La giusta mercede

La giusta mercede





Spunti di riflessione a partire dalla enciclica Caritas in veritate
 


L’enciclica nella crisi contemporanea


 


Inizio la mia riflessione con un cenno alla enciclica Caritas in Veritate, un nuovo tassello alla moderna Dottrina Sociale della Chiesa che si fa risalire a Leone XIII. Con la Rerum novarum, papa Pecci auspicava l’avvento della solidarietà cristiana per contrastare l’emergente cultura del conflitto propria della ideologia comunista, senza però sposare il liberismo prima maniera (quello del laissez-fair). Pio XI e Paolo VI hanno proseguito la riflessione su questi temi. Giovanni Paolo II – con la Centesimus annus – sostiene che il mercato è uno strumento di crescita del benessere più efficace degli aiuti di Stato e, per certi versi, del welfare. Poneva però due vincoli importanti alla logica interna del mercato: il rispetto del “giusto” salario e il diritto per i paesi poveri di non rimborsare i debiti contratti per sopravvivere.


Il nuovo fenomeno della globalizzazione ha fatto saltare i vecchi paradigmi ed ha aperto nuovi ed inediti scenari che richiedono una nuova visione, una nuova sintesi, un nuovo pensiero per orientare l’azione umana negli orizzonti personali e sociali, culturali e politici, locali e planetari. Ratzinger lamenta che il mondo soffre “per mancanza di pensiero”. In effetti, siamo entrati nel nuovo secolo senza grandi sogni. Dopo il crollo delle ideologie non ci sono più grandi visioni né all’interno dei popoli né nel concerto delle nazioni. Singoli e popoli sono ripiegati a difendere o a promuovere per lo più i propri interessi individuali o di parte, della propria civiltà o della propria etnia, della propria regione o della propria area geografica, e così oltre.


Il papa, consapevole della complessità della situazione in cui versano le società contemporanee, non manca di chiamare per nome le grandi ferite che lacerano il tessuto della vita associata mondiale, dalla fame, alla sete, alle numerose ingiustizie, ai non pochi conflitti, ai grandi problemi che toccano la vita umana compresi quelli relativi alla biotecnologia e all’ambiente. La globalizzazione – che si è affermata soprattutto nel mercato più che nella democrazia e nella libertà – richiede un orizzonte di pensiero che ne eviti i danni e ne aiuti le potenzialità di sviluppo per tutti. Oggi molti si sentono come spaesati di fronte ad un mondo troppo vasto e cercano rifugio nel proprio “particolare”.  E, quel generale senso di paura e di insicurezza che traversa le società, spinge ancor più verso la difesa di se stessi e dei propri interessi. Anche le scelte prese nei vari livelli decisionali, sia verticali che orizzontali, sono pensate per lo più in orizzonti settoriali senza che lo sguardo sia rivolto al bene comune della polis e tanto meno dell’intera famiglia umana. Ratzinger con l’enciclica offre una prospettiva che aiuti a ripensare e a realizzare un effettivo sviluppo nell’intero pianeta.


 


Caritas e Veritas


 


Non è questa la sede per una adeguata presentazione dell’enciclica. Richiederebbe un esame attento da parte delle classi dirigenti sia nazionali che planetarie. Mi limito qui ad alcuni brevissimi cenni per poter comprendere meglio il tema sul giusto salario. Faccio una premessa che ricavo dalla stessa enciclica. Il papa afferma: “La Chiesa ritiene da sempre che l’agire economico non sia da considerare antisociale. Il mercato non è e non deve perciò diventare, di per sé, il luogo della sopraffazione del forte sul debole. La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani. E’ certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso”.


E continua: “Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma nelle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano. Infatti, l’economia e la finanza, in quanto strumenti, possono essere mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici. Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi. Ma è la ragione oscurata dell’uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per se stesso. Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale” (§ 35).


