La Carta dei diritti della famiglia

Oggi la famiglia sta traversando una profonda crisi in tutti i paesi industrializzati che hanno fatto propria la cultura occidentale, ma lo è anche negli altri paesi quando uno strato sociale comincia a elevare il grado di cultura e il tenore di vita, indipendentemente dall’identità religiosa delle popolazioni.  E’ come se la cultura globalizzata avesse come primo effetto quello di indebolire prima e distruggere poi la famiglia e, con la famiglia, ogni forma associata stabile. E’ vero che oggi la famiglia vive una situazione che definirei paradossale. Da un lato infatti si attribuiscono ai legami familiari un grande valore, sino a farne la chiave della felicità, dall’altro è divenuta il crocevia di tutte le fragilità: i legami vanno a pezzi, le rotture coniugali sono sempre più frequenti e, con esse, l’assenza di uno dei due genitori. E vediamo che le famiglie si disperdono, si dividono, si ricompongono, tanto da poter affermare che “la deflagrazione delle famiglie è il problema numero uno della società odierna”.

 Il processo di “individualizzazione” della società

Le prime avvisaglie del profondo cambiamento che stava investendo la famiglia appaiono negli anni Settanta, quando la cultura dominante spinge gli individui ad essere gli artefici unici del proprio destino e la famiglia è sentita come un impedimento alla piena realizzazione di sé. David Cooper, uno psichiatra sudafricano, nel 1970 scrisse un piccolo libro dal significativo titolo, La morte della famiglia, ove tra l’altro scriveva: “La famiglia nelle sue metamorfosi sociali rende anonimi gli individui che lavorano o vivono insieme in una qualsiasi struttura istituzionale”. E, riferendosi ad uno dei compiti più alti della famiglia come quello dell’educazione, aggiunge: “Tirare su un bambino equivale in pratica a buttare giù una persona”. Insomma, basta con la famiglia immagine della società globale! Un’affermazione analoga si applica al rapporto tra donna e famiglia: la famiglia per se stessa rende schiava la donna, la quale per liberarsi ha bisogno di una forte modifica delle idee convenzionali di coniugalità e maternità. Al testo di Cooper si può aggiungere quello di A. Mitscherlich, uno studioso di psicologia sociale, dal titolo Verso una società senza padre. L’autore sostiene che la società deve emanciparsi da gerarchie rigide e ingombranti per esaltare il soggetto e la sua autonoma libertà.

Tali auspici degli anni Settanta sono giunti a maturazione: oggi, in effetti, viviamo in una società composta di individui ove l’io prevale sul noi, il singolo sulla società, mentre la solitudine guadagna sempre più terreno rispetto alla comunione, e i diritti dell’individuo prevalgono sui diritti della famiglia. Ed è sentito come insanabile il conflitto tra lo “spirito di famiglia” e i “diritti dell’individuo”. E’ pacifico ormai pensare che il regno dell’individuo possa realizzarsi sulle ceneri di ogni concezione della famiglia. In estrema sintesi si potrebbe dire: è vero oggi siamo tutti più liberi. Ma non possiamo non aggiungere: ma tutti più soli. La famiglia, in una sorta di ribaltamento culturale, non è più “cellula base della società” ma “cellula base dell’individuo”. E’ l’individuo, il nuovo padrone. Tutto ruota attorno a lui, famiglia compresa. Il padre, in effetti, è scomparso. Lacan parla della “evaporazione del padre”, e Recalcati scrive Che resta del padre? Una scrittrice italiana, Elena Rosci, pubblica un volume dal titolo La maternità può attendere. Perché si può essere donna senza essere madre (2013). L’intento è quello di liberare le donne dalla eccessiva preoccupazione della maternità. Quanto ai figli sorprende che, una volta emancipati dalla famiglia (quanti matrimoni negli anni Sessanta e Settanta si sono celebrati pur di scappare di casa!), pur essendo ora più liberi continuano a restare a casa fino ad età adulta.

