Introduzione del libro “Il prete romano – ricordando don Andrea Santoro”

Introduzione del libro "Il prete romano - ricordando don Andrea Santoro"

La morte di don Andrea Santoro – con il quale ho condiviso gli anni della formazione al sacerdozio, in parte quelli del ministero pastorale a Roma e per certi versi anche quelli in Turchia – ha posto non pochi interrogativi a coloro che gli sono stati vicini, ma interpella i preti in generale e quelli di Roma in particolare. Com’essere preti, oggi? Come vivere il proprio il sacerdozio in una società così complessa com’è la nostra? Come testimoniare la fedeltà al Vangelo in una cultura che sembra incapace di compiere scelte definitive? La testimonianza di don Andrea è senza dubbio un invito pressante per porsi sulla lunghezza d’onda che lui ha vissuto; ed è altresì un invito ai più giovani a guardare come un cristiano ha seguito il Vangelo sino alla fine. Potremmo dire: abbiamo bisogni di preti così; abbiamo bisogno di cristiani che sanno dare la propria vita per il Signore, per la sua Chiesa e per la pace tra i popoli.


La vicenda di don Andrea è complessa, e va capita in tutte le sue implicanze. In molti non l’abbiamo compreso fino in fondo. La sua morte ci ha svelato la straordinaria ricchezza della sua testimonianza evangelica. In questo orizzonte comprendiamo quel che lui diceva della morte in una sua lettera: “Proprio la morte, da nemica, può diventare amica perché appannando all’improvviso tutto può portare alla luce cose nascoste e porre domande fino allora ignorate. Il dolore che uccide e spesso all’inizio pone contro Dio, può aprire sentieri sconosciuti e produrre frutti inimmaginati, può riportare a quel Dio da cui ci eravamo allontanati e che per questo ci appariva inesistente o estraneo o muto”[1]. Don Andrea è tornato a Dio, ma la sua morte ci ha aperto una finestra sulla bellezza della sua vita, sulla forza della sua testimonianza e ci aiuta a pensare cose che prima magari non pensavamo con tanta forza.


Augusto D’Angelo (ma si può vedere anche il volume di Valentino Salvoldi[2]) ha già scritto una preziosa biografia di don Andrea[3]. Assieme alle “Lettere dalla Turchia” rappresentano una fonte già ricca per comprenderne la statura spirituale. Era un “prete romano”, potremmo dire sinteticamente. Andrea Riccardi, nella Introduzione alla biografia di D’Angelo, riassume così:


“Prete romano…non vuol, dire qualcosa di curialesco o di comodo. La vita di don Andrea illumina quella di un gruppo di uomini, di una o più generazioni che hanno speso la loro vita a Roma nell’impegno pastorale…Il tempo è cambiato; gli uomini e i modelli sono in parte cambiati. Ma il prete romano resta, come qualcuno che opera sul terreno concreto di una città che conosce, attraverso tutto il Novecento, una grande trasformazione…”[4].


Riflessioni come queste di Riccardi mi hanno spinto a riprendere tra le mani e riordinare alcune pagine di ricerche di natura storica sul prete romano per individuarne alcuni motivi di fondo e coglierne qualche tratto che a me pare utile notare e soprattutto vivere. Per chi ha conosciuto don Andrea fa certamente riflettere il suo desiderio di non staccarsi dal Seminario Romano, soprattutto negli ultimi anni quando era in Turchia. Avrebbe voluto che la sua residenza a Roma fosse proprio il Seminario, come a voler tener saldo quel legame con Roma che ha preso corpo in lui durante gli anni della formazione. Il parallelo con Giovanni XXIII viene spontaneo, non solo per il legame con la Turchia che ha uniti i due per qualche tempo, ma soprattutto per quel tornare alle fonti romane che non ha mai abbandonato Roncalli, come mostra la notevole corrispondenza di quest’ultimo con i rettori del Seminario Romano.