Mi paiono affermazioni importanti che offrono il quadro nel quale continuare le nostre riflessioni. Due sono i pilastri che sorreggono l’enciclica: la Caritas e la Veritas. L’incipit delle encicliche papali offre in sintesi il motivo di fondo. La Caritas – secondo il pensiero biblico a cui Benedetto XVI si ispira – è il nome stesso di Dio. Gli autori del Nuovo Testamento quando si trovarono nella necessità di descrivere l’amore cristiano furono costretti a trovare un termine greco allora desueto, agape, perché le due parole allora in uso, eros e philia, non erano adeguate ad esprimere il senso di quanto dovevano dire. L’amore cristiano infatti esprime uno scardinamento di ogni limite: è un amore che non chiede reciprocità, che giunge sino all’amore per i nemici, anzi sino a dare la propria stessa vita per gli altri. Questa è la “caritas”, di cui parla Benedetto XVI. E’ una energia divina che rende possibile quella “marcia in più” che Giuliano Amato applica all’amore cristiano. Non sempre i cristiani lo vivono. Ma è tale amore che comunque deve qualificare le loro azioni in tutti i campi. La grande “fatica” della Chiesa nel suo rapporto con la società è appunto tradurre la forza di questa “caritas” nella vita religiosa, civile, politica, economica. Il papa ricorda ai cristiani che il processo economico, nel suo iter completo, quindi dall’inizio sino alla fine, deve essere segnato dalla “caritas”, ossia da un amore definito dalla gratuità e dal dono che spinge perciò ad andare oltre se stessi, il proprio gruppo, la propria nazione, e così via.


Il mercato – afferma Ratzinger – non è riducibile solo ad una tecnica. Vive all’interno di un’etica, e non di un’etica qualsiasi. Qui c’è un passo avanti dell’enciclica. Infatti, sia il primo capitalismo e che il socialismo richiedono una dimensione etica. Ma Benedetto aggiunge: “L’economia ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona”(n.45). E l’etica amica della persona sgorga dalla Caritas. Nota ancora il papa: “Lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità” E ancora: “Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita di fiducia è una perdita grave”(35). Sulla scia della Caritas che spinge ad andare oltre se stessi si potrebbe porre la dimensione della “responsabilità”, una categoria che avvicina la prospettiva anche laica (la parola “responsabilità” ricorre ben 39 volte nell’enciclica).


Ma la caritas, continua il papa, richiede la presenza della veritas. Ratzinger avverte del pericolo di ridurre la “caritas” a sentimenti ed emozioni. La “verità” della “caritas” è nell’avere davanti a sé l’orizzonte del “bene comune” sia delle società locali che dei popoli. La veritas, si potrebbe dire, offre agli uomini – anche credenti – quella visione di cui tutti abbiamo bisogno, ossia il bene comune della polis, del Paese, della “famiglia dei popoli”. Scrive Benedetto XVI: “Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere un’unica famiglia”. In tale prospettiva, “caritas” e “veritas”, due dimensioni inseparabili, trasformano l’uomo e lo rendono artefice della vita sociale, politica, economica, culturale e religiosa della città, degli Stati e dell’intero pianeta. Per dirla in estrema sintesi: Benedetto XVI propone un modello di sviluppo diverso, più ricco e più forte, di quelli passati, compreso quello che si fa comunemente risalire ad Adam Smith. Se quest’ultimo sosteneva che La ricchezza delle nazioni è creata dall’uomo mosso dall’egoismo – secondo la celebre affermazione sul perché il panettiere e il birraio ci forniscono ogni giorno il pane e la birra – papa Ratzinger, invece, afferma che è l’uomo spinto dalla forza dell’altruismo solidaristico che crea La ricchezza e la grandezza delle nazioni. Il modello di sviluppo che Benedetto XVI propone ha perciò come cardine ispiratore non la forza dell’egoismo, che porta al ripiegamento sui propri interessi, ma quella della “caritas”, dell’altruismo che prevede l’intervento del “dono”, del “gratuito”, e quindi la capacità di andare oltre se stessi per comprendere il bene dell’intera famiglia umana.


