Le implicazioni ecclesiologiche di “Amoris Laetitia”

Il valore “sinodale” della Esortazione Apostolica

Sono passati ormai quasi tre anni dalla pubblicazione della Esortazione Apostolica Postsinodale, Amoris Laetitia. Papa Francesco ha raccolto le proposizioni del Sinodo dei Vescovi del 2015, le accolte nella quasi totalità ed ha elaborato un suo testo che ha proposto all’intera Chiesa Cattolica. Non ripercorro il lungo itinerario che ha portato all’Amoris Laetitia. Ma credo sia utile sottolineare che non c’è stato altro documento papale che abbia avuto una così lunga e elaborata gestazione. E’ il frutto di una dinamica ecclesiale che per alcuni aspetti è inedita, visto che è stato coinvolto anche il popolo di Dio attraverso richieste consultazioni. Il Papa stesso ha tenuto a sottolineare il prezioso contributo emerso dalle due assemblee sinodali che hanno portato “una grande bellezza e offerto molta luce… L’insieme degli interventi dei Padri, che ho ascoltato con grande attenzione, mi è parso un prezioso poliedro, costituito da molte legittime preoccupazioni e da domande oneste e sincere. Perciò ho ritenuto opportuno redigere una Esortazione Apostolica postsinodale che raccolga contributi dei due recenti Sinodi sulla famiglia, unendo altre considerazioni che possano orientare la riflessione, il dialogo e la prassi pastorale, e al tempo stesso arrechino coraggio, stimolo e aiuto alle famiglie nel loro impegno e nelle loro difficoltà”(4). L’apprezzamento del Papa, mentre sottolinea la novità del metodo, fa risaltare anche il contenuto che è emerso nel corso dei due anni di cammino sinodale. E si può affermare che l’intero processo è stata una “prova di sinodalità possibile” per la Chiesa nata dal Vaticano II, con un seppure iniziale riconoscimento del “sensus fidelium” e di ascolto del “sensus fidei” (LG,12) e, allo stesso tempo, una valorizzazione della collegialità episcopale.

C’è una luce particolare che illumina le pagine della Amoris laetitia, che a me pare importante sottolineare: il modo materno con cui il Papa guarda (e invita l’intera Chiesa a guardare) le famiglie di oggi. La Chiesa, scrive il Papa, deve fare sue le “gioie e le fatiche, le tensioni e il riposo, le sofferenze e le liberazioni, le soddisfazioni e le ricerche, i fastidi e i piaceri”(n.96) delle famiglie di questo nostro mondo. Si sente l’eco dell’incipit della Gaudium et Spes. In effetti, c’è un filo rosso che lega l’Esortazione Apostolica Amoris Laetitia al Concilio Vaticano II: dalla allocuzione iniziale Gaudet Mater Ecclesia, alla Gaudium et Spes, alla Evangelii Gaudium. Il “gaudium” (la gioia) non è solo una parola che le unisce. Il “gaudium” è l’esplicitazione di quella “simpatia immensa” che Paolo VI individuava come lo spirito che ha guidato i Padri sinodali nel Vaticano II a guardare il mondo e la società umana. L’Esortazione Apostolica non è tesa semplicemente ad instaurare una nuova strategia pastorale verso le famiglie. Essa chiede molto di più: acquisire tutti – clero, religiosi e laici – una modalità nuova di essere Chiesa nel mondo. Si tratta di realizzare una vera conversione pastorale. Amoris laetitia e Evangelii gaudium si compenetrano e si completano a vicenda. Ecco perché appare davvero riduttivo che l’attenzione sia dei pastori che dell’opinione pubblica si sia fermata soprattutto all’VIII capitolo e, anche qui, ad un’unica frase posta in  una nota, la 151. Certo, che nel capitolo VIII si tocchi un problema importante, è ovvio. Ma non è “il” problema che riguarda la Vocazione e la missione della Famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo. In ogni caso, il Papa si è attenuto al risultato delle votazioni sinodali; non è andato oltre, ma non è neppure rimasto un millimetro dietro.

