Le ingiustizie della giustizia


di Antonio Salvati

Il libro di Raffaele Cantone e Vincenzo PagliaLa coscienza e la legge, di cui ci siamo occupati in un precedente blog, tratta diffusamente la “centralità” della questione carceraria, relativamente alla consapevolezza dello strettissimo rapporto che lega la condizione delle carceri alla qualità civile di una società. L’indifferenza (o l’ingiustizia) nelle carceri significa anche indifferenza (ingiustizia) della società verso la persona umana, sostiene Paglia. Siamo sufficientemente informati quanto il sovraffollamento continui a provocare situazioni di profondo degrado della vita e della dignità dei detenuti. Malgrado diversi provvedimenti per fronteggiare le gravissime disfunzioni, siamo ben lontani da una soluzione. Eppure i padri costituenti tracciarono con estrema chiarezza che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 Cost.)», definendo, inoltre, la proporzionalità della pena con il crimine compiuto. E, infine, che la pena del carcere deve esaurirsi nella privazione della libertà personale del detenuto, senza l’imposizione, come spesso accade, di misure aggiuntive, come l’assenza di qualsiasi privacy, le gravi condizioni sanitarie, la mancanza di lavoro, la privazione dell’affettività, etc. Occorre rispettare tali indicazioni per restituire al carcere quel “senso di umanità” di cui, appunto, parla esplicitamente la Costituzione e che permette – osserva giustamente Paglia – «di salvare sia la dignità per i detenuti sia la speranza di una loro futura redenzione». Non a caso non pochi giuristi da anni predicano unanimemente il carcere come l’extrema ratio e non come strumento per tranquillizzare la società o peggio per guadagnare consenso. Infatti, prende sempre più piede una mentalità vendicatrice verso i colpevoli, contribuendo a rendere le carceri una “discarica sociale” di coloro che sono già ai margini della società (come attestano i dati relativi al numero decisamente alto di tossicodipendenti e di migranti nelle carceri). E, inoltre, perde sempre più vigore il dibattito sulle pene alternative al carcere, come la detenzione domiciliare, l’affidamento ai servizi sociali, la semilibertà ed anche la liberazione anticipata, quando ci sono ovviamente le condizioni previste. Eppure, da anni, le statistiche sono a favore di tale prospettiva. Sono circa il 30 per cento i casi di recidiva di chi ha scontato la pena attraverso forme alternative e invece nel 70 per cento di chi l’ha scontata in carcere. Tanti detenuti – ricorda Paglia – sono per lo più dimenticati durante la loro detenzione e soprattutto sono abbandonati a loro stessi una volta usciti dal carcere. È illusorio pensare che l’inasprimento delle pene, oppure la costruzione di nuove carceri, favoriscano l’affermarsi della giustizia. Oltre che illusorio è anche dannoso. Papa Francesco, nel discorso ai penalisti tenuto il 23 ottobre 2014, consapevole della situazione, sosteneva che «stando così le cose il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuta verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte. C’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative. In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società». Queste parole del papa, precise e dettagliate, per Vincenzo Paglia, andrebbero considerate e comprese nella loro forza sia giuridica sia umanistica, talmente tante sono numerose le contraddizioni che afferiscono alle carceri. C’è da essere preoccupati per la crescita di mentalità vendicatrice senza né perdono né misericordia, avvertono gli autori del volume. «Non possiamo retrocedere sulla concezione redentiva del carcere e della pena. È una questione di civiltà. La distrazione da tale questione diviene complicità con una cultura giustizialista e, alla fine, crudele». Paglia si sofferma sulla presenza in carcere dei bambini piccoli, seppur si tratta certamente di una presenza numericamente esigua. I dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 31 agosto 2018, contavano nelle carceri italiane 52 madri con 62 bambini, quasi equamente distribuite tra italiane (27 con 33 figli al seguito) e straniere (25 con 29 figli). È un numero in calo rispetto alla precedente rilevazione del marzo 2018, quando erano presenti nei penitenziari italiani 58 madri con 70 bambini, nelle aree del carcere denominate “sezioni nido”. Questi bimbi possono restare con le madri fino all’età di 3 anni. Nei cinque Icam, dove si può restare fino ai 6 anni, ce n’erano – sempre al 31 marzo 2018 – altri 18 (con 15 mamme). Un sistema che non riesce a liberare 62 bambini non solo è contro i dettami costituzionali che vedono nel carcere uno strumento rieducativo, ma è profondamente in contraddizione con il minimo senso della humana pietas. È senza dubbio una delle frontiere dove la società può mostrare il rapporto virtuoso e indissociabile tra giustizia, misericordia e perdono.

