IL PONTE DELL’EST
di Sandro Petrollini
Mosca è una ragnatela di strade e di luci. Imponente. Il Cremlino, con le sue cupole ed i suoi palazzi, sovrasta la metropoli. La Piazza Rossa è silenziosa: immensa e silenziosa. La Moskova sembra un tratto di disegno su una cartina: una pista ghiacciata. In metropolitana scende, staziona, e tarda a risalire gente povera e disperata. Ovunque tante luci ed alberi addobbati: è metà gennaio e qui si festeggia il capodanno. A dodicimila chilometri di distanza verso Est si esaurisce l’impero della federazione russa: un impero che affonda nella storia, pieno di misteri, momenti tragici, grandi speranze. Ad Ovest, due ore indietro d’orologio, Terni raccoglie le forze per la piccola sfida del terzo millennio. Una grande metropoli ed una piccola città unite da san Valentino. Il vescovo di Terni, Narni, Amelia ha consegnato al patriarca Alessio II la reliquia di san Valentino. Un momento emozionante. Un avvenimento al quale stampa e tv russe hanno dato ampio risalto. Il parco del monastir Danielovski è un tappeto di neve fresca ed altra ne scende, ma stasera appare allegra, festosa. E il suono delle campane sembra voler rimbalzare ancor più lontano emozioni e speranze.
Monsignor Vincenzo Paglia, le reliquie di san Valentino ora sono a Mosca, consegnate nelle mani del patriarca ortodosso. Che significa questo atto? E quali risvolti può avere?
E’ stata un’esperienza senza dubbio emozionante per il suo profondo significato religioso che lega la diocesi di Terni e il patriarcato di Mosca. E’ tuttavia singolare che i commentatori di Mosca hanno voluto vedere nel dono delle reliquie di San Valentino un gesto didistenzione da parte della Chiesa Cattolica e della stessa Santa Sede. Si potrebbe dire che lo scambio delle reliquie, una tradizione che affonda le sue radici lontano nei secoli, ha portato i suoi frutti di comunione. Sappiamo infatti quanto la testimonianza dei martiri sia stata significativa per la vita delle comunità cristiane e quanto le Chiese ortodosse la sentano e la vivano. Era così in passato anche per le nostre chiese latine, basti pensare alla stessa vicenda di San Valentino: attorno al suo corpo si è radunata tutta la città di Terni sino ad identificarsi con lui e proclamarlo protettore dell’intera comunità. Il dono delle reliquie, come si può comprendere, significava un forte e profondo momento di comunione, proprio perché si donava ciò che si aveva di più prezioso e di più caro. Questo scambio, in sostanza, esprimeva una comunione spirituale che aveva riflessi nella stessa storia religiosa e civile delle singole città o dei singoli comuni. Questo aspetto, che per noi occidentali ha perso la sua forza, nelle chiese bizantine-ortodosse, come ho già detto, conserva ancora tutto il suo valore. Noi stessi siamo stati sorpresi dal modo con cui il patriarca, i metropoliti e i fedeli della chiesa ortodossa russa hanno accolto le reliquie del martire San Valentino. Abbiamo potuto constatare un onore che talora manca anche presso di noi verso questo santo che pure veneriamo come patrono della nostra città. Un secondo elemento va sottolineato: San Valentino è un martire del primo millennio, quando la Chiesa era ancora “indivisa”, quando cioè non era ancora avvenuta la divisione tra Chiesa cattolica occidentale e Chiesa ortodossa. Quest’ultima venera con grande devozione i santi della prima chiesa cristiana, particolarmente i martiri, come appunto San Valentino. Ebbene questa comune venerazione va riscoperta proprio per il valore che può avere nei rapporti tra le Chiese. E’ quanto abbiamo potuto constatare a Mosca in questi giorni. Certo, abbiamo dovuto fare i conti, se così posso dire, con la qualità della devozione che loro hanno verso il “nostro” santo. C’è a Mosca una venerazione tutta particolare a san Valentino in quanto vescovo e martire, sino a sentire un notevole fastidio quando il nostro santo viene ridotto a semplice patrono degli innamorati o, peggio ancora, a simbolo mondano dell’innamoramento. E’ stato importante per noi, al momento della consegna della reliquia, sottolineare che il notro patrono è un martire dell’amore, un martire del Vangelo, un vescovo che ha dato la sua vita per amore sino all’effusione del sangue. Ed è in questo contesto di amore forte che si comprende la sua protezione per gli innamorati. Insomma, ci hanno richiamato a considerare la testimonianza di Valentino nella sua forza e nella sua profondità. Mi pare che questo sia il senso della icona di san Valentino che abbiamo visto venerata nella Chiesa ortodossa di Mosca. A differenza dell’Occidente, che fa fatica ad avere una iconografia di san Valentino, l’Oriente ne ha una che affonda le sue radici nella tradizione bizantina. E accanto al volto del santo vescovo e martire troviamo scritto in cirillico: “San Valentino vescovo interamnense”.