 


Una società poliarchica con al centro l’uomo


 


L’enciclica indica poi due binari sui quali restare saldi per uno sviluppo davvero umano: la nuova società poliarchica e il primato della persona umana. Per la prima volta entra nel linguaggio papale il termine “poliarchico” applicato alla governance globale oltre che alla politica e all’economia. Nella globalizzazione il sistema dei poteri va pensato e attuato in modo «sussidiario e poliarchico», come già sosteneva la dottrina sociale cattolica. La polis non può riferirsi ad un solo principio. Essa richiede l’intervento di tutti i corpi che la compongono. Dare un valore positivo ad un assetto sociale poliarchico vuol dire sostenere che la vita sociale corre un grave rischio ogni qual volta è posta sotto un solo potere, come avviene nelle moderne teorie dello Stato. Difendere le ragioni della poliarchia significa perciò contrastare la tendenza del potere politico, o di quello economico, o di quello scientifico a farsi assoluto. E questo a tutti i livelli.


La valorizzazione di un ordine sociale poliarchico è strettamente collegata alla affermazione del principio di sussidiarietà. Scrive il papa: “per non dar vita ad un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo (la governance, come in altre versioni del testo, il sistema dei poteri, potremmo anche dire in italiano) deve essere di tipo sussidiario”. Con tale riferimento alla poliarchia il papa auspica che si realizzi sia una sussidiarietà orizzontale ( tra politica, economia, scienza, ecc.) che verticale (dal vertice alla base delle istituzioni). Insomma, è necessario promuovere un ordine sociale poliarchico nel quale entrino – anche controllandosi e limitandosi reciprocamente – istituzioni, poteri e soggetti i più diversi, comprese le religioni che l’enciclica non manca di citare come nuovi attori sulla scena pubblica. In questa visione viene totalmente superata quella concezione di laicità che vede le istituzioni religiose relegate nel privato.


L’enciclica accoglie di fatto la relativizzazione del potere statuale provocato dalla globalizzazione (nn. 24 e 37), sebbene non manchi di richiamare anche l’urgenza di promuovere governance larghe a misura anche planetaria. Quel che dobbiamo augurarci, sia sul piano locale che su quello universale, è una pluralità di istituzioni le quali tutte responsabilmente intervengano, all’interno delle regole istituzionali, al fine di costruire il bene comune dell’intera famiglia umana. L’enciclica raccomanda una poliarchia ricca, e avverte che il «binomio esclusivo mercato-stato corrode la socialità» (39). Insomma, tanto più la società è poliarchica tanto più è civile: «impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città»(7).


L’altro cardine è l’irriducibilità della persona umana a mero elemento delle dinamiche sociali. La persona umana è il fine di ogni azione dell’uomo, anche nella prospettiva sociale. Nessuna istituzione, a cominciare dallo Stato, può pretendere un potere assoluto, può esigere obbedienza incondizionata dalle coscienze o circoscrivere l’orizzonte della vicenda umana entro uno spazio ed un tempo. La centralità dell’uomo risponde alla convinzione che la persona umana è il cuore di ogni vero sviluppo, di ogni salda architettura sociale, compresa la polis. Questa concezione dell’uomo, come la creatura più alta uscita dalle mani di Dio, spinge Benedetto XVI a ricordare anche la fragilità dell’uomo e la sua radicale dipendenza da Dio e dagli altri. L’uomo non è ab-solutus, non è sciolto da tutti e da tutto. La tentazione dell’autosufficienza – è la stessa che ebbero Adamo ed Eva: ossia mettersi al posto di Dio – porta l’uomo ad assolutizzare le sue scelte e le sue decisioni con danni talora irreparabili. Va ricordato che la nascita di un “problema economico”, che è essenzialmente un problema di buon uso delle risorse scarse, è proprio aver ceduto a questa tentazione causando ciò che possiamo definire la “fine dell’abbondanza”. La coscienza della libertà come limite – indispensabile sia ai credenti che ai non credenti – è la base che tiene uniti il rapporto dialettico tra la persona e la comunità.


