La Chiesa è l’uguaglianza che ci difende dalle sirene sovraniste. La Chiesa è l’uguaglianza che ci difende dalle sirene sovraniste
Monsignore, quando venne giù il muro di Berlino il vecchio Norberto Bobbio, liberale, avvertì la sinistra: attenzione – disse – voi siete i custodi del valore dell’uguaglianza, non dovete disperderlo. La caduta del comunismo non significa che quel valore fosse marcio. La sinistra invece lo disperse. La Chiesa ha sempre avuto un rapporto conflittuale, nervoso con quel valore. L’uguaglianza, secondo te, è un valore, o è solo un’opzione che riguarda gli uomini e non lo spirito e la religione?
Piero Sansonetti
Caro Direttore, vorrei prima di tutto sgomberare il campo dagli equivoci della tua affermazione secondo cui la Chiesa ha sempre avuto un rapporto «conflittuale» o «nervoso» con l’uguaglianza. Ovviamente non sono mancati cristiani che nel corso della storia hanno messo l’uguaglianza in fondo alla scala dei valori. La stessa Chiesa – mi riferisco agli anni a cavallo tra Otto e Novecento – si è concepita come “società perfetta, gerarchica e ineguale”, una formula giuridica che in effetti non faceva giustizia della ricchezza della realtà ecclesiale. Negli scritti del Nuovo Testamento è ben più ricca la visione profonda della comunità cristiana. Nei Vangeli l’uguaglianza tra tutti gli uomini è uno dei pilastri della predicazione di Gesù. Basti pensare all’affermazione di Gesù che presenta il Padre del cielo che fa piovere e splendere il sole su tutti, sia sui giusti che sugli ingiusti. Dobbiamo al Concilio Vaticano II – che ritorna più volte nelle nostre conversazioni – una consapevolezza più chiara del mistero della Chiesa: un popolo di fratelli e sorelle senza confini. Sono passati da allora 55 anni. E l’uguaglianza si staglia come un valore assoluto: «Ogni genere di discriminazione nei diritti fondamentali della persona […] in ragione del sesso, della stirpe, del colore, della condizione sociale, della lingua o della religione, deve essere superato ed eliminato, come contrario al disegno di Dio» (Gaudium et Spes, 171).
Sono peraltro convinto che l’uguaglianza tra tutti gli uomini sia una dimensione da riscoprire e riproporre nella sua forza profetica anche oggi. Anzi, oggi più di ieri. La disuguaglianza “crescente” è uno dei frutti amari della attuale globalizzazione. È una grande sfida da raccogliere. Anche per la Chiesa. Non possiamo perdere tempo: siamo infatti di fronte ad uno squilibrio drammatico. Se non lo correggiamo rischiamo conflitti planetari difficilmente governabili.
Basti pensare che mai il mondo ha raggiunto una globalizzazione così larga, mai è stato così ricco, eppure mai ci sono stati tanti poveri e una disuguaglianza così iniqua. Certo, si deve ribadire che la globalizzazione ha permesso un incredibile sviluppo all’umanità. Basti pensare alla crescita della popolazione del mondo: se siamo arrivati a 7,3 miliardi di persone (e saremo 9,7 miliardi nel 2045-2050) è perché c’è stata una produzione di ricchezza adeguata assieme ad un forte sviluppo della medicina e della igiene.
Ma assieme sono cresciute disuguaglianze insopportabili. Ci sono troppi figli di questa larga famiglia che non siedono – e non potranno sedere – alla tavola comune. I processi di marginalizzazione continuano a moltiplicarsi. E non è solo una disparità economica. Le disuguaglianze crescono anche sul versante sociale, conoscitivo, relazionale, intra-generazionale. Povertà significa sempre più emarginazione, esclusione dalla vita e dalla speranza di un futuro. Le disuguaglianze sono globalizzate e trasversali. E riguardano diverse centinaia di milioni di persone costrette a sopravvivere spartendosi, anche qui in maniera diseguale, le briciole e i resti che cadono dalla tavola della maggioranza. È un vasto popolo ammassato in condizioni di vita subumane; tutti vittime innocenti di situazioni che l’ordine politico mondiale non è in grado di regolare: sono “scarti” che nessuno vuole.
Il rischio odierno è dato dall’aver superato il limite oltre il quale le disuguaglianze non debbono andare, pena uno squilibrio ingestibile. Si capisce al volo: com’è possibile convivere in pace se l’1% della popolazione mondiale possiede il 46% delle risorse disponibili? Se il 10% ne possiede l’80% e il 50% – la metà della popolazione del mondo – non possiede nulla? Le Nazioni Unite posero come uno degli obiettivi per il Millennio la vittoria sulla povertà. Non solo l’obiettivo non è stato raggiunto, ma si è allargata ancor più la forbice della disuguaglianza. Va ripensato il rapporto tra economia e politica. È uno dei nodi più ardui da sciogliere. Ma è l’unica via per riavviare una convivenza pacifica tra i popoli.