Con questa mia riflessione vorrei cogliere alcune implicazioni di ordine ecclesiologico che l’Esortazione suggerisce per poter essere sia compresa che attuata. Ovviamente sono unicamente degli spunti che tuttavia chiamano in causa il complesso delle discipline teologiche, diritto compreso, la lettura della situazione culturale e sociale nella quel si trova oggi la famiglia e, ovviamente, il conseguente impegno pastorale.

 Verso una Chiesa “famigliare”

Una prima considerazione riguarda il cambio di passo e di stile che l’Esortazione Apostolica chiede e che riguarda la “forma” stessa della Chiesa, il suo modo di essere e di testimoniare. Va ribadito anzitutto che Amoria Laetitiae, segnato in ogni sua pagina da uno sguardo di grande simpatia per le famiglie, ribadisce l’altezza della missione affidata agli sposi dal Signore: “in nessun modo la Chiesa deve rinunciare a porre l’ideale pieno del matrimonio, il progetto di Dio in tutta la sua grandezza”(307). Il testo lo descrive con queste parole: “Il matrimonio cristiano, riflesso dell’unione tra Cristo e la sua Chiesa, si realizza pienamente nell’unione tra un uomo e una donna, che si donano reciprocamente in un amore esclusivo e nella libera fedeltà, si appartengono fino alla morte e si aprono alla trasmissione della vita, consacrati dal sacramento che conferisce loro la grazia per costituirsi come Chiesa domestica e fermento di vita nuova per la società”(292). Non si può pertanto essere reticenti nell’annunciare tale ideale, secondo la forte parola del Signore a riguardo della bellezza e della serietà del legame matrimoniale, come forma piena di attuazione della fede. La famiglia è un bene indispensabile per la vita della Chiesa, è un bene prezioso per l’evangelizzazione della vita, è un patrimonio indispensabile per la stessa società umana. E la Chiesa da sempre ne è consapevole.

Proprio tale altezza di ideale spinge il Papa a chiedere un rinnovato impegno per avvicinarsi alle famiglie nella concretezza della loro vita. Oggi non basta più semplicemente ripetere e ribadire la dottrina sul matrimonio e la famiglia. La Chiesa guarda con chiarezza le malattie che affiggono le famiglie di oggi, come mostrano le pagine del secondo capitolo della Esortazione Apostolica. Ma di fronte ai gravi problemi che affliggono sia l’istituto matrimoniale che quello della famiglia la Chiesa non vive un rassegnato pessimismo. Potremmo prendere in prestito le parole che Gesù disse per l’amico Lazzaro: “questa malattia non è per la morte”(Gv 11,4). La Chiesa è amica della famiglia, di tutte le famiglie. Ed è piena di speranza. Sa che il Signore è venuto per salvare. E la Chiesa sa che “la speranza non delude”. Sente altresì la responsabilità di aiutare tutte le famiglie perché siano portate davanti a Gesù. E lui le aiuterà a crescere nell’amore.

Questo nuovo sguardo della Chiesa per le famiglie richiede che essa stessa compia una svolta nel suo modo di essere e di concepirsi. Essa stessa deve vivere come una famiglia, in modo che parlando delle famiglie, la Chiesa parli di se stessa. Amoris Laetitia chiede che la famiglia non sia più pensata esclusivamente come destinataria di un’azione formativa, di un agire pastorale o sacramentale, ma riconosciuta come “soggetto dell’azione pastorale attraverso l’annuncio esplicito del Vangelo e l’eredità di molteplici forme di testimonianza: la solidarietà verso i poveri, l’apertura alla diversità delle persone, la custodia del creato, la solidarietà morale e materiale verso le altre famiglie soprattutto verso le più bisognose, l’impegno per la promozione del bene comune anche mediante la trasformazione delle strutture sociali ingiuste, a partire dal territorio nel quale essa vive, praticando le opere di misericordia corporale e spirituale”(290). Questa più essenziale ecclesiologia della famiglia, per dir così, è l’afflato di cui il testo respira, l’orizzonte verso il quale vuole condurre il sentire cristiano per questa nuova epoca. Tale trasformazione, se accolta con fede, è destinata a trasformare decisamente lo sguardo con il quale deve essere percepita la Chiesa dei credenti in questo passaggio d’epoca.