 


La dignità del lavoro


 


E’ in questo orizzonte che si iscrive anche il tema del “giusto salario” che Ratzinger lega al tema più generale del lavoro e della sua dignità. Non posso dilungarmi sul tema del lavoro, ma sarebbe quanto mai opportuno ridefinirne il senso, la dignità, l’inestimabile valore. Sono intervenuti infatti formidabili cambiamenti che richiedono una nuova pensosità al riguardo. Un esempio: cosa vuol dire che l’età lavorativa di una persona sia ormai stretta tra un lunga giovinezza e un lunghissimo pensionamento? Non è necessario ripensare il significato del lavoro e del cosiddetto “tempo libero”? Dobbiamo riconoscere a Benedetto XVI il coraggio di aver parlato nuovamente della dignità del lavoro: non basta qualsiasi lavoro e a qualunque condizione, perché si possa definire dignitoso. Il papa poi accenna al rapporto tra povertà e disoccupazione: “Nella considerazione dei problemi dello sviluppo, non si può non mettere in evidenza il nesso diretto tra povertà e disoccupazione. I poveri in molti casi sono il risultato della violazione della dignità del lavoro umano, sia perché ne vengono limitate le possibilità (disoccupazione, sotto-occupazione), sia perché vengono svalutati ‘i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia’. … il mio Predecessore Giovanni Paolo II … lanciò un appello per una ‘coalizione mondiale in favore del lavoro decente’, incoraggiando la strategia dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro”.


Il papa spiega quindi che la parola ‘decenza’ applicata al lavoro: “significa un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo delle loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare la necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa” (§ 63).


 


Il giusto salario


 


Il tema del giusto salario traversa l’intera Bibbia[1] e anche i venti secoli di tradizione cristiana[2]. Ma è con la Rerum novarum di Leone XIII, come ho già accennato, che è iniziata una sintesi organica della Dottrina Sociale della Chiesa. Per quel che concerne il giusto salario, Leone XIII afferma che “principalissimo poi tra questi doveri (del datore di lavoro) è dare a ciascuno il giusto salario” aggiungendo che deve essere “sufficiente a mantenere se stesso e la sua famiglia”(111-131). Il criterio per definire qual è il giusto salario è perciò la vita dignitosa del lavoratore e della sua famiglia. Non basta il semplice accordo tra lavoratore e datore di lavoro per qualificare “giusta” una retribuzione; essa infatti “non deve essere inferiore al sostentamento” del lavoratore: la giustizia naturale è anteriore e superiore alla libertà di contratto. Pio XI nella Quadragesimo anno (del 1931) definisce la giusta paga il “salario familiare”, una paga appunto che permetta di vivere dignitosamente sia al lavoratore che alla sua famiglia (193-194).


Giovanni XXIII, riprende il tema nella Mater et magistra e ribadisce che la giustizia del salario non si misura solo con criteri quantitativi, ma in rapporto alla giustizia sociale e ad un insieme di fattori che garantiscano un tenore di vita dignitoso tale da favorire anche la promozione della specificità della donna e la rivalutazione sociale dei compiti materni. Roncalli nota che nel definire il salario si deve tener conto anche delle condizioni di maggiore o minore prosperità delle aziende al fine di non metterne a repentaglio l’esistenza (418-419). Il Vaticano II allarga ancora il concetto di vita dignitosa: “il lavoro va ricompensato in misura tale da garantire all’uomo la possibilità di disporre dignitosamente la vita materiale, sociale, culturale e spirituale sua e dei suoi, in relazione ai compiti di ognuno, alla condizioni dell’azienda e al bene comune”(Gaudium et Spes, 67).