Un’occasione per riflettere in modo più adeguato sulla figura ed il messaggio di san Valentino.
Sì. E’ stato un pensiero ricorrente in quei giorni. La chiesa ortodossa russa – come in genere la chiesa bizantina – richiama noi ternani e noi occidentali, come ho appena detto, a ricomprendere ancora più profonamente la testimonianza di questo nostro santo. Quell’icona, che portiamo da Mosca – e tante altre ne vorremmo portare ancora – ci aiuta a capire meglio quel che Giovanni Polo II dice spesso, ossia che la Chiesa deve vivere con due polmoni, quello orientale e quello occidentale. Nella nostra piccola esperienza vediamo quanto sia vero. Vorrei perciò che questa immagine bizantina di san Valentino ci spingesse a comprendere ancor più la sua testimonianza d’amore. Una ulteriore riflessione mi pare opportuna. Nel presentare la reliquia al Patriarca ho fatto cenno ai martiri del primo millennio (tra essi c’è anche Valentino), legandoli ai nuovi martiri della fine del secondo millennio, i martiri del Novecento. La venerazione dei martiri della prima Chiesa cristiana si estende a quelli del Novecento. E sappiamo che in Russia sono stati centinaia di migliaia i cristiani ortodossi uccisi dall’impero comunista: erano vescovi, preti, religiosi, monaci, monache e semplici fedeli. Tutti hanno dato la loro vita per la fede nel Signore. Questa testimonianza non può essere dimenticata. Sappiamo che il sangue dei martiri è seme dei cristiani, come diceva Tertulliano. Ebbene, il sangue dei nuovi martiri sostiene la rinascita della chiesa ortodossa russa. Ugualmente, le altre centinaia di migliaia di martiri dell’occidente – pensiamo a quelli in Germania, ai tanti in America latina, in Africa, in Asia – sostengono l’intera chiesa occidentale in questo passaggio di millennio. Il legame dei primi martiri, attraverso la testimonianza di San Valentino, con quelli del Novecento rappresenta il riannodarsi di un itinerario che si era spezzato subito dopo l’anno Mille quando le due chiese si divisero. Insomma, i martiri ci uniscono ancora. E Giovanni Paolo II non manca di sottolinearlo: questi testimoni della fede rappresentano già l’unità delle chiese. E il patriarca non ha esitato a riprendere questo concetto espresso nel momento dell’offerta della reliquia: l’amore unisce anche se molte cose ci dividono ancora. I martiri sono il segno di una comunione già realizzata. Dare la vita per Cristo è molto più importante di tante piccole o grandi differenze teologiche, psicologiche, storiche e di altro genere.
I rapporti tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa sono piuttosto difficili. Sembra l’inverno dell’ecumenismo.