La chiave di questa trasformazione non si trova, come è sembrato nell’equivoca disputa che ha polarizzato gli inizi del cammino sinodale, nel presunto conflitto (o alternativa) fra rigore della dottrina e condiscendenza pastorale. La Chiesa, dietro l’impulso magisteriale del Papa, si vede confermata nella sua costitutiva disposizione a portarsi oltre ogni artificiosa separazione e contrapposizione della verità e della prassi, della dottrina e della pastorale, per riscoprire fino in fondo la responsabilità morale e dunque pratica dei suoi processi di interpretazione della dottrina. Insomma, c’è una dimensione pastorale della dottrina e assieme una pastorale che è anch’essa dottrinale che deve essere vissuta come un orizzonte rinnovato dell’essere stesso della Chiesa. Questa responsabilità – che le viene dall’imitazione del Signore, il quale in molti modi e con grande chiarezza ne ha dato l’esempio – impone alla Chiesa (alla comunità cristiana) di praticare un discernimento delle regole che si fa carico della vita delle persone, affinché non vada persa in nessun caso la loro percezione di essere amate da Dio.

L’immagine evangelica che userei – sulla scia della Evangelii Gaudium – per delineare la “forma ecclesiae” da vivere oggi è quella della parabola della pecora smarrita (cfr Lc 15,4-7): non è solo il pastore che deve uscire, tutte le novantanove sono chiamate ad uscire con il pastore per cercare, accompagnare, discernere e integrare chiunque ha bisogno di aiuto. Ma tutti dobbiamo vivere “in uscita”. Le novantanove, se restano sole, in certo modo si privano della essenziale dimensione missionaria del pastore: il recinto rischia di ridursi a burocrazia autoreferenziale. L’Esortazione chiede pertanto una nuova “forma ecclesiae”, che sia tutta missionaria, tutta “in uscita”, in “effettiva” uscita. Ecco perché non basta – per restare nell’ambito della famiglia – semplicemente riorganizzare la “pastorale famigliare”. C’è bisogno di molto di più: rendere “famigliare tutta la pastorale” o, ancor più chiaramente, rendere “famigliare tutta la Chiesa”.

Il Papa sa bene che non è facile o scontato accogliere questo orizzonte. Ma non vuole essere equivocato, anche perché non mancano fra i credenti coloro che vorrebbero una Chiesa che si presenti essenzialmente come un tribunale della vita e della storia degli uomini. Insomma, una Chiesa pubblico ministero dell’accusa, oppure notaio che registra gli adempimenti e le inadempienze di legge senza riguardo per le dolorose circostanze della vita e l’interiore riscatto delle coscienze. Ci si dimentica in tal modo che la Chiesa è stata impegnata dal Signore ad essere coraggiosa e forte proprio nella protezione dei deboli, nel riscatto dei debiti, nella cura delle ferite dei padri e delle madri, dei figli e dei fratelli; a cominciare da quelli che si riconoscono prigionieri delle loro colpe e disperati per aver fallito la loro vita. E vuole accompagnare tutti sino alla piena integrazione al Corpo di Cristo che è la Chiesa.

I segni forti di questo raddrizzamento di rotta sono almeno due. Il primo: se è ovvio che il matrimonio è indissolubile, il legame della Chiesa con i suoi figli e le sue figlie lo è ancora di più, si potrebbe dire, perché è come quello che Cristo ha stabilito con la Chiesa, un legame che mai viene rescisso. Per di più è stato stabilito già da quando eravamo nel peccato. E mai comunque saremo abbandonati dal Signore, anche quando ricadiamo nel peccato. Questo, come dice l’apostolo Paolo, è proprio un mistero grande, che va decisamente oltre ogni romantica metafora d un amore che rimane in vita soltanto nell’idillio di “due cuori e una capanna”. L’immagine paolina non dice, in primo luogo, che nel rapporto tra Cristo e la Chiesa c’è un grande mistero che riguarda l’uomo e la donna. Bensì il contrario. Ossia, l’alleanza dell’uomo e la donna Dio trova nel rapporto tra Cristo e la Chiesa la sua ragione di grazia. Non ne esaurisce però la ricchezza che si estende,peraltro, su tutti i legami di fraternità.