La difesa ad oltranza dell’individualismo è legata sempre più fortemente ad una concezione della vita labile e “movimentista”: tutto è “liquido” si dice. E’ saltata qualsiasi pretesa del “per sempre”. La cultura dominante non concepisce più il matrimonio “per sempre”. Quando i giovani si sposano è ormai normale avere sempre il piano “B”, il divorzio che deve essere sempre più breve. Mi chiedo: perché si può dire “for ever” per la propria squadra di calcio e non “mia moglie o mio marito for ever”? Evidentemente c’è un problema culturale. Purtroppo la caduta del “per sempre” non riguarda solo la scelta matrimoniale ma tutti gli ambiti della vita. La paura del futuro, aggrava e giustifica tale posizione. Insomma, per dirla con papa Francesco, è difficile prendersi cura per sempre gli uni degli altri. E’ il trionfo dell’individualismo.          E’ ovvio che in tale contesto culturale, la famiglia, come è stata concepita per secoli, non trova più un orizzonte nel quale iscriversi ed essere quindi considerata nella sua effettiva forza e dignità. E’ scomparsa quella che poteva chiamarsi una cultura della famiglia. Oggi la famiglia (padre-madre-figli) non è più una dimensione ordinaria. Se in passato era difficile non sposarsi dopo i venti anni, oggi è normale non farlo anche fino ai trentacinque. E il traguardo del matrimonio avviene alla fine, quando tutto è sistemato. Scompare così la concezione del matrimonio come la scelta di costruire assieme il futuro. Oggi, ci si assicura prima il futuro personale, e poi ci si sposa.

Non si vuole, ovviamente, sottostimare la conquista dei diritti individuali. Ma non possono essere esaltati a scapito della dignità dei diritti della famiglia e del suo ruolo nella società. Per di più stiamo assistendo alla perdita delle protezioni che la famiglia aveva nel passato mentre – anche a livello legislativo – si è sempre più attenti a sostenere i diritti degli individui. E questo accade anche se è proprio la famiglia che, soprattutto in tempi di crisi come in questo tempo, sostiene in maniera capillare il tessuto sociale ed economico. E’ la famiglia che sostiene sulle proprie spalle il carico del peso fiscale più che i vantaggi della sua ridistribuzione. Per cui è sempre più frequente che ritiene la famiglia una struttura opprimente, poco efficace e anche poco conveniente visto il pesante carico fiscale.

Della famiglia, più che il nucleo in quanto tale, interessa il singolo in quanto cittadino e lavoratore – così nella Costituzione Italiana -; le sue altre “qualifiche” (marito-moglie, padre-madre, fratello-sorella, genitori-figli…) non riguardano la vita pubblica ed è peraltro “auspicabile” che lo Stato se ne disinteressi evitando indebite interferenze. La libertà del singolo è percepita a servizio della felicità di colui che ne gode. L’individualizzazione dei diritti (quelli fondamentali, dell’uomo, dei minori ecc.) è cosa in sé positiva, in quanto fa parte di un movimento nato dopo la seconda guerra mondiale per reagire alla negazione della persona tipica dei sistemi totalitari, ma oggi i diritti individuali prevalgono sulla coesione sociale. Se pensiamo a quanto affermava Cicerone a proposito della famiglia: principium urbis e quasi seminarium rei pubblicae, vediamo sia grande la distanza rispetto alla considerazione che la cultura contemporanea ha di essa.