Abbiamo vissuto un periodo esaltante subito dopo il Vaticano II riguardo all’ecumenismo. Lo stesso metropolita Kirill raccontava con entusiasmo gli incontri tra le Chiese cristiane dopo il Concilio. Lui era un giovane al seguito di Nikodim, il metropolita che morì durante la visita a papa Giovanni Paolo I. Questo metropolita è stato un uomo che amava fin nelle viscere la sua chiesa, quella russa, ma sognava e operava per l’incontro con la chiesa cattolica. La sua morte tra le braccia di Giovanni Paolo I non è certo senza significato. Kirill con emozione raccontava le liturgie a Leningrado quando monsignor Willebrands, poi diventato cardinale, cantava il Vangelo in latino e il metropolita Nikodim in slavo antico. La speranza dell’unità tra le Chiese cristiane era forte. Oggi ci troviamo in un momento difficile. Qualcuno, come lei dice, parla di inverno dell’ecumenismo. Va però spesa una parola di realismo: non dobbiamo dimenticare che sono passati appena quarant’anni dal Concilio, e la divisione con la chiesa ortodossa risale al 1054. Sono passati secoli e secoli: non è facile ritrovarsi. Se paragoniamo i nove secoli che ci hanno visto separati con i quarant’anni di ecumenismo, c’è da dire che sono stati fatti passi da gigante. Penso, tuttavia, che rispetto alla velocità con cui si era intrapreso questo cammino, oggi il passo si è rallentato. Ultimamente con la chiesa ortodossa russa ci sono stati problemi non di ordine teologico-spirituali, quanto di ordine amministrativo ecclesiastico e anche civile (penso al problema dei visti). Non vanno sottovalutate le questioni di ordine storico-psicologico: la chiesa russa è stata schiacciata dal governo comunista sovietico e, mentre sta riorganizzandosi, teme di vedersi incalzata e umiliata da un eccessivo attivismo da parte di altre Chiese cristiane. In questo senso, c’è da dire che stiamo vivendo un momento molto delicato che richiede attenzione, saggezza, comprensione e carità.
La difficoltà dei rapporti rappresenta una delle facce della medaglia. Se, infatti, guardiamo l’altra faccia percepiamo un infinito desiderio di riprendere un cammino comune.
La piccola esperienza che abbiamo vissuto a Mosca con la consegna delle reliquie di san Valentino, se da una parte ha fatto emergere il dramma della lontananza, dall’altra è stata un’occasione che ha manifestato il desiderio di superare questo momento. Vorrei dire che si è manifestata chiara la volontà di riprendere i contatti, di riallacciare il dialogo, di riattivare l’incontro. E’ risultato evidente non solo nei contatti avuti con il Patriarca, con il metropolita Kirill e con gli altri esponenti della chiesa Ortodossa, ma anche nella notevole ricezione dell’avvenimento da parte della stampa russa. Tv, radio, quotidiani, settimanali, internet: tutti hanno ripreso questo avvenimento auspicando la ripresa dei contatti. Questo piccolo gesto d’amore ha avuto una risonanza ben superiore a tutte le aspettative, anche le più rosee, che noi potevamo avere. Lo stesso cambiamento di clima atmosferico (siamo arrivati con una temperatura polare e siamo ripartiti con un paio di gradi sopra allo zero), è stato letto dal Patriarca e da Kirill come una manifestazione di un disgelo più profondo. Credo che un po’ di ghiaccio è stato rotto; restano ancora pezzi di ghiaccio, ma in qualche parte si è anche sciolto. Se continueranno gesti come questi, se continuerà lo spirito di franchezza nell’incontro, il dialogo tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa russa certamente vedrà una nuova aurora.
Un altro tassello, insomma, nella costruzione difficile di questo ponte con l’Est. E Terni, nel suo piccolo, sta svolgendo un ruolo.