Il secondo segno è la conseguente piena consegna al Vescovo di questa responsabilità ecclesiale, sapendo che il principio irrinunciabile è la salus animarum (un’affermazione solenne che chiude il Codice di Diritto Canonico, ma che spesso viene dimenticata). Il Vescovo è giudice in quanto pastore. E il pastore riconosce le sue pecore anche quando hanno smarrito la strada. Il suo scopo ultimo è sempre quello di riportarle a casa, dove può curarle e guarirle, mentre non lo può fare se le lascia dove sono abbandonandole al suo destino perché “se lo sono cercato”.

Com’è evidente, si tratta di un nuovo stile ecclesiale da intraprendere. E questo richiede anche la consapevolezza della diversità delle situazioni. Il Papa non propone né una nuova astratta dottrina né nuove regole giuridiche. Nel testo il Papa ricorda che già durante il Sinodo vi è stata una pluralità degli interventi dei vescovi che hanno composto un «prezioso poliedro» (n.4). Tale orizzonte sollecita la teologia ad intraprendere una rinnovata riflessione in materia e spinge le singole Chiese a prendersi la responsabilità di far fronte alle innumerevoli sfide che le famiglie sono chiamate ad affrontare nei diversi contesti sociali e culturali. Nelle diverse regioni – scrive il Papa – “si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali. Infatti, “le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale […] ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato” (n.3). Il Papa avverte altresì che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero».

 L’alleanza di Dio con l’uomo e la donna, cuore della storia

La famiglia – secondo Papa Francesco – non riguarda semplicemente la storia di alcuni individui e dei loro desideri di amore (che pure ci sono), ma coinvolge la vita stessa della Chiesa e della società, sino a poter dire che la famiglia è la madre di tutti i rapporti, come appare nei primi due capitoli della Genesi che l’Esortazione richiama, ove la storia umana e la famiglia sono strettamente congiunte. In questo orizzonte strategico, Amoris Laetitiae chiede una riflessione teologica sul matrimonio e la famiglia con una prospettiva che riproponga l’alleanza di Dio con l’uomo e la donna così come essa viene tracciata nella creazione, ove appare chiaro che la storia del mondo e la storia della sua salvezza, camminano sulle gambe di questa alleanza di Dio con l’uomo e la donna. Dove essa è attiva e feconda, l’umanesimo cresce e la promessa custodita dalla fede viene sostenuta e onorata. Dove quell’alleanza si sfalda, l’umanesimo si arresta, e la promessa della fede viene mortificata.

La consegna dell’amore umano dell’uomo e della donna alla fede nel Figlio redentore e nello Spirito dell’agape di Dio che rinnova tutte le cose, attesta il carattere irrevocabile dell’alleanza creaturale. E la rende capace di irradiare la concreta evidenza della grazia che ci salva: anche quando ci scopriamo deboli e vulnerabili, peccatori e incapaci, sopraffatti dalla nostra debolezza e traditi dalla nostra stessa infedeltà. La dottrina rivelata della creazione non è dunque una semplice deduzione razionale, che attiene alla natura umana così come la concepiscono le scienze biologiche o l’astrazione filosofica, nella cornice di una pregiudiziale separazione della verità della creazione dall’economia della grazia (difetto dal quale, del resto, neppure la teologia è rimasta sempre immune).

Non si tratta perciò semplicemente di assicurare il buon funzionamento religioso e morale delle unioni, ovvero di istruire teologicamente la grandezza metafisica e sentimentale del vincolo. La posta in gioco è ancora più alta e fondamentale. Si tratta, detto in breve, di riallineare i processi di incarnazione della grazia e quelli della trasmissione della vita. Ossia, fra il legame d’amore con il Signore custodito nella fraternità ecclesiale, e l’ospitalità offerta dall’amore dell’uomo e della donna per la generazione che viene. In altre parole, è necessario ricomporre la qualità cristiana più alta con la condizione di vita più comune. E di rendere normale questa figura dell’essere-Chiesa: ossia la rete dei legami famigliari che istruiscono e disseminano le forme essenziali dell’agape di Dio. Bisogna perciò allineare in maniera più evidente il sacramento con la famiglia e la comunità ecclesiale. Non è a caso che nel testo papale, le quattro parole più citate dal Papa siano: “amore”(365 volte), “famiglia”(279), “matrimonio” (185) e “chiesa”(149). Si tratta di una sequenza non solo terminologica, ma con un peso contenutistico che va esplicitato.