Con l’indebolimento della cultura della famiglia, si indebolisce anche quella della stessa società. Il discorso si farebbe lungo sia a livello cittadino, di stati, di gruppi di nazioni, e così oltre. L’individualizzazione che fa deflagrare la famiglia porta alla deflagrazione anche degli stati (c’è oggi una corsa preoccupante a dividersi) e delle alleanza continentali. Insomma, non è lo “stare insieme” ma lo stare separati ad essere diventata la principale strategia per sopravvivere nelle megalopoli contemporanee. Ci troviamo di fronte ad una vera e propria crisi della socialità e delle tante forme comunitarie conosciute siano ad oggi, dagli storici partiti di massa alla città-comunità, alla famiglia stessa intesa come dimensione associata di esistenza. Alcuni studiosi – penso a Roberto Volpi – rilevano la crescita di famiglie “unipersonali”. In Europa i numeri sono vertiginosi. Insomma, se da una parte c’è il crollo dei matrimoni e delle famiglie “normo-costituite”, dall’altra crescono quelle formate da una sola persona, uni-personali (in Italia quest’ultime sono passate da 5,2 milioni nel 2001 a  7,2 milioni tra il 2001 e il 2011). Accade quindi che la diminuzione dei matrimoni religiosi e civili non si è trasferita nelle altre forme di convivenza, ma nella crescita di persone che scelgono di stare da sole. Le stesse convivenza sono sempre più indebolite. Ogni legame impegnativo è sentito come insopportabile. La deriva è chiara: si va verso una società de-familiarizzata, fatta di persone sole che si uniscono senza alcun impegno.

Il crollo della famiglia non si sta traducendo nella crescita di diverse modalità, bensì in meno famiglia e nella crescita di persone che scelgono di vivere da sole. L’esaltazione senza freno dell’individuo conduce inesorabilmente allo sfarinamento della stessa società, allo sgretolamento di qualsiasi forma di legame che voglia essere un minimo saldo e duraturo. E’ la deriva amara di una cultura individualista che sta prevalendo su tutto. In tal senso si deve dire che la crisi della famiglia è anzitutto sul piano culturale e quindi anche sociale. E’ qui che si deve compiere uno sforzo congiunto che coinvolga sia i credenti – delle diverse tradizioni religiose – che gli uomini di buona volontà.

La famiglia risorsa della società

Di fronte a questo quadro che appare non poco problematico, è urgente ridare dignità culturale e centralità alla famiglia nel contesto della società contemporanea: la famiglia va riportata nel cuore del dibattito, nel centro della visione della politica e della stessa economia, come pure della vita delle comunità cristiane. In tale prospettiva appare in tutta la sua forza la decisione di Papa Francesco di celebrare ben due Sinodi sulla famiglia. Ed è lungimirante la sua volontà di coinvolgere in maniera la più larga possibile l’intera comunità cristiana in tale preoccupazione. Sa bene, Papa Francesco, che la società globalizzata potrà trovare un futuro di civiltà se e nella misura in cui sarà capace di promuovere una cultura della famiglia che la ripensi come nesso vitale tra la felicità privata e la felicità pubblica. E in tale prospettiva la Chiesa si pone come promotrice di una nuova prospettiva pastorale che è vitale per la Chiesa stessa ma anche per immettere nel tessuto della società un lievito nuovo. E’ il servizio che la Chiesa può rendere alla società contemporanea perché non affondi nella globalizzazione della solitudine e della indifferenza.

Si deve affermare con coraggio, comunque, che la famiglia non è morta. Nonostante il difficilissimo momento che sta traversando, la famiglia resta nei fatti la risorsa più importante delle società contemporanee perché crea quei beni relazionali che nessun’altra forma di vita può creare. E’ unica nella sua capacità generatrice di relazioni. Nessun altra forma ha le sue potenzialità associative. Il suo genoma non cessa di esistere perché rappresenta quanto di più umanizzante vi è nella società.

Quest’affermazione trova supporto nelle ricerche empiriche che rilevano la famiglia al primo posto in assoluto nei desideri degli intervistati: la famiglia è sentita dalla maggioranza delle popolazioni di tutti i paesi come il luogo della sicurezza, del rifugio, del sostegno per la propria vita (in Italia circa l’80% dei giovani in età da matrimonio dichiarano di preferire il matrimonio (civile o religioso che sia), solo il 20% opta per la convivenza; di questo 20% sembra che solo il 3% considera la convivenza una scelta definitiva, l’altro 17% la pensa transitoria in attesa del matrimonio. In Francia il 77% dei giovani francesi desidera costruire la propria vita di famiglia, rimanendo con la stessa persona per tutta la vita; la percentuale arriva all’84% per i giovani dai 18 a 24 anni). La stabilità coniugale resta un valore importante e un’aspirazione profonda, anche se la convinzione di stare insieme “per sempre” ha sempre meno dignità culturale, anzi si ritiene sia impossibile.