Ovviamente non basta un gesto. Però quando si cotruisce un ponte, anche piccolo, si offre la possibilità di traversarlo anche dall’altra parte. A Terni si è posto un piccolo pilastro con il convegno sui santi della carità, svoltosi nel mese di settembre scorso. In questa occasione, il metropolita Kirill, accompagnato da alcuni studiosi russi, si è confrontato con altri studiosi occidentali per parlare dei santi della carità in Occidente e in Oriente. E’ stato un tema proposto dallo stesso Patriarca Alessio II: in un precedenmte incontro a Mosca ci diceva che la chiesa ortodossa russa, dopo essere stata per settanta anni schiacciata dall’ateismo comunista e costretta a restare solo dentro le chiese, ha ora bisogno di entrare nella società e i cattolici possono aiutarla in questa prospettiva. Questa è la ragione del convegno di Terni sulla carità, cui è seguita la laurea honoris causa al metropolita Kirill, all’università di Perugia. Non mi fermo a dire quanto nella tradizione ortodossa siano importatnti le testimonianze di San Benedetto e di San Francesco, ambedue umbri. Dopo il Convegno è giunto l’invito del Patriarca Alessio a recarci a Mosca: averbbe accolto volentieri le reliquie di San Valentino, martire della carirà, dell’amore.Con la visita a Mosca, se così posso dire, si è posto l’altro pilastro del ponte, di questo nostro piccolo ponte, che, ovviamente non è né il primo né il più importante. E’ però un ponte vero.
Si tratta ora di allargarlo e di sostenerlo promuovendo ulteriori iniziative. Credo che come in qualunque tipo di relazione umana la continuità del rapporto sia essenziale alla sua stabilità ed anche alla sua crescita. Certamente anche noi dobbiamo lasciarci guidare dalla creatività dell’amore anche in questo campo. La stessa cosa è richiesta al patriarcato di Mosca. Certo è che l’incontro è avvenuto in un momento particolarmente significativo, e certamente aiuta alla realizzazione di altri incontri ben più importanti e decisivi.
Ne auspica uno più grande, molto più grande, ai massimi livelli delle due chiese…
Credo che sarà inevitabile l’intensificarsi delle relazioni. C’è una una forza dell’amore, una forza del Vangelo che se non viene bloccata spinge ad andare oltre le difficoltà… Nella dinamica dei rapporti tra le Chiese, se si lascia operare lo Spirito, anche i piccoli spiragli verranno forzati e allargati. C’è insomma una forza del Vangelo che spingerà le Chiese a superare gli ostacoli che ancora ci sono. In più ci sono nuove frontiere davanti a noi che debbono vedere le Chiese riunite o comunque le une accanto alle altre. Penso all’Europa da costruire, alla pace da difendere e da allargare, ai problemi posti dalla globalizzazione, a quelli posti dalla bioetica, e così oltre. Di fronte a queste grandi sfide ogni chiusura, ogni ripiegamento, diventa non solo ridicolo, ma addirittura peccaminoso. Nei colloqui avuti a Mosca questi temi sono emersi con grande evidenza. Parlando con il metropolita Kirill abbiamo fatto riferimento all’episodio evangelicodi Gesù che dopo aver dato l’annucio della sua passione ai discepoli, questi si son messi a discutere chi di loro fosse il primo. Che distanza dal loro maestro! A volte anche noi ci perdiamo in discussioni che lasciano da parte i problemi e le sfide epocali.
Di fronte alla costruzione di un’Europa che rischia di dimenticare le sue radici cristiane; di fronte al problema della pace, che vede solo il Papa pronto a gridare di fermarsi prima che sia troppo tardi; di fronte al problema dell’ingiustizia – pensiamo al dramma paesi poveri paesi ricchi – chi se non le Chiese possono portare, o comunque sono chiamate a portare un contributo unitario perché il loro messaggio sia più efficace?
Queste sfide, assieme alla forza dello Spirito, debbono spingere a superare lo scandalo, ormai insopportabile, delle divisioni tra le Chiese. Insomma, quel piccolo ponte, di cui parlavo, dovrebbe diventare, mi si perdoni l’immagine, quanto prima un’autostrada.
Non è un caso che il Patriarcato di Mosca abbia deciso di collocare la reliquia di San Valentino nella grande chiesa di Cristo Salvatore, che è importante anche perché è l’emblema di una grande sofferenza e di un grande riscatto. Vuole raccontarci la storia?
