “camminare su, dominare sessualmente”, ma come tra uomo e donna ci può essere un rapporto che non sia di soggiogamento, così deve essere tra l’uomo e la terra. E il verbo radah, ossia “dominare”, va inteso come l’azione di chi deve guidare il popolo verso una vita piena e nella pace. I due verbi citati non significano l’esercizio di un potere oppressivo, arbitrario e violento; anzi, escludono totalmente lo sfruttamento e la distruzione della terra. E’ questo il senso del “giubileo”, ossia di un tempo di riposo e di ri-inizio, sia per gli uomini che per la terra. L’uomo è signore della creazione (Sal 8) in quanto mandatario di Dio. C’è perciò convergenza tra questo comando e quanto è scritto nel più antico racconto della creazione, là dove si dice: “Il Signore Dio pose l’uomo in un giardino perché lo coltivasse (‘avad) e lo custodisse (shamal)” (Gen 2,15). La terra non è sua, continua ad appartenere a Dio. Tra l’altro, va notato che il comando a soggiogare la terra e a dominare sugli animali è dato a un uomo che non è carnivoro, semmai vegetariano, visto che Dio gli dà come cibo “ogni erba, ogni seme e frutto che cresce dalla terra” (Gen 1,29). Gli esseri che hanno “nefesh”, ossia vita animale, non possono servire da cibo agli uomini secondo la volontà creazionale di Dio, sicché il cosmo è chiamato a vivere un rapporto che è di grande e totale rispetto per la vita.

Il potere dato da Dio all’uomo ha un limite. L’autore sacro lo descrive con la proibizione di mangiare il frutto dell’albero della vita. Quando il tentatore si avvicina ad Eva per convincerla a mangiarne e lei avanza l’obiezione della morte, le dice: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui ne mamgiaste si aprirebbero I vostri occi e sareste come Dio”(Gen 3, 4). E’ la tentazione prometeica che ricorre continuamente nella storia sia personale che collettiva: l’uomo non si sente solo faber ma creator, non più limitato ma onnipotente. E’ qui la radice profonda del sovvertimento dell’ordine della natura. E si deve ricordare che questa tentazione “è accovacciato alla tua porta”(Gen 4,7), come nota la Genesi. Lo scatto etico – ed anche religioso – significa pertanto ricacciare indietro il peccato di onnipotenza che forzando la porta è entrato nel cuore dell’uomo. E’ urgente che l’uomo riprenda il suo essere dominus non creator stabilendo un rapporto dialettico con la creazione per trasformarla senza tradirla, per servirsene come casa senza distruggerla.

La crisi ecologica sta interrogando anche la riflessione teologica cristiana. Si stanno moltiplicando gli studi sulla creazione. E ci sono teologi che esortano i credenti ad una “conversione ecologica” perché la signoria che sono chiamati ad esercitare sul creato sia il “riflesso reale dell’unica e infinita signoria di Dio”. Moltman, noto teologo protestante, invita a ripensare un’antropologia cristiana in maniera più integrata all’intera creazione. E, dopo aver accennato ai rischi di una certa teologia che può anche aver avallato il dispotismo dell’uomo sulla natura, si spinge ad esortare ad una sorta di “spiritualità cosmica”, che peraltro non è assente nella tradizione della Chiesa. Per non citare solo San Francesco, riporto quanto un antico monaco, Zosimo, dava ai suoi discepoli: “Miei fratelli, non temete il peccato, amate l’uomo anche nel peccato, c’è in lui l’immagine dell’amore divino. Amate tutta la creazione insieme e in tutti i suoi elementi, ogni foglia, ogni solco, gli animali e le piante. Amando ogni cosa, voi comprenderete il mistero di Dio nelle cose. E avendolo compreso ne trarrete vantaggio ogni giorno. E finirete per amare il mondo intero di un amore universale”.