Giovanni Paolo II, nella Centesimus annus, fa salire la soglia del “giusto” salario inserendo esplicitamente la garanzia della pensione. E amplia la visione ai paesi del Terzo Mondo facendo notare che “conservano la loro validità (in certi casi è ancora un traguardo da raggiungere) proprio quegli obiettivi indicati dalla Rerum novarum, per evitare la riduzione del lavoro dell’uomo e dell’uomo stesso al livello di una semplice merce: il salario sufficiente per la vita della famiglia; le assicurazioni sociali per la vecchiaia e la disoccupazione; la tutela adeguata delle condizioni di lavoro”(836).


E’ costante, da Giovanni XXIII in poi, l’avvertimento di evitare una eccessiva disuguaglianza dei salari tra i diversi componenti di un’impresa. E non possiamo tacere l’eccessivo aumento del divario tra le remunerazioni nei settori, a seconda che siano ad alta o a bassa tecnologia, nonché tra i lavoratori qualificati e non, nell’attuale situazione di globalizzazione. Ancor più grave poi è il fatto che ci sia un numero troppo elevato di lavoratori che percepiscono retribuzioni insufficienti al mantenimento loro e della famiglia. Le sperequazioni nei trattamenti retributivi e previdenziali tra le diverse categorie di lavoratori sono davvero notevoli e spesso ingiustificate. Ratzinger, da parte sua, interviene aggiungendo l’urgenza di sostenere anche lo sviluppo culturale del lavoratore: “una solidarietà più ampia a livello internazionale si esprime innanzitutto nel continuare a promuovere, anche in condizioni di crisi economica, un maggiore accesso all’educazione, la quale, d’altro canto, è condizione essenziale per l’efficacia della stessa cooperazione internazionale” (§ 61). Il salario “giusto” è quello che permette al lavoratore di soddisfare i suoi bisogni nell’arco della sua intera vita.


 


 


Come determinare il giusto salario?


 


Delineate così le linee per definire “giusto” il salario, c’è però da chiedersi come determinarlo in rapporto alle concrete situazioni odierne da sempre presenti sui mercati nazionali e oggi rese ancor più difficili dagli sviluppi del mercato globale. Questa osservazione la debbo all’amico Paolo Savona, il quale pensa che la determinazione del “giusto salario” non possa sganciarsi dal buon funzionamento dei mercati competitivi. C’è però da dire che i mercati non possono essere perfetti se non in via di ipotesi e comunque non garantiscono l’uso migliore delle risorse, ivi inclusa quella più importante che è l’occupazione della forza lavoro. Il paradigma keynesiano, in contrasto con l’idea della rivoluzione comunista contro il capitalismo, chiama lo Stato a darsi carico della piena occupazione. Ma non è un’illusione pensare che lo Stato sconfigga la scarsità e, ancor più, che ispiri le sue scelte su basi “altruistiche” per tutti sostituendosi alla società civile come indicato da Papa Ratzinger?