E’ facile rilevare, ad esempio, una qualche trascuratezza da parte della teologia del matrimonio verso la dimensione famigliare, che è stata tacitamente iscritta fra le conseguenze pratiche dell’unione coniugale, che definiscono la condizione comune di una forma sociale di base. Va invece sviluppato di più il legame fra il sacramento del matrimonio e la famiglia, sino a poter dire con chiarezza che l’uomo e la donna non si uniscono in matrimonio semplicemente per loro stessi, bensì per l’edificazione di una famiglia intesa come luogo di generazione umana, di educazione filiale, di legame sociale e di fraternità ecclesiale. Il matrimonio è per la famiglia, non viceversa. La vocazione sociale e comunitaria del matrimonio, che nella famiglia trova il suo simbolo fondamentale e il suo nucleo propulsivo, è assunta all’interno della fede cristiana e della stessa forma ecclesiale, in quanto principio creaturale del disegno comunitario di Dio a riguardo della creatura umana.

Il fatto che il legame matrimoniale costituisca, nell’ordine cristiano, un vero e proprio sacramento della nuova alleanza, va compreso in continuità con l’originaria destinazione come appare nella narrazione della Genesi. L’alleanza creaturale dell’uomo e della donna, nella serietà del suo impegno generativo e famigliare, non ha perciò motivo alcuno di essere cristianamente disprezzata e ripudiata: anche là dove essa rimanga soggettivamente e/o congiunturalmente in una condizione di distanza temporale, o in uno stato di virtuale approssimazione, rispetto alla celebrazione cristiana del sacramento. In tale prospettiva si muove il testo papale quando spinge alla ricerca dei segni dell’amore di Dio, anche là dove non c’è il sacramento. Si potrebbe dire che Dio non fa eccezione di famiglia: lo Spirito raccoglie i vagiti della creatura e la Chiesa deve essere generosa nel confermare la grazia ricevuta e la salvezza destinata, pur annunciando l’appello alla fede che deve indirizzarla al suo compimento nella riconoscenza e nella testimonianza della fede. La garanzia istituzionale di una seria forma civile, o di una collaudata forma consuetudinaria, va apprezzata come oggettivamente convergente con la bontà del sacramento primordiale consegnato con la creazione (e confermato anche nella condizione decaduta).

Nel sacramento cristiano, il legame delle origini è redento e inserito nell’economia della salvezza cristiana, ma la logica del suo disegno creaturale continua a rappresentare il fulcro del suo compimento nella fede in Gesù Cristo, condivisa nella Chiesa. Il fatto che esista un intrinseco ordinamento del sacramento alla famiglia, e della famiglia alla comunità ecclesiale, non è una semplice conseguenza pratica dell’amore totale e fedele “dei due”, quasi che il significato essenziale del matrimonio (e quindi del sacramento) si condensasse e si esaurisse in primo luogo nel legame d’amore assoluto della coppia. La famiglia non riguarda semplicemente la storia di alcuni individui e dei loro desideri di amore (che pure ci sono), ma coinvolge la vita stessa della Chiesa e della società, sino a poter dire che la famiglia è la madre di tutti i rapporti. La destinazione ai vincoli famigliari e alla comunità ecclesiale è da ricondurre perciò alla natura intrinseca del legame matrimoniale secondo il disegno creatore, che nell’economia salvifica cristiana viene inserito – come parte attiva – nel più fondamentale legame di Cristo con “i molti” per i quali è destinato l’amore di Dio ed è versato il sangue redentore. In questa più ampia e concreta connessione si potrà ancor meglio comprendere il senso genuinamente “ecclesiale” della formula paolina sul “mistero grande”, riscoperta dalla recente teologia del matrimonio (Ef 5, 15).