E’ una storia drammatica. Nella cripta di questa chiesa sim possono vedere le foto della sua distruzione, decisa da Stalin. Voleva edificare un nuovo grande monumento, e si vede il progetto. Ma fu impossibile realizzarlo. La Chiesa fu comunque distrutta e al suo posto fu realizzata una grande piscina. In ogni caso l’intento era chiaro: distruggere il simbolo della vita religiosa nell’Unione Sovietica. Non dimentichiamo che era una chiesa ortodossa. Io stesso, nei primi anni Ottanta, ho visto la piscina costruita al posto della chiesa. Crollato il comunismo, uno dei primi gesti fu proprio la ricostruzione di questa chiesa. Ovviamente si voleva riproporre all’intera Russia il segno visibile della rinascita della Chiesa. Nonostante le numerose polemiche la chiesa fu riscostruita in poco tempo. In essa è stata posta l’icona dei nuovi martiri, ma con poche reliquie. Ebbene il patriarca, collocandovi la reliquia di san Valentino, ha voluto accogliere nella chiesa di Cristo Salvatore la testimonianza di questo martire del primo millennio per legarlo alla lunga schiera dei martiri russi della fine del secondo millennio. E’ un gesto di grande rispetto da parte loro. A noi è chiesto di comprenderlo in tutta la sua valenza religiosa. Si potrebbe dire che, con San Valentino, siamo entrati nel cuore della Chiesa ortodossa. E quando si è nel cuore di un fratello non si possono non sentire le gioie e le sofferenze, le speranze e le angosce. Vorrei dire: assieme al martire della nostra città tutti dovremmo stare ancor più nel cuore di questa Chiesa perché cresca e diventi sempre più evangelica. Ed è anche in questo modo che aiuteremo i nostri fratelli e sorelle cattolici che vivono in quella terra. Non dobbiamo certo nasconderci le tensioni che ci sono, ma dobbiamo aiutare tutti a rispettarsi, a comprendersi ed a camminare insieme. Anche per questo abbiamo voluto compiere la vista all’arcivescovo cattolico, Kundrusievic, al quale abbiamo voluto mostrare la nostra fraternità e il nostro aiuto concreto. Dobbiamo lavorare per aiutare ad appianare le difficoltà. Certo è che la via si riapre e dobbiamo ringraziare il Signore.
Monsignor Paglia, si torna a Terni con vari messaggi: da una parte una fortissima religiosità dei russi, in fila per baciare le icone; dall’altra uno spiccato amore per san Valentino che si caratterizza in manifestazioni serie, tutt’altro che inclini all’aspetto consumistico che spesso travolge noi italiani.
Ancora una volta si è realizzato quel misterioso scambio di doni che fa crescere i credenti. Quando ci si incontra e ci si scambiano i doni, ci si arricchisce vicendevolmente. La Chiesa ortodossa russa si è arricchita con le reliquie di San Valentino. Abbiamo visto i fedeli in devota fila che baciavano le icone; lo stesso Alessio II ha baciato con venerazione la reliquia di san Valentino. Siamo tornati arricchiti da questa religiosità che ci ha spinto a scoprire ancor più la testimonianza di San Valentino. Avevamo già iniziato a riscoprirla. I premi per la pace che abbiamo assegnato in questi ultimi anni manifestano una prospettiva di amore più robusto, certamente non consumista. Sono stato personalmente confortato e ancor più spimto ad approfondire la devozione verso un San Valentino robusto e niente affatto consumista. Valentino ha amato il Vangelo, ha servito i poveri, ha guarito i malati, ha aiutato anche i giovani a sposarsi. Questo santo, questo amore, sta alla radice della nostra città. Terni è provocata dal suo patrono a diventare sempre più una città che sappia esprimere l’amore in tutte le sue manifestazioni. Il Patriarca – e mi ha colpito – ha ripreso la frase della mia presentazione: la nostra Chiesa diocesana è fondata sul sangue di un martire. Dobbiamo essere orgogliosi di avere un patrono come Valentino? Sì, ma con la responsabilità di non tradirne la testimonianza e tanto meno di svilirla; siamo chiamati ad accoglierla e a viverla come meglio possiamo.