La Caritas in veritate, prendendo atto delle due gravi “insufficienze” (se non proprio “fallimenti”) sopra ricordate, lancia la proposta di affidare alla società civile il compito di integrare sia il mercato che lo Stato nel compito di guidare lo sviluppo, e cita il terzo settore, le iniziative a favore delle microimprese e la banca etica, come forme più vicine all’attuazione del suo disegno di buon funzionamento dell’economia, ma anche indica che esso non basta. L’idea che la società civile possa muoversi su questa strada indicata da Benedetto XVI, come anche dai Suoi predecessori, ha molti punti in comune con la convinzione che una buona democrazia pluralistica possa consentire uno sviluppo sostenibile ed equo. Ciò implica un livello di preparazione politica ed economica da parte di ciascun cittadino tale da consentirgli di fare scelte corrette, che per ora mancano. Questo livello deve comunque essere migliorato – e, non a caso, rispetto alla definizione di giusto salario data da Giovanni Paolo II, Benedetto XVI aggiunge la formazione, tema ripreso dall’Enciclica unitamente al ruolo che dovrebbero svolgere i media a questo scopo – ma mai potrà raggiungere la misura necessaria per guidare la politica verso il progresso civile dei popoli secondo le direttrici indicate. Lo dimostra il calore con cui il Papa insiste sulla necessità di un governo globale dello sviluppo prima ancora di quanto non chieda alla società civile di assumerne il controllo; ma afferma subito che sarebbe pericoloso attuarlo se non fosse guidato da “uomini retti”. Finché il mondo è organizzato in Stati-nazione prevarranno gli egoismi nazionali. E l’idea che la società civile possa prendere la guida del processo di sviluppo globale rischia di essere un’altra illusione che viene ad aggiungersi a quella che questo ruolo sia svolto dal mercato o dallo Stato.


Il modello proposto da Benedetto XVI, che fissa la giustezza del salario prescindendo dal mercato, richiede una esplicitazione ‘economica’, ossia tenga conto che la scarsità delle risorse non possa essere sconfitta ma solo attenuata. Solo così si può incidere sulla realtà nazionale e globale che è solidamente dominata dall’egoismo e dai raggiri di legge. Va difesa la forza ideale nello stabilire il “giusto” salario sul piano etico più che su quello economico (è il parametro della vita dignitosa e di una educazione culturale adeguata). Ma si deve anche riconoscere che è necessario stare in linea con i dati del sistema economico, che hanno nella produttività del lavoro un riferimento ineludibile. La definizione del “giusto” salario va quindi cercata nell’incontro tra l’istanza etica – come Benedetto XVI afferma – e la reale condizione dei mercati, tenendo conto anche della scarsità delle risorse del pianeta.


Certamente una giustezza economica che diventa etica applicando le regole di buon funzionamento dei mercati, di una buona politica e, ovviamente, sfruttando al meglio i vantaggi della redistribuzione del reddito è la via da seguire. Il problema si complica per la non concordanza tra poteri nazionali e forze del mercato globale, la cui soluzione l’Enciclica affronta con lucidità, avanzando precise indicazioni per la nuova architettura istituzionale globale. Per l’attuazione di questa nuova architettura esistono ovviamente gravi difficoltà, ma non problemi di coerenza logica come per la fissazione dei salari a partire dalla qualità della vita del lavoratore. Mi auguro che il dibattito, anche a seguito dell’enciclica, aiuti a superare la dissonanza che potrebbe emergere tra dottrina sociale della Chiesa e dottrina economica. E’ una sfida aperta. E comunque l’enciclica – che mi pare il documento più alto della politica globale oggi – è un testo indispensabile per individuare percorsi adeguati per uno sviluppo a misura umana delle nostre società e dell’intero pianeta.


 


 


 



[1] Sia nell’Antico Testamento che nel Nuovo numerose sono le affermazioni al riguardo. Luca dice chiaramente: “L’operaio è degno della sua mercede”(10,7). E il Levitico avverte di non tardare a consegnare la paga: “Non tratterrai il salario del bracciante al tuo servizio fino al mattino dopo”(Lv 19,13). Durissima è poi la condanna di chi sfrutta gli operai: “Guai a chi fa lavorare il prossimo senza dargli la paga”, dice Geremia (22,13). E numerosi sono gli avvertimenti a coloro che “frodano il salario all’operaio”(Ml 3,5). La Lettera di Giacomo scrive: “Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente”(Gc 5,4). Ci sono anche passaggi che esortano gli operai a non cadere nella cupidigia del denaro: “Contentatevi delle vostre paghe”(Lc 3,14), risponde il Battista ai soldati che lo interrogavano sul comportamento da avere.


 

[2] Si può vedere il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano 2005