E’ indubbio che la famiglia sia ancora oggi la risorsa più preziosa della società: in essa si apprende il noi dell’oggi e del futuro attraverso la generazione dei figli. E’ un  tema delicatissimo questo. Certamente è poco lungimirante la tendenza crescente in Italia ad avere un solo figlio (se questo fenomeno crescerà, come purtroppo sembra accadere, che ne sarà tra qualche anno del termine “fratello”, “sorella”?). Ancor peggiore sarà la condizione di quella società che non genera figli. Pretendere poi il matrimonio solo perché c’è l’amore – è questo il motivo per sostenerlo anche tra persone dello stesso sesso -, significa non comprendere la differenza che c’è tra l’amore coniugale, che per sua natura richiede anche la generazione, e le altre molteplici forme di amore, tutte ovviamente legittime ed anche auspicabili. Ma l’amore coniugale ha una sua propria dimensione che lo distingue dagli altri. E pretendere una uguaglianza che richiede l’abolizione della diversità apre la via a derive pericolose.

Ci troviamo in un delicatissimo crinale storico: uno spartiacque antropologico. In estrema sintesi si potrebbe dire che da una parte vi è l’affermazione biblica “Non è bene che l’uomo sia solo” – da cui è originata la famiglia – e dall’altra il suo esatto opposto, ossia “è bene che l’individuo sia solo”. L’io, l’individuo, sciolto da qualsiasi vincolo, viene contrapposto al noi. E la famiglia, fondamento del disegno di Dio sull’umanità, è divenuta la pietra d’inciampo dell’individualismo, che deve essere quindi quanto meno scansata, se non distrutta. Ma la famiglia, nonostante tutti gli attacchi, resta salda, per sua forza interna: non esistono sostituti o equivalenti funzionalità della famiglia. E’ un ideale che chiede stabilità: è uno dei cardini di quel nuovo umanesimo di questo nuovo millennio.

 

La Carta dei diritti della famiglia

 

In tale nuovo contesto vorrei collocare la Carta dei diritti della famiglia. Essa affonda le radici nel Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia del 1980 voluto dal Beato Giovanni Paolo II. E’ singolare che anche lui abbia indetto il suo primo Sinodo sulla famiglia. Giovanni Paolo II accolse la richiesta dei padri sinodali e la ripropose autorevolmente nella Familiaris Consortio. Dopo aver denunciato gli attacchia all’istituto familiare, scrive : “Per questo la Chiesa difende apertamente e fortemente i diritti della famiglia dalle intollerabili usurpazioni della società e dello Stato. In particolare, i Padri Sinodali hanno ricordato, tra gli altri, i seguenti diritti della famiglia: 1) di esistere e di progredire come famiglia, cioè il diritto di ogni uomo, specialmente se povero, a fondare una famiglia e ad avere i mezzi adeguati per sostenerla; 2) di esercitare la propria responsabilità nell’ambito della trasmissione della vita e di educare i figli; 3) dell’intimità della vita coniugale e familiare; 4) della stabilità del vincolo e dell’istituto matrimoniale; 5)  di credere e di professare la propria fede, e di diffonderla; 6) di educare i figli secondo le proprie tradizioni e valori religiosi e culturali, con gli strumenti, i mezzi e le istituzioni necessarie; 7) di ottenere la sicurezza fisica, sociale, politica, economica, specialmente dei poveri e degli infermi; 8) il diritto all’abitazione adatta a condurre convenientemente la vita familiare; 9) di espressione e di rappresentanza davanti alle pubbliche autorità economiche, sociali e culturali e a quelle inferiori, sia direttamente sia attraverso associazioni; 10) di creare associazioni con altre famiglie e istituzioni, per svolgere in modo adatto e sollecito il proprio compito; 11) di proteggere i minorenni mediante adeguate istituzioni e legislazioni da medicinali dannosi, dalla pornografia, dall’alcoolismo, ecc.; 12) di un onesto svago che favorisca anche i valori della famiglia; 13) il diritto degli anziani ad una vita degna e ad una morte dignitosa; 14) il diritto di emigrare come famiglie per cercare una vita migliore” (Propositio 42)”.