Quando nel passato la politica ha tentato di governare ideologicamente il sistema economico del mercato, impedendo che esso applicasse la sua carica di sviluppo della creazione di ricchezza e il suo incentivo alla razionalizzazione dello scambio di beni, ha prodotto guasti notevoli. Ma altrettanti se ne producono quando il mercato, vincolato esclusivamente all’obiettivo della massimizzazione del profitto economico, pretende di porsi come suprema legge della distribuzione sociale del reddito e del governo politico della moneta. La prevaricazione di un apparato statale che toglie forza alla libertà economica, è un errore simmetrico a quello della rassegnazione di un sistema civile che consegna la comunità civile al libero mercato.
La democrazia politica che si offre in leasing alla lex mercatoria – dietro adeguato corrispettivo economico – non genera affatto più libertà e più uguaglianza. Il capitalismo monopolistico e finanziario si proclama amico dell’individuo libero imprenditore di se stesso, ma prospera generando assoggettamento di massa e selezione delle élites sempre più ristrette. L’inadeguatezza culturale della rappresentanza politica e della cultura democratica, incapaci di fronteggiare questa trasformazione del sistema, genera frustrazione e risentimento. Si accendono guerre tra “i poveri”, contraffazione perversa della lotta di classe, ingenuità ideologica che ora presenta controfigure razziste, sovraniste, xenofobe, che la critica “socialista” e “comunitaria” non è in grado di governare e disinnescare; e si ingrossano le fila dei “perdenti”, pronti a riconoscere come un “salvatore” chiunque cavalchi la loro rabbia, facendo promesse di libertà e di uguaglianza che non è assolutamente in grado di mantenere. È la deriva del “populismo” demagogico.
Oggi, se nel versante della politica si deve parlare di un «disordine» mondiale, su quello del mercato, invece, si deve registrare l’imposizione di un «ordine» mondiale, con costi sociali e umani incredibili. Il mercato è una sorta di nuovo impero a cui tutti, politica compresa, di fatto rischiamo di soggiacere. Tutto viene trasformato in merce e competitività e il mondo si divide: da una parte i potenti (molto pochi), poi i consumatori (la maggioranza) e quindi esclusi (anche questi numerosissimi). I consumatori, in crescita, sono coloro che di fatto sostengono questo nuovo sistema: del resto è l’effettiva pratica del consumo ad essere fondamentale per il funzionamento del sistema. Gli uomini e le donne, condannati a vivere solo per avere e per consumare, diventano nello stesso tempo schiavi e merce. Ognuno per sé, naturalmente, da farla sembrare autonomia: falsa uguaglianza, che assomiglia piuttosto alla produzione in serie di modelli dichiarati esclusivi e venduti in milioni di esemplari identici.
Solo il rilancio della passione per le imprese comuni, capace di attrarre entusiasmo per le emozioni generate dalla complicità degli esseri umani intorno ai legami di solidarietà partecipe e condivisa, può contrastare la dittatura del mercato che ci divide proprio mentre ci ammucchia disperde nella massa. Utopia? Forse. Un’avventura obbligata, però. Del fatto che il delirio dell’individualismo narcisistico sia un disturbo grave, socialmente nocivo, siamo certi: se non ci riprendiamo dall’incantesimo finiremo in campi di rieducazione gestiti da robottini politicamente corretti. Un altro mondo umano va voluto: sognato, pensato, abitato. E va avviato con la moltiplicazione di nuove relazioni capaci di ritessere dal basso un ordito di relazioni solidali impegnate ad immunizzare la società civile dal virus di un egoismo diffuso e distruttore.
Papa Francesco, nel messaggio a Vancouver, sottolineava l’importanza della ri-creazione dei legami tra la gente che, lui, nei fatti tesse personalmente ripartendo dalle lacerazioni delle periferie: «Spesso non ci pensiamo, ma in realtà tutto è collegato e abbiamo bisogno di risanare i nostri collegamenti: anche quel giudizio duro che porto nel cuore contro mio fratello o mia sorella, quella ferita non curata, quel male non perdonato, quel rancore che mi farà solo male, è un pezzetto di guerra che porto dentro, è un focolaio nel cuore, da spegnere perché non divampi in un incendio e non lasci cenere.
Molti oggi, per diversi motivi, sembrano non credere che sia possibile un futuro felice. Questi timori vanno presi sul serio. Ma non sono invincibili. Si possono superare, se non ci chiudiamo in noi stessi. Perché la felicità si sperimenta solo come dono di armonia di ogni particolare col tutto. Anche le scienze – lo sapete meglio di me – ci indicano oggi una comprensione della realtà, dove ogni cosa esiste in collegamento, in interazione continua con le altre».