La riflessione si deve poi allargare anche alla vocazione e missione della “donna”. Dobbiamo chiederci il senso delle parole primordiali che Dio rivolse al serpente tentatore: “Il seme di lei ti schiaccerà il capo” (Gn 3, 15). Pensiamo a quale bellezza e a quale forza potrebbe arrivare una parola cristiana che rilanciasse il nesso fra l’alleanza creaturale di Dio e il mistero del seme, della donna, della generazione, della trasmissione dell’umano e del senso del divino che sono iscritti nell’universale esperienza dell’essere figlio. Questo tema, molto esplorato riguardo all’eredità del peccato, è stato totalmente disatteso riguardo all’eredità della salvezza. Incominciando proprio da quel nato “da donna” ridotto alla nascita “nel peccato”, invece che predicato come il modo in cui Dio ha deciso di “dare la vita” umana al Figlio che vince il male per “ogni uomo che viene in questo mondo”. Se dovessimo svolgere questa implicazione dovremmo incominciare proprio di qui: dalla rivelazione del maltrattato capitolo 3 del libro della Genesi. La grazia e la salvezza passano di lì, dal grembo della donna. Abbiamo una teologia e un’antropologia della grazia all’altezza di questa rivelazione? Se l’avessimo, un grosso e bellissimo capitolo di teologia del matrimonio, dove il nesso della salvezza e del nascere da donna sarebbero centrali, sarebbe a disposizione. Ma a questo punto, non sarebbe più soltanto una teologia del matrimonio: sarebbe anche una cristologia e un’ecclesiologia, in cui il grembo della donna – tanto per cominciare – sarebbe un luogo teologico.

E ancora. Il tema del “non separare ciò che Dio ha unito”, oltre che riferito al vincolo dell’uomo e della donna, nel contesto di una discussione sull’interpretazione della tradizione a proposito del ripudio, andrebbe esteso all’intera trama dei rapporti implicati nell’atto creatore di Dio. Non solo uomo e donna non vanno separati, ma anche differenza sessuale e socializzazione umana, unione famigliare e lavoro della vita, governo del mondo e custodia del creato, non vanno separati. Dio ha pensato questi elementi nella bellezza della loro unione, e li ha affidati all’alleanza dell’uomo e della donna. Dove l’intima profondità di questi nessi (che sono biologici e psichici, come anche spirituali e sociali) si perde o viene violata, l’intera ricchezza dell’atto di “dare la vita”, nell’armonia delle sue molte componenti, è destinata a vanificarsi nella coscienza collettiva. E come potremo sostenere l’intero ordine degli affetti umani, che proprio dalla potenza di questa alleanza generativa trae forme e forze, linguaggi e conoscenza? L’unione dell’uomo e della donna è una grammatica elementare dell’umano, la cui decifrazione è alla portata di tutti. Ma è anche sintassi complessa, piena di incanti e di enigmi che ci superano, e che vanno esplorati e riconosciuti con delicatezza e rispetto. Il richiamo al rigore dell’impianto personalistico, che chiede unicità e fedeltà del rapporto, insieme con  la sua irrevocabilità di evento che cambia la vita per sempre, ha impressionato gli stessi discepoli di Gesù. E questo si declina anche all’interno di una ecclesiologia “familiare” ove si riconosce la vocazione e la missione della donna come componente essenziale della Chiesa.

Così pure, l’alleanza coniugale e generativa – fisica e spirituale – deve essere restituita alla sua alta vocazione, non surrogabile da nessun’altra alleanza d’amore, della quale una nuova cultura dovrà sviluppare la potenza e la fecondità. La nostra infatti è diventata sterile, non per caso, sui due fronti del legame sociale: quello generativo e quello simbolico. La complicità di uomo e donna è discriminante per la riuscita dell’intera storia del legame umano con il mondo creato: la signoria delle cose, lo sviluppo del sapere, la cultura del lavoro, l’istituzione della giustizia, la riparazione della terra, l’armonia dell’habitat, dipendono dalla loro complicità. L’uomo viene a sapere troppo poco dell’umano, senza la donna. E la donna viene a sapere troppo poco dell’umano, senza l’uomo. Il mistero dell’umano si trasmette solo nell’alleanza dei due. E’ in questo orizzonte che si gioca la “nuova” vocazione e missione della famiglia, oggi: sia nella Chiesa, sia nel mondo. Come la fede, il sacramento non è cosa che si possa imporre. Il comandamento divino dell’amore, infatti, è altra cosa: è l’autorizzazione di un azzardo, del quale nessuno si sentirebbe all’altezza, confidando solo nelle sue forze. La grazia del sacramento non è una benedizione ornamentale, è una forza efficace. L’uomo e la donna che si dispongono ad accogliere la sfida di una durevole alleanza coniugale e famigliare sono perciò degni di ogni ammirazione e di ogni onore. La stessa Chiesa, come del resto l’intera comunità civile, dovranno restituire molto di più, per quello che ogni giorno, da sempre, ne ricevono.