Giovanni Paolo II chiude questo passaggio assicurando: “la Santa Sede, accogliendo l’esplicita richiesta del Sinodo, avrà cura di approfondire tali suggerimenti, elaborando una «carta dei diritti della famiglia» da proporre agli ambienti e alle Autorità interessate”. Il Pontificio Consiglio per la Famiglia, istituito immediatamente dopo il Sinodo, il 9 maggio 1981, fu incaricato dal papa di preparare tale testo. I lavori di stesura terminarono con l’approvazione della Carta avvenuta il 22 ottobre 1983.

La Carta si iscrive nel contesto giuridico della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, promulgata dall’ONU nel 1948, ove la famiglia occupa il posto che le compete, ma lo è in forma contratta e non esauriente. Di qui, l’impegno della Santa Sede per dilatare quei pochi ma essenziali principi sulla famiglia che senza dubbio meritavano di essere rivistati. Chi legge oggi la Carta dei diritti della famiglia arriva facilmente a concludere che le indicazioni prospettate allora mantengono una forte, duplice valenza: anzitutto quella di una descrizione estremamente corretta dell’identità della famiglia, presentata nel Preambolo, e poi quella di un’altrettanto corretta e condivisibile esortazione ai governi, agli Stati, alle società civili, alle Organizzazioni internazionali, alle famiglie stesse e a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà, perché l’impegno per la tutela e la promozione della famiglia siano potenziati e non vengano meno.

Questa duplice valenza rappresenta il filo rosso che traversa i dodici, densi articoli della Carta stessa. Come ho appena accennato nella prima parte vi è stata un’accelerazione della storia senza eguali relativamente alla famiglia. Da una parte è stata riconfermata nel suo valore, ma dall’altra viene alterata nella sua identità. Infatti, grazie al dilatarsi di quella che nel Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo venne a suo tempo correttamente definita come una vera e propria fede nei diritti umani, la famiglia negli ultimi anni ha ottenuto in tutto il mondo il riconoscimento che le è dovuto (il che è il presupposto indispensabile per l’impegno contro tutte le torsioni e le deformazioni che continuano a tormentarla). In effetti il dibattito sull’identità della famiglia e sulla sua dignità appare, da un punto di vista teoretico e dottrinale, sostanzialmente concluso. I principi indicati nel Preambolo della Carta dei diritti della Famiglia non trovano più dottrinalmente confutazione alcuna (se non su punti marginali, sui quali è opportuno continuare a impegnarsi, ma il cui mancato riconoscimento non incrina la considerazione appena fatta) e, cosa ancor più significativa, essi sembrano essersi definitivamente incarnati in tutte le culture interculturali che caratterizzano il mondo contemporaneo.

Ma se a livello dottrinale il concetto di famiglia presentato e difeso nella Carta appare inoppugnabile, a livello sociologico le cose purtroppo sembrano andare ben diversamente: la famiglia appare sempre più sfocata. Non è però l’idea della famiglia che viene messa in crisi, bensì l’idea della sua necessarietà sociale. La famiglia, oggi, non viene più né confutata, né negata: la scandalosa esclamazione di André Gide, contenuta nelle Nourritures Terrestres (del lontano 1897), Familles, je vous hais! appare lontana. Come dicevo, la famiglia non viene negata e nemmeno confutata, ma si accetta che accanto ad essa emergano forme di vita e di esperienza relazionale che sono apparentemente compatibili con essa, ma che nella realtà delle cose la scardinano.

Uno degli atteggiamenti più tipici del tempo in cui viviamo, quello non solo della tolleranza, ma del riconoscimento della legittimità di ogni stile di vita, ci sta portando a modellare il vivere sociale secondo paradigmi caratterizzati da un individualismo che non ha solo natura psicologica (fenomeno questo proprio di ogni tempo e ordinariamente designato col termine di egoismo), ma che ha inedite e culturalmente autorevoli ricadute socio-relazionali. Ciò che si sta appannando è la percezione che nella logica della durata, che qualifica in modo così forte l’esperienza umana, i vincoli familiari non sono riducibili al prodotto di una scelta di vita, ma costituiscono al contrario il presupposto di ogni scelta dotata di senso.