Vorrei dedicare queste pagine a don Andrea. Con lui più di qualche volta abbiamo parlato, soprattutto quando nei primi anni di sacerdozio ci interrogavamo su come essere cristiani e preti a Roma, su come comunicare il Vangelo di sempre, che a Roma risuonava da duemila anni, in una città che mutava così velocemente il suo volto. Sentivamo che era necessaria una nuova fantasia pastorale, un nuovo linguaggio, ma soprattutto – ed è questo il messaggio più alto che don Andrea ci lascia – il dono totale della vita come una testimonianza di amore. Lo aveva intuito nel profondo del suo animo e, così a me pare, lo ha scoperto via via nel suo complesso itinerario di vita di prete. Tra Oriente e Occidente, tra Roma e il mondo, tra cattolici e altri cristiani, tra ebrei e musulmani, don Andrea ha vissuto in pienezza la sua vocazione di prete romano. Per trenta anni lo ha vissuto a Roma e, ancora come prete romano, in Turchia ha continuato la stessa missione. E’ andato in Turchia non come turista. Era viva in lui la coscienza di camminare sulla terra dove il cristianesimo aveva mosso i primi passi: voleva come coglierne la linfa vitale. Vi è andato anche sapendo che quella terra aveva bisogno di una rinnovata testimonianza evangelica. Vi è andato con quel senso del debito che tutto l’Occidente deve avere per l’Oriente, ma Roma in maniera particolare.


Andare in Turchia non era per lui una decisione privata, frutto di sue scelte personali. Vi è andato a nome della Chiesa di Roma. Racconta il cardinale Ruini che quando, parlandone con lui,  gli diceva quasi a provocarlo che questa era una sua scelta personale, don Andrea ribatteva con vigore: “no, non vado a nome mio, vado a nome della Diocesi di Roma”. Dalla Chiesa dell’apostolo Pietro, don Andrea, si recava nella terra della Chiesa dell’apostolo Andrea, il primo dei chiamati, per offrire quella testimonianza d’amore che sola può lenire e guarire la ferita lacerante della divisione. Aveva compreso che solo l’amore evangelico vissuto sino in fondo può sanare la divisione. Per questo resta un testimone dell’ecumenismo e un martire del dialogo tra le religioni e tra i popoli. Lo diceva spesso: “La mia missione è il dialogo tra le fedi”. Sapeva che nel Medio Oriente si incrociavano sia l’ebraismo che l’islam. E don Andrea ha scelto come missione di essere un ponte, proprio mentre questo mondo sembra perseguire una recrudescenza di conflittualità. Non è il conflitto tra civiltà che ci salva, ma l’incontro franco e saldo a cui ci spinge l’amore cristiano.


Sono non poco significative alcune riflessioni scritte nella sua ultima lettera che hanno il sapore di un testamento. Scrive don Andrea:


“Il vantaggio di noi cristiani nel credere in un Dio inerme, in un Cristo che invita ad amare i nemici, a servire per essere “signori” della casa, a farsi ultimo per risultare il primo, in un vangelo che proibisce l’odio, l’ira, il giudizio, il dominio, in un Dio che si fa agnello e si lascia colpire per uccidere in sé l’orgoglio e l’odio, in un Dio che attira con l’amore e non domina con il potere, è un vantaggio da non perdere. È un “vantaggio” che può sembrare “svantaggioso” e perdente e lo è, agli occhi del mondo, ma è vittorioso agli occhi di Dio e capace di conquistare il cuore del mondo. Diceva san Giovanni Crisostomo: Cristo pasce agnelli, non lupi. Se ci faremo agnelli vinceremo, se diventeremo lupi perderemo. Non è facile, come non è facile la croce di Cristo sempre tentata dal fascino della spada…Ci sarà chi voglia essere presente in questo mondo mediorientale semplicemente come “cristiano”, “sale” nella minestra, “lievito nella pasta, “luce” nella stanza, “finestra” tra muri innalzati, “ponte” tra rive opposte, “offerta” di riconciliazione?”[5]


L’eco straordinaria che ha avuto la tua morte mostra il bisogno che tutti abbiamo di queste parole, di questa testimonianza. In esse c’è l’eco di tutto il Vangelo. Don Andrea non ci ha lasciato un trattato di teologia e neppure un volume di pastorale. La sua vita è la sua morte martiriale. Accostandoci per coglierne qualche tratto scorgiamo che affonda le radici nel pozzo profondo della Chiesa di Roma che egli ha compreso e vissuto con quel primato della carità che la Chiesa di Roma è chiamata a vivere e a testimoniare ancora oggi.