E’ una visione pienamente in linea con la visione biblica della creazione. Per l’autore sacro, il cielo, la terra e tutte le creature non sono entità estraneee tra loro, immobili e fisse, fanno invece parte di uno scenario che abita il tempo e lo spazio. La creazione dà inizio al tempo e termina con il settimo giorno, durante il quale tutto l’universo si riposa, sicché tutte le creature sono nel tempo, nella storia: non fanno parte di uno scenario a se stante e staccato dall’uomo che dall’esterno vi è collocato. No, l’uomo, che la Scrittura pone all’apice della creazione, viene dalla terra. Dio ha plasmato l’adam, l’uomo, a partire dall’adamà, ossia dalla terra (cfr. Gen 2,7). L’uomo è il terrestre perché tratto dalla terra! Si potrebbe dire che la terra è in qualche modo, se non madre, almeno matrice dell’uomo. Questa origine l’uomo non potrà mai di­menticarla, anche perché alla terra tornerà (cfr. Gen 3,19). La terra è creatura di Dio e l’uomo è creatura tratta dalla terra, co-creatura con la terra. Alcuni esegeti traducono: “Dio plasmò l’uomo, che è polvere del suolo”(Gen 2,7), e non “Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo”. Dio ha creato liberamente l’uomo, senza il consenso della terra, tuttavia la terra è matrice dell’uomo. Ma, si badi bene, anche gli animali sono plasmati dal suolo, dall’adamà, come l’uomo (cfr. Gen 2,19). Essi sono subito portati davanti all’uomo perché dia loro un nome, come segno di superirità.

Gli animali non sono in grado di costituire un faccia a faccia per l’umano, e tuttavia sono destinatari di una relazione con l’uomo che li abilita a ricevere un nome, cioè ad essere soggetti, compagni, ausiliari per l’uomo. Ma la co-­creaturalità come comunione è completa solo con la creazione della dualità, dell’alterità: così è creata la donna, che la Scrittura dice tratta dall’uomo per affermare l’uguaglianza con lui; ma la donna è anche diversa o, meglio, “altra” da lui, in modo che sia possibile il faccia a faccia, la relazione, la comunione. L’uomo e la donna sono co-creature per volere di Dio, chiamate a diventare una sola carne (cfr. Gen 2,24), e questa relazione tra maschio e femmina dovrà prevalere sulla stessa relazione familiare… Insomma, la creazione, secondo il racconto biblico (Gen. 2), è una comunità di co-creature, perché l’uomo è in stretta relazione con la terra, le piante, gli animali ed è relazione in se stesso: maschio e femmina!

Ci sono altre indicazioni che rivelano la creazione come comunione di co-creature. Nel racconto della creazione contenuto nel capitolo 1 della Genesi, Dio dà una benedizione agli animali del cielo e a quelli delle acque, dicendo: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari, e gli uccelli si moltiplichino sulla terra!”(Gen 1,22), ma è la stessa benedizione che dà anche agli uomini (cfr. Gen 1,28), mettendo così in evidenza come ci sia una solidarietà nel crescere e nell’abitare l’universo da parte di uomini e di animali: Dio ha dato a entrambi l’universo come il luogo da abitare, e il rapporto tra uomo e animale è innanzitutto di somiglianza, di solidarietà, di condivisione dello spazio vitale. Proprio per questo la creazione delle piante e degli animali è cosa “buona” e quella dell’uomo “molto buona”, e tutte le creature sono destinate al settimo giorno, giorno nel quale trovano destino e pienezza di esistenza. L’uomo insomma non esiste senza le altre creature, e il mondo esiste come casa dell’uomo. Certo c’è una differenza sostanziale tra l’uomo e le altre creature. Lo esprimeva bene Romano Guardini quando affermava: le cose nascono per comando di Dio, mentre l’uomo per una chiamata di Dio. E’ la dimensione della persona che lega in maniera unica l’uomo a Dio sino a renderlo suo rappresentante nella creazione.