Cantone fa proprie le parole di Paglia quando afferma «il torto subìto o non ricucito, sia nelle vicende personali sia nello scacchiere internazionale, crea abissi di rancore». E’ quanto in parte accaduto – rileva il magistrato napoletano – anche nel nostro paese o, meglio ancora, quella che è stata la sensazione di una parte dei cittadini, poi strumentalmente alimentata da una parte non sempre corretta dell’informazione e dai fautori delle politiche securitarie. È vero che in Italia non c’è un aumento della criminalità e i dati statistici lo dimostrano in modo inequivocabile, «ma il senso di insicurezza dei cittadini è certamente cresciuto nell’ultimo periodo e ciò è stato anche dovuto spesso a risposte sul piano dell’ordine pubblico e giudiziario che non sono apparse a molti italiani sufficienti a risarcire quelli che apparivano i torti commessi». Per il magistrato pretendere un po’ di rigore e una maggiore afflittività delle pene non significa affatto voler contestare il principio di rieducazione delle pene o peggio ancora strizzare gli occhi ai forcaioli dell’ultima ora; «significa, al contrario, provare a togliere argomenti a chi soffia su certe preoccupazioni più o meno fondate che avvertono i cittadini! Non credo, ad esempio, in questa prospettiva, che sarebbe scandaloso augurarsi una riforma del sistema di giustizia minorile che non leghi certe opportunità solo al dato anagrafico, ma tenga conto dell’effettivo sviluppo dei minori; non tutti i diciassettenni, ad esempio, sono uguali e non tutti meritano di essere trattati da ragazzini che devono essere aiutati a crescere».

E’ opportuno il richiamo di Paglia alla nota affermazione evangelica: «Ero carcerato e siete venuti a visitarmi» (Matteo 25,36). Sono poche parole – ricorda Paglia, facendo tesoro dell’esperienza nelle carceri della Comunità di Sant’Egidio –, che hanno segnato in profondità milioni di credenti, di carcerati ed anche la stessa storia civile. Sono le parole con cui Gesù in certo modo chiuse la sua stessa vicenda terrena. Gesù – seguendo la narrazione dei Vangeli – visse in prima persona le esperienze dei perseguitati dalla “giustizia” umana, fino alla condanna a morte pur essendo innocente, come lo stesso Pilato riconobbe pubblicamente. Ricorda Paglia: «Gesù fece esperienza della rappresaglia e dell’arresto, provò l’angoscia sino a sudare sangue, subì l’arresto, la detenzione, il processo, le false testimonianze, le false accuse, le derisioni dei carcerieri, e infine il supplizio della morte in croce. Al culmine del suo dramma seppe trovare anche le parole giuste per confortare uno dei suoi due compagni di croce. A questi che gli chiese: “Ricordati di me quando sarai nel tuo regno”, egli rispose: “Oggi stesso, sarai con me in paradiso”». Don Mazzolari, da quel grande credente che era, scrisse che Gesù entrava in paradiso assieme al buon ladrone, al cattivo ladrone e anche a Giuda. E, con qualche compiacimento, commentava: «Che corteo!». Gesù non si vergognò di identificarsi con i carcerati, fu lui stesso carcerato. C’è come una sorgiva “fraternità” dei cristiani con i carcerati. In precedenti pubblicazioni Paglia aveva già ricordato quanto nella tradizione cristiana è ininterrotta la pratica della visita ai carcerati, ed è tra le più pervase di misericordia: «e spesso è stata all’origine di una nuova e più umana condizione dei carcerati e degli stessi edifici nella loro struttura architettonica sino al cambiamento del termine, da carceri a penitenziari, ossia luoghi di penitenza in analogia ai conventi. E la penitenza era tesa alla redenzione, al cambiamento del colpevole, perché potesse reinserirsi nella società. Tale amore per i carcerati ha spinto molti credenti lungo i secoli a frequentare i luoghi di reclusione e a sviluppare una preziosa e molteplice azione tesa comunque ad umanizzare le carceri».

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