Se rileggiamo la Carta dei diritti della famiglia sotto questa angolatura, essa, sottolineando verità di principio a cui non corrispondono più (se non in parte) pratiche ad esse coerenti, ci fornisce un aiuto prezioso a capire i paradossi che caratterizzano il mondo di oggi. Il Preambolo della Carta da questo punto di vista è particolarmente prezioso: ad ogni suo punto sembra corrispondere, nella prassi, un punto simmetricamente alternativo. Il punto A rileva come i diritti dell’individuo abbiano una fondamentale dimensione sociale: l’individualismo contemporaneo, come abbiamo visto, non riesce più a cogliere questo punto, perché non riuscendo a riconoscere oggettività alle dimensioni sociali in cui si manifesta l’umanità dell’uomo (come appunto è il caso della famiglia), le vede come il prodotto artificiale di scelte private, eventuali e insindacabili.

La nitida affermazione (del punto B) che vede nel matrimonio un’unione intima di vita nella complementarietà tra un uomo e una donna, appare oggi sfocata, a seguito della martellante riproposizione delle diverse forme dell’ideologia del gender, che sostengono (contro ogni buon senso) il primato della scelta soggettiva del genere nei confronti dell’oggettività della sessualità biologica. Che il matrimonio (punto C del Preambolo) costituisca l’istituzione naturale alla quale è affidata in maniera esclusiva la missione di trasmettere la vita è diventata anch’essa un’osservazione problematica, non perché gli Stati e gli ordinamenti abbiano deciso di degiuridicizzare i vincoli coniugali, ma perché essi si sono rivelati assolutamente disposti a riconoscere un valore assolutamente pari alla generatività coniugale e a quella extra-coniugale (senza considerare come la migliore tutela dei diritti dei figli esiga invece il riconoscimento dei primato della prima sulla seconda). Potremmo continuare, analizzando in maniera similare tutti gli ulteriori punti del Preambolo, fino alla fine, fino alla lettera M.

Dobbiamo comprendere che quello della famiglia, oggi, non può essere posto come un problema dottrinale, né tanto meno come un problema accademico. Non è la teoria della famiglia quella che oggi merita di essere oggetto di dibattito; anzi, è percezione abbastanza diffusa quella per la quale discutere oggi di famiglia è divenuto pressoché impossibile, a fronte del vuoto argomentativo che occupa ogni riferimento ad essa. Ciò che è in gioco non è il pensato e nemmeno il pensabile in tema di famiglia: è piuttosto il vissuto o, per meglio dire, il vivibile: è la stessa esperienza che rende umana la nostra vita quotidiana. Dominata dalla logica della funzionalità, in particolare tecnologica (che in sé e per sé non è affatto da condannare, perché è anzi il frutto dell’uso ottimale della ragione umana) l’esperienza contemporanea si sta assuefacendo all’idea che quello della vita privata, quello degli affetti, quello delle convivenze, l’ordine in una sola espressione riassuntiva della nuda vita, come è stato efficacemente definito, non sia un ordine oggettivo, ma il mero frutto di scelte occasionali, singole, che possono essere esibite, ma non possono essere giustificate e a cui non ha senso attribuire vincoli o responsabilità.

E’ per questo che le alternative alla famiglia non vengono presentate come conflittuali rispetto ad essa, ma come semplicemente addizionali o integrative. Esse pretendono di rappresentare un di più, non un altro. Ma, comunque si vogliano vedere le cose, è un di più corrosivo: corrosivo a livello di senso comune, di psicologia sociale e della stessa auto interpretazione dell’uomo. Una corrosività della quale stiamo in questi ultimi tempi prendendo forzosamente atto, grazie ai dibattiti e alle polemiche in merito all’omoparentalità e alla stessa impossibilità linguistica di denominare queste nuove forme di genitorialità omosessuale e multipla che stanno facendo pressione, in molti paesi, per accedere a un pieno riconoscimento legale. Un riconoscimento che viene sempre più di frequente concesso (senza parlare della vecchia Europa, ormai un decimo degli stati degli USA riconoscono i matrimoni omosessuali) nella piena inconsapevolezza che la posta in gioco non è il dilatarsi dei diritti umani (come si continua a ripetere), ma il fondamento della titolarità dei diritti umani, cioè quella stessa identità della persona, che solo nella famiglia trova le sue radici.

