L’impegno per la vita, oggi. È tempo di proposta

di Francesco d’Agostino

Un osservatore oggettivo dei recentissimi lavori dell’Assemblea plenaria della Pontificia Accademia per la Vita (Pav) , la prima convocata dal suo nuovo presidente, l’arcivescovo Vincenzo Paglia, dopo il recente vistoso rinnovamento dei suoi membri, non può che rilevare come essa, nella saldezza dei suoi statuti, sia apparsa animata da uno spirito nuovo. Tradizionalmente, infatti, alla Pav era stato affidato il compito di consolidare e diffondere le indicazioni del Magistero della Chiesa in materia bioetica: un compito pesante, assolto peraltro con intelligenza ed equilibrio. Un compito, però, che col passare degli anni ha contribuito a proiettare sulla bioetica cattolica un’immagine difensiva e conservatrice. Infatti, alle nuove sfide della biomedicina la Pav aveva cercato fino ad oggi di rispondere riproponendo – ripeto: con intelligenza – l’antico, nobilissimo paradigma ippocratico, efficacemente riassumibile nel precetto primum non nocere.

Un imperativo palesemente prudenziale, ragionevolmente prudenziale, doverosamente prudenziale, ma palesemente inadatto a fronteggiare lo sviluppo prodigioso della scienza e della tecnica degli ultimi decenni, attivato da scienziati che hanno praticamente eletto (anche se non lo ammetteranno mai esplicitamente) il rischio a loro parola d’ordine. Ne è prova la difficoltà con cui la bioetica “classica” non solo ha proposto , ma perfino argomentato il “principio di precauzione”, tanto intrinsecamente sensato, quanto nella prassi messo da parte dagli scienziati, quando in contrasto con le speranze, ancorché prometeiche, attivate dalla tecnoscienza. Ed è un fatto che da decenni i bioeticisti, gli ecologisti, i teologi e più in generale i filosofi continuano ad ammonire gli scienziati a introdurre la categoria del limite nei loro paradigmi e che da decenni ottengono in cambio nient’altro che parole; parole rassicuranti, certamente, ma pur sempre, come diceva Amleto, parole, parole, parole.

Qual è allora oggi il dovere della bioetica oggi? Quello di cambiare paradigma. Da una bioetica difensiva, bisogna passare ad una bioetica propositiva. Da una bioetica che si limita a descrivere scenari futuri angoscianti, bisogna passare a una bioetica che individui nel futuro scenari positivi e umanizzanti e operi per promuoverli. Gli strumenti concettuali ereditati dal passato sono stati spesso caratterizzati da «ritardi e mancanze», che, ci dice il Papa, dobbiamo «riconoscere onestamente». È un riconoscimento che può essere doloroso, ma che è anche indispensabile. Dobbiamo individuare nuovi strumenti: ma quali?

Utilizziamo uno spunto che emerge dal discorso di papa Francesco alla Pav. Egli ha esortato gli accademici ad essere «creativi e propositivi, umili e coraggiosi». Ognuna di queste parole è attentamente calibrata. Chi è «creativo» non può che essere «propositivo», perché l’apertura al nuovo, espressa in formule generiche e sospirose, altro non è che una furbissima modalità di immobilismo. Chi è «umile», autenticamente umile, è chiamato a dare prova di un grande coraggio: umiltà, infatti, per chi faccia lavoro intellettuale, non è ammettere, usando espressioni edificanti, la propria ignoranza (ammissione tutto sommato facile, perché l’ignoranza ci permea tutti), ma è riconoscersi disposti a imparare dall’altro: cosa che, particolarmente in bioetica, è difficilissima, tanto è forte la tentazione di assumere i propri paradigmi come se essi soltanto veicolassero verità di fede. Per fare un solo esempio, per ciò che concerne questo punto, e so di fare un esempio scottante: se il sì alla vita, per un cristiano, è un principio inderogabile di fede, perché egli ritiene che la vita sia un dono di Dio, il no (o il sì!) all’accanimento terapeutico non sono verità di fede.

La stessa procreazione assistita, nelle nuove forme che sta assumendo col progresso delle biotecnologie, non tollera più un no generico e riassuntivo, ma chiede di essere valutata con un’intelligenza critica «creativa e propositiva, umile e coraggiosa» (per riprendere le parole del Papa), che riattivi il dibattito con il mondo della scienza, favorendo l’elaborazione di una nuova «sintesi antropologica».

Il Papa non fa sconti alle pretese arbitrarie della modernità tecnologica; denuncia, senza esitare, il dilagare del culto dell’io, dell’«egolatria» o il diffondersi dell’«utopia del neutro», che offende la dignità umana nella sua identità bisessuale. Ma soprattutto sottolinea con forza la necessità di un nuovo inizio. Perché i cristiani sono coloro che, anche quando meditano sul passato e sulla tradizione, sanno che Dio è colui che fa nuove tutte le cose e che ciò che costituisce il nostro primo dovere non è la difesa del passato, ma l’instaurazione del futuro.

(da Avvenire)