L’Esortazione Apostolica sottolinea le due dimensioni che sostanziano il matrimonio e la famiglia: ossia il legame d’amore trai coniugi e la conseguente fecondità generatrice. E’ piena di significato la scelta del Papa – è una parte della Esortazione Apostolica non presente nelle proposizioni sinodali – di prendere come testo ispiratore della Scrittura, non il Cantico dei Cantici, un testo tra i più poetici della Bibbia, ma l’inno all’amore di Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi al capitolo 13 che commenta parola per parola. E’ evidente l’intenzione di richiamare l’attenzione sull’importanza di iscrivere il sacramento dell’amore familiare nel quadro di una fondamentale declinazione dell’agape cristiana. Se ben si osserva, infatti, il lessico dell’Inno paolino su agape, il principio supremo e la via perfetta di tutti i carismi della fede, illustra le qualità di agape mediante l’adozione delle parole-simbolo dell’iniziazione familiare all’ordine degli affetti. La forza di dominare le passioni che li mettono alla prova, come anche la disposizione a custodire la fedeltà all’amore anche nella prova più difficile, sono il riflesso più eloquente della fede evangelica di cui l’agape di Dio ci rende capaci. Il Papa parla dell’amore in chiave tutt’altro che mistica e romantica. L’amore di cui si parla nel testo è pieno di concretezza e di dialettica, di bellezza e di sacrificio, di vulnerabilità e di tenacia (l’amore tutto sopporta, tutto spera, tutto crede, tutto perdona, non cede mai…). Insomma, l’amore di Dio è così!

Siamo lontani da quell’individualismo che chiude l’amore nell’ossessione possessiva “a due” che peraltro mette a rischio la “letizia” del legame coniugale e famigliare. Il lessico famigliare dell’amore, nell’interpretazione del Papa, non è povero di passione, è ricco di generazione. Per questo include serenamente la libertà di pensare e di apprezzare l’intimità sessuale dei coniugi come un grande dono di Dio per l’uomo e la donna. Potremmo dire che – anche in questo – il testo papale porta a pienezza le suggestioni presenti nella Gaudium et Spes che cita esplicitamente: “Il matrimonio è in primo luogo una «intima comunità di vita e di amore coniugale» che costituisce un bene per gli stessi sposi, e la sessualità ‘è ordinata all’amore coniugale dell’uomo e della donna’”(n.80). Il lessico famigliare dell’amore, come proposto dal Papa, è ricco di passione, è robusto nella generazione.

 La cura delle relazioni familiari fragili e ferite

Permettetemi, infine, di fare almeno un cenno alla delicata questione dell’accesso ai sacramenti da parte dei divorziati risposati, ovviamente solo in alcuni casi e a determinate condizioni. Non entro nel dibattito sviluppatosi durante e soprattutto dopo l’uscita dell’Esortazione Apostolica. Un dibattito serio e importante che, tuttavia, ha portato molti, anzi moltissimi, a concentrare l’attenzione quasi unicamente sul capitolo ottavo, anzi su una sola nota a piè di pagina, la nota 151. Credo anch’io che si tratti di un punto delicato, anche se non è né il cuore della Esortazione papale né “il” problema pastorale decisivo per la pastorale famigliare oggi. Ma l’unica cosa che vorrei sottolineare è che il vero cambiamento su tale questione, ossia sul problema dei divorziati risposati in rapporto al loro legame con la Chiesa lo aveva già fatto Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio, al n. 84. Il testo recita: “esorto caldamente i pastori e l’intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita”, con la possibilità anche della comunione se si vive come “fratello e sorella”. Costoro non sono scomunicati, ma fanno parte della Chiesa, interrompendo così la ormai consolidata consuetudine – anche nel Codice di Diritto Canonico non appariva più – di considerare i divorziati risposati come “pubblici peccatori”. San Giovanni Paolo II, con grande intuito pastorale, richiama i pastori a favorire l’integrazione nella comunità favorendo in ogni modo la loro vita cristiana e quindi l’accesso alla grazia. Ma questo purtroppo non è passato. Il problema è che la maggioranza sia dei fedeli sia di coloro che sono in questa condizione, sono di fatto convinti di essere “fuori” della Chiesa. E’ un problema di percezione ed anche di condizione esistenziale. Purtroppo, l’affermazione sull’essere nella Chiesa è stata poco tematizzata e soprattutto poco elaborata pastoralmente, soprattutto se si pensa che, oltre alla proibizione della Comunione, si sono aggiunte altre sette proibizioni da parte della normale prassi pastorale. Norme non presenti nel Codice di Diritto Canonico, ma molto in evidenza nella pratica pastorale. Ancora oggi sono un cruccio per i parroci.

