Willy, i fratelli Bianchi e la voglia di vendetta. Ma Dio disse: “Prenditi cura di Caino”

Colleferro è andata tragicamente e una volta ancora in scena la prevaricazione del forte sul debole, quel debole giovane Willy che non ha esitato a difendere un coetaneo. Qualcuno ha commentato che si tratta di una riedizione, sotto i nostri occhi, della vicenda di Caino che uccide Abele. Ed è facile la tentazione ora di puntare il dito sui «colpevoli», alla ricerca del «mostro». È senza dubbio un gesto assurdo, che ha per teatro i templi della cultura del corpo, della forza, della muscolatura esibita che si accompagna al culto delle armi, sempre fatte per uccidere, ed ha per scenario una società ben poco capace di educare ai veri valori del rispetto degli altri e ai valori della solidarietà e della fraternità come orizzonte di speranza. Alcuni, ad ascoltare le ricostruzioni, hanno quasi una giustificazione da fornire: tanto la vittima è uno straniero. La vittima è sempre «straniera», è sempre debole.

Abele significa debole; Abele è sempre prevaricato. Ed per questo che Dio lo guarda con attenzione, con più attenzione. Ha più bisogno di Caino. Ovviamente senza che Caino sia trascurato. È bene chiarire subito: gli uomini – anche se compiono atti criminali – non sono mai «mostri», restano sempre persone che possiamo incontrare per strada tutti i giorni: tutti restiamo comunque figli della nostra società. E non smettiamo mai di esserlo. Certo, l’autore sacro ci avverte che «il peccato è accovacciato alla tua porta» (Gn 4,7) e ci esorta «tu lo dominerai». Ma non sempre è così. Sempre siamo invitati a dominarlo, altrimenti avrà lui il sopravvento su di noi. Il monito resta: ciascuno è invitato a dominare il peccato, a evitare il culto della violenza, del più forte che circola senza freni nelle strade della sua città. Il peccato non deve avere il sopravvento. Tornando alla scena da cui siamo partiti, ci troviamo di fronte a tre protagonisti. Prima di tutto gli uccisori. A loro anzitutto va rivolta severamente la domanda biblica: che cosa ne avete fatto di vostro fratello? Prima di essere uno «straniero», era un vostro fratello, un essere umano come voi, membro della unica famiglia umana. Il secondo protagonista è l’Abele di turno.

Il debole che viene ucciso per invidia, per paura, per desiderio di prevalere, per affermare se stessi, e così via. E il terzo è la società. Tutti noi. Quale la nostra reazione? È facile la corsa alla vendetta. Direi scontata. Di qui la creazione del mostro. C’è bisogno di uno scatto radicale di cultura, di fede, di umanesimo. È così da sempre. Lo stesso Caino ne è convinto. Lo dice lui stesso a Dio: «Troppo grande è la mia colpa per ottenere il perdono. Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e dovrò nascondermi lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi ucciderà» (Gn 4,14). Ma Dio non lo abbandona. La sua giustizia è ben più alta di quella pretesa dalla società (e da Caino stesso). E pone su Caino un «segno perché nessuno, incontrandolo, lo colpisse». Insomma nessuna giustizia dal sapore di vendetta. Caino visse ancora ed ebbe a sua volta dei figli. Se dalla Bibbia possiamo dedurre l’ingiunzione: «nessuno tocchi Caino!», noi potremmo aggiungere con ragione: «tutti dobbiamo prenderci cura anche di Caino» perché riconosca il suo peccato, senta l’amarezza della colpa e cambi il suo cuore: insomma perché si converta e viva.

l quinto comandamento è decisivo: «Non uccidere l’innocente e il giusto» (Es. 23,7). L’uccisione volontaria di un innocente è del tutto contraria alla dignità dell’essere umano, alla «regola d’oro» e alla santità del Creatore. La legge che vieta questo omicidio obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto. Nel Vangelo di Matteo nel Discorso della Montagna, Gesù richiama il precetto: «Non uccidere» (Mt 5,21); vi aggiunge la proibizione dell’ira, dell’odio, della vendetta. Ancora di più: Cristo chiede al suo discepolo di porgere l’altra guancia, di amare i propri nemici. Egli stesso non si è difeso e ha ingiunto a Pietro di rimettere la spada nel fodero nel momento dell’arresto. Anche così la violenza non viene eliminata dalla storia. Non basta il precetto divino senza una profonda «conversione» personale. Ed inoltre ogni generazione deve fare di nuovo un cammino per portare avanti la linea della civiltà e del progresso, nonostante le cadute, le tentazioni, le vie facili della violenza e del sopruso.

La rivalità tra fratelli, tra colleghi, tra popoli, culture, nazioni ed economie consegue la negazione della potenza dell’Origine (la mamma, il papà, la terra, Dio stesso) nel garantire un posto vitale a ciascuno. La violenta ingiustizia è effetto dell’incredulità; non tanto nell’esistenza di Dio (quante persone ingiuste ci credono!), ma nella sua custode e nutriente potenza. A dirla tutta, non esiste peccato che non sia risultato dell’incredulità nella potenza di Dio: avaro diventa chi nega il potere divino di assicurare il pane quotidiano; vendicativo è colui che non crede che Dio possa prendere le sue difese; lussurioso o goloso è chi si procura da sé le consolazioni e le conferme, poiché Dio non sarebbe in grado di garantirgliele. Come credenti sappiamo però che la giustizia della società non basta. Essa grida alla terra e si ferma davanti a tribunali, leggi, carceri, misure alternative.

Il grido di giustizia acquista un senso diverso quando sale al cielo. Lì scopriamo una dimensione diversa. «È tempo di rilanciare una nuova visione per un umanesimo fraterno e solidale dei singoli e dei popoli». E ancora: «La forza della fraternità […] è la nuova frontiera del cristianesimo». Così scrive papa Francesco (Humana Communitas). E nel discorso Urbi et Orbi del Natale del 2019, descriveva la fraternità come ciò che «sta alla base della visione cristiana dell’umanità». E segnala sia la diagnosi che la cura. La diagnosi: il difetto di fraternità, lo sfilacciamento del legame che apparenta tutti i figli e le figlie di Adamo ed Eva; la cura: la fraternità stessa, scintilla che farà divampare il fuoco di relazioni giuste nelle case, le città e tra i popoli.

Ponendoci nella fraternità, in questo legame indissolubile e difficile, pieno d’affetto e fomentatore di rivalità, siamo messi in condizione di verificare con schiettezza la qualità reale della nostra fede a favore del Dio della vita, ora e al momento della nostra morte. In effetti, la fraternità compiuta trasforma in carne e sangue la fiducia piena in colui che così longanime (ha l’animo così ampio) da poter prediligere Abele e prediligere Caino. Un Dio così è a tal punto potente da avere una riserva inimmaginabile di soluzioni… anche di fronte alla nostra morte.

E se la giustizia umana potrà consolare, il grido di chi confida in Dio aprirà uno spazio diverso: lo spazio di una fraternità ampia, che coinvolge il colpevole e l’innocente, che fa compiere un salto di qualità alle relazioni umane. Quel salto in avanti di cui abbiamo bisogno per rendere la convivenza più rispettosa e civile, in un impegno per eliminare le disuguaglianze e le ingiustizie, dove cielo e terra si intersecano.

IL RIFORMISTA