 

Verso un’ecologia umana

 

Non si deve dimenticare, tuttavia, che oltre ad una ecologia ambientale vi è anche una ecologia “umana” che riguarda la vita stessa dell’uomo e la sua dimensione spirituale. A partire dai numerosi comportamenti inquinanti che rivelano una generalizzata mancanza di rispetto per la vita. Quante volte, ad esempio, le ragioni della produzione prevalgono sulla dignità del lavoratore e gli interessi economici vengono prima del bene delle singole persone, se non addirittura di quello di intere popolazioni? Non dovrebbe poi mancare l’inquietudine per le enormi possibilità della ricerca scientifica e biologica che possono introdurre turbamenti devastanti. Non tutto ciò che l’uomo può fare, va fatto. Basti pensare al dramma della bomba nucleare. E’ stato davvero un progresso? E non credo siamo in grado di misurare i danni di una indiscriminata manipolazione genetica e di uno sviluppo sconsiderato di nuove specie di piante e forme di vita animale, per non parlare di inaccettabili interventi sulle origini della stessa vita umana. A nessuno sfugge come, in un settore così delicato, l’indifferenza o il rifiuto delle norme etiche fondamentali portino l’uomo alla soglia stessa dell’autodistruzione. Il rispetto della vita e, in primo luogo, della dignità della persona umana deve diventare la fondamentale norma ispiratrice di un sano progresso economico, industriale e scientifico.

E dovremmo porre maggiore attenzione anche all’inquinamento etico che, attraverso comportamenti irresponsabili, devastano la cultura dei piccoli e dei grandi ispirando convinzioni devastanti. Il dissesto della vita morale, che sta minando nelle radici la stessa convivenza delle nostre società, richiede un’attenta consapevolezza da parte di tutti e una grave responsabilità per edificare una società a misura dell’uomo e del creato. Dissesto ecologico e dissesto morale richiedono un profondo sussulto spirituale per suscitare nuove passioni per il mondo, per la società, per il bene comune di tutti.

Senza questo profondo sussulto è arduo fondare una prospettiva di solidarietà universale. Solo nuovi grandi sogni possono spingere gli individui e i popoli ad uscire dall’istintivo egocentrismo e proiettarsi con passione verso un progetto globale. Credenti e laici sono chiamati ad avviare un serrato e fecondo dibattito a tutto campo. Luc Ferry, un filosofo francese non credente, è tra coloro che si cimentano in questa ricerca. Egli registra con preoccupazione la crescita di una concezione egocentrica del vivere derivata dalla perdita di senso: “Dopo il relativo regresso delle religioni, dopo la morte delle grandi utopie che inserivano le nostre azioni nell’orizzonte di un vasto disegno, la questione del senso non trova più un luogo dove esprimersi a livello collettivo… resta confinata nell’intimità della più stretta sfera privata. Traspare solo in occasioni eccezionali, lutti o malattie gravi”. E’ il vuoto. E la situazione non appare passeggera. All’orizzonte non appaiono i segni di un nuovo “grande disegno” che dia significato forte alla vita e al mondo. Il filoso francese afferma che se si vuol evitare il rischio di cadere nel baratro del nulla non basta un semplice “ritorno all’etica”. E’ indispensabile un nuovo umanesimo, una nuova visone dell’uomo e del suo destino, che deve avere tratti analoghi a quelli religiosi: “La morale è utile e anche necessaria: ma rimane nell’ordine negativo del divieto. Se le etiche laiche, anche le più sofisticate e più perfette, dovessero costituire l’ultimo orizzonte della nostra esistenza, ci mancherebbe ancora qualche cosa, per la verità l’essenziale: l’amore (sia degli individui sia delle comunità di appartenenza)”. Parafrasando la nota frase di Heidegger, “Solo un dio ci può salvare!”, si potrebbe dire che, di fronte al prevalere assoluto della cultura tecnologica, “Solo l’amore ci salverà!”

E’ in questo orizzonte che si muovono anche le Chiese cristiane. Basti pensare all’impegno “ecologico” di Giovanni Paolo II ripreso da Benendetto XVI, a quello del Consiglio Ecumenico delle Chiese, come pure agli interventi del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I e delle Chiese ortodosse che hanno voluto fissare il primo settembre, inizio dell’anno liturgico, come momento di riflessione e di preghiera per la salvaguardia del creato. Anche la Conferenza Episcopale Italiana, da qualche anno, dal primo settembre sino alla festa di San Francesco, invita le diocesi e le parrocchie di dedicare una giornata di riflessione sulla responsabilità dell’uomo verso il creato. Mi auguro che venga allargata ai cristiani nel mondo ed anche ai credenti di tutte le religioni. E’ una frontiera nuova che deve accomunare tutti perché sia affermi il sogno di Dio sul mondo.