E’ indispensabile una nuova comprensione in questo campo sia sul piano pastorale che teologico. E’ ovvio che se si afferma che sono nella Chiesa ma vengono relegati a stare solo in cantina o in soffitta, non cambia nulla: restano di fatto esclusi dalla comunità e ritenuti ancora pubblici peccatori. Quando ero Presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia ho potuto ascoltare centinaia di uomini e donne che vivono situazioni di fallimento matrimoniale, sia quei divorziati che sono rimasti fedeli al matrimonio, sia quelli che avevano intrapreso una nuova unione. Ebbene tutti mi hanno confidato con dolore e tristezza di essere sempre stati posti ai margini della comunità cristiana, in una sorta di estraneità e soprattutto una mancanza di ascolto e di considerazione da parte dei sacerdoti e della comunità parrocchiale. Mi chiedo perciò: se nelle nostre comunità parrocchiali si fosse messo in pratica quanto san Giovanni Paolo II aveva esortato a fare nella Familiaris Consortio (n. 84) avremmo avuto una “forma” della Chiesa capace di trovare soluzioni anche in questo ambito. E’ la logica stessa della vita della Chiesa, della sua teologia, della sua pastorale ed anche del suo Diritto. La Chiesa, infatti, non è una idea che scende dall’alto, ma una storia che cresce e si sviluppa sul saldo fondamento degli Apostoli e sostenuta dallo “Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto”(Gv 14,26). E’ solo un cenno per mostrare quanto la Chiesa – nella sua “forma” storica – sia ispiratrice di prospettive di sviluppo della sua vita sia nel versante dottrinale che in quello pastorale. E’ in questo orizzonte spirituale che Papa Francesco invita ad una recezione attiva del testo sinodale. Egli non chiede semplicemente una applicazione alla lettera del documento, quanto soprattutto di recepirne lo spirito: la sua lettura comporta “liberare in noi le energie della speranza, traducendole in sogni profetici, azioni trasformatrici e immaginazione della carità”(n.57).

Conclusione

Per Papa Francesco si tratta di avviare il processo per realizzare una Chiesa di famiglie, che lasciandosi plasmare dall’agape di Dio si muova in direzione contraria e quella della coppia erotica e della cosca familistica, per evitare un malinconico logoramento della classica istituzione confessionale che ha corrisposto al tempo ormai irrevocabilmente congedato. Oggi, la Chiesa, anche attraverso la recezione di Amoris Laetitia, è certamente in grado di rilanciare lo spirito di un’alleanza – quella tra uomo e donna, e quella tra le generazioni – la cui conflittualità odierna va lentamente ma inesorabilmente a erodere lo stesso legame sociale. E di qui, sgretola fatalmente il senso della umanità condivisa, quale comunione di origine e di destino: aperta alla promessa religiosa di riscatto e di compimento di una vita d’amore altrimenti assurdamente sprecata. D’altra parte, è impossibile tener ferma questa speranza senza la generosa rassicurazione della comunità famigliare della fede: la quale, condividendo tutte le precarietà della condizione famigliare, rimane tuttavia salda e ospitale a credibile sostegno della promessa ricevuta.

(Intervento tenuto al 50esimo Congresso Nazionale dell’Associazione Canonisti Italiani, Catanzaro, 3 settembre 2018)