L’uomo è un animale familiare: è solo nella famiglia che egli costruisce la sua identità psicologica, linguistica, morale, culturale, relazionale, sociale. Per assolvere a questo suo compito costitutivo, di formazione delle singole identità personali nel contesto delle generazioni, la famiglia ha bisogno di essere a sua volta riconosciuta nella sua identità.  La Carta, nel Preambolo, al punto E, la definisce comunità di amore e di solidarietà. Amore e solidarietà sono esperienze umane primarie, personalissime, ma non riducibili a esperienze soggettive, inafferrabili e insindacabili. Amore e solidarietà ci provocano, perché mettono in gioco la nostra responsabilità. E la responsabilità è un vincolo interpersonale, cui nessuno può arbitrariamente e unilateralmente rinunciare o abdicare.

Per questo la famiglia ha diritti fondamentali e, sempre per questo, i singoli hanno nei confronti della famiglia doveri irrinunciabili. La duplice frenesia che tormenta il mondo d’oggi si illude di poter declinare amore e solidarietà in una piena polivalenza di forme; si illude di poter trasformare il politeismo etico, che secondo Max Weber sarebbe il contrassegno della modernità, in un polimorfismo familiare. Non è possibile. Un’attenta e rigorosa rilettura della Carta dei diritti della famiglia ci può aiutare a percepire nello stesso tempo lo scollamento che caratterizza la rivendicazione odierna dei diritti umani tra vincolo e arbitrio e la profonda esigenza di superare tale scollamento, attraverso una riflessione onesta ed austera. La Carta è un aiuto in più per sottolineare la famiglia come soggetto giuridico di diritti.

Purtroppo è restato un documento poco conosciuto. Il pontificio Consiglio per la Famiglia ha voluto rilanciarlo. In essa si presenta in modo organico e con linguaggio giuridico il “dover essere” intrinseco al progetto divino della Famiglia. Nella Presentazione si legge: “I diritti proposti devono essere compresi secondo il carattere specifico di una ‘Carta’. In alcuni casi, essi esprimono postulati e principi fondamentali per una legislazione da attuare e per lo sviluppo della politica famigliare. In tutti i casi, sono un appello profetico in favore dell’istituzione familiare, la quale deve essere rispettata e difesa da tutte le usurpazioni”. E proprio in quanto universali, queste affermazioni sono rivolte non solo ai governi civili, per avere adeguata attuazione nelle legislazioni e nelle politiche familiari, ma anche “a tutti i membri e le istituzioni della Chiesa”: anzi, si può dire che la comunità ecclesiale deve essere il luogo privilegiato in cui riconoscere e proteggere i diritti fondamentali della famiglia.

Tali principi conservano, anche nel mutato contesto culturale, tutta la loro validità. Sono convinto che i cultori del Diritto sono chiamati a raccogliere la sfida in difesa della famiglia dagli attacchi violentissimi a cui è sottoposta, e soprattutto ad aiutarla perché essa possa esprimere la sua straordinaria ricchezza per far crescere quel “noi” che diviene scuola di convivenza tra diversi. La famiglia è, come amava ripetere Benedetto XVI, “patrimonio dell’umanità”. Per questo credo che debba divenire sempre più tema della riflessione anche giuridica. E non solo civile, ma anche canonica. Il mio augurio è che anche nel versante canonico –l’odierna giornata ne è un esemplare attuazione – si moltiplichino riflessioni e dibattiti, nella consapevolezza di svolgere un preziosissimo servizio alla Chiesa e all’intera società.