 

La trasfigurazione del creato

 

E permettetemi un cenno al “sogno di Dio” sul mondo. E’ un sogno con un inizio e un termine. “In principio” – nota la Bibbia nella Genesi – l’uomo riceve da Dio un giardino da coltivare e da custodire per renderlo spazio di vita e dimora per tutte le creature nella giustizia, nella pace, nella bellezza. C’è poi la “fine” della storia. E l’Apocalisse rivela che ci sarà una città bella con un giardino (cfr. Ap 21-22) la cui costruzione spetta anche all’uomo mentre Dio la fa scendere dal cielo. Tra il “principio” e la “fine” vi è l’intera storia umana segnata sia dalle ferite degli uomini che cedono alla tentazione dell’onnipotenza e che deturpano il creato, sia dall’impegno di tanti credenti e persone di buona volontà che spendono la loro vita per il bene di tutti. L’impegno a trasfigurare la creazione intera è la grande fatica affidata ad ogni generazione.

Deve crescere sempre più la consapevolezza del legame tra l’uomo e il creato: in efetti, o si salveranno assieme, o assieme periranno. Si potrebbe persino dire che che la salvezza dell’umanità condiziona quella della creazione. È Paolo a fare questa connessione nella Lettera ai Romani quando scrive: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio… Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi”(8,19-22). C’è un’attesa in tutte le creature, un desiderio di salvezza cosmica, possibile però solo se gli uomini realizzano la loro vocazione a diventare figli di Dio. Quando gli uomini saranno figli di Dio, ossia legati a Gesù Cristo, allora la creazione conoscerà essa pure la sua trasfigurazione, la sua “novità”, e saranno generati cieli nuovi e terra nuova.

I profeti tante volte hanno annunciato questo futuro della creazione, descrivendolo con le immagini dell’agnello e del lupo che pascolano insieme, del lattante e della serpe che insieme giocano, del deserto che rifiorisce (cfr. Os 2,20; Is 11,6-8; 32,15-17…)! Sono visioni che volevano suscitare passioni per costruire un futuro non solo per se stessi ma per tutti. Gesù Cristo rappresenta lo spartiacque decisivo della storia del creato nella sua ampiezza. Il giorno di Pasqua viene rotolata via dal sepolcro la pietra che lo chiudeva. Gesù, il “primogenito di ogni creatura” diviene il “primogenito di coloro che risorgono dai morti”(Col 1, 15-20). Il corpo di Cristo risorto è lo “spazio” all’interno del quale la creazione viene raccolta da Dio e trasfigurata. Con lui sono iniziati i tempi definitivi.

I cristiani, di fronte “al deserto che avanza” come annunciava Nietzsche, di fronte alla terra sempre più desolata, di fronte alla distruzione del creato, sono chiamati ad unirsi a Cristo che scende nelle profondità della creazione per salarla dalla corruzione e dirigerla verso l’Alto. E’ quel che i cristiani celebrano e sperano ogni domenica quando si radiunano attorno all’Eucarestia. Celebrano una salvezza non individuale né astratta dal creato. Nella domenica già vivono il futuro della creazione, ossia la famiglia umana che abita una città pacificata e universale. L’Eucarestia, quella piccolo pane trasfigurato, quel “frammento” ricapitola già il “tutto”, anche se deve ancora venire la pienezza. Questo celebrano i credenti ogni domenica.

E chi non crede, o crede in altro modo? Ciascuno è chiamato ad aprirsi all’amore: è questa la via per trasfigurare, non solo per salvaguardare, il creato. Oggi siamo più consapevoli che non si può amare l’uomo senza amare anche la terra, sua abitazione. La crisi ecologica può essere un’occasione opportuna non solo per suscitare “il coraggio della paura”, come qualcuno giustamente chiede al fine di ottenere decisioni e comportamenti sapienti, ma soprattutto per riscoprire la fede da parte dei credenti e l’amore da parte di tutti. Solo l’amore, infatti, salverà il creato.