E in questo tempo in cui i conflitti sembrano facili, san Valentino ci chiede, anzi, ci spinge ad “innamorarci” della pace e per la pace.
Lei ha incontrato a lungo anche il nuovo Nunzio apostolico a Mosca, Antonello Mennini, giunto da poche ore…
Sono stato felicemente sorpreso dell’accoglienza favorevole che è stata riservata al Nunzio. Lo conosco da tanti anni, ho avuto modo di parlare anche di lui negli incontri con i vertici del Patriarcato ed ho notato una grande attesa. Sono stati colpiti anche dal fatto che questo nunzio prima di venire a Mosca è stato in Bulgaria dove fu nunzio un altro apostolo dell’ecumenismo: il beato papa Giovanni XXIII. Gli esponenti della Chiesa ortodossa hanno ripreso questo fatto sottolineando quanto questa presenza nuova a Mosca sia motivo di speranza per un nuovo clima di rapporti tra la Santa Sede e il Patriarcato di Mosca. Nei giorni che siamo stati a Mosca si sono riaperte prospettive di un dialogo ecumenico che, se non incontrerà nuovi ostacoli, sarà non poco fruttuoso. Potrei dire che abbiamo sentito muovere già i primi passi.
Nei suoi ripetuti viaggi in Russia e prima ancora nell’Unione sovietica i suoi interlocutori non sono stati soltanto gli esponenti della gerarchia della Chiesa ortodossa, ma anche esponenti della nomenklatura. E tra questi in particolare Vladimir Zagladin, braccio destro di Gorbaciov, responsabile della politica estera dell’Urss, con il quale può vantare una lunga amicizia e che ha rivisto in gennaio proprio in occasione del dono della reliquia di San Valentino al Patriarcato di Mosca.
Zagladin è stato certamente tra gli uomini più vicini a Gorbaciov in tutto il travaglio della perestroika e della glasnost. Egli, anche per la responsabilità politica che raveva, è stato tra i primi a lanciare in occidente i messaggi di un nuovo umanesimo. Ricordo la prima volta che lo incontrai in un ricevimento in un albergo di Mosca. Eravamo nel 1986. Zagladin iniziò, con molta affabilità, un discorso che per me fu subito sorprendente: parlò della libertà, dei valori umanistici, del futuro del mondo che poteva realizzarsi unicamente sulla base della dignità dell’uomo. Rimasi stupito. E sorpreso del suo desiderio di continuare questo contatto. Appresi poi, da una sua pubblicazione, che annetteva importanza a questo colloqui: pensava di inviare in questo modo i suoi primi messaggi distensivi a Roma (era un viaggio fatto con la Comunità di Sant’Egidio). Io non sapevo di questo suo intendimento, ma rimasi colpito fortemente dalle sue parole.
Continuammo il rapporto negli anni successivi fino alla organizzazione della prima visita di Gorbaciov a Roma dal Papa. Fu un momento di grande emozione e posso testimoniare la stima notevole che il Papa ha avuto ed ha ancora oggi per Gorbaciov. Zagladin, in questo contesto di distenzione, ha giocato un ruolo determinante e, senza dubbio, anche a lui si deve il cambiamento dell’Unione Sovietica. Zagladin non ha mai voluto lasciare Gorbaciov, vivendo al suo fianco il dramma della sconfitta e i difficili anni successivi. La visita di Gorbaciov Terni, organizzata assieme a Zagladin, ha consentito di scendere ancora più in profondità in questo rapporto. Ambedue, Gorbaciov e Zagladin, ricordano con vivezza gli incontri ternani. In quella occasione potemmo parlare con grande franchezza di tutta la vicenda politica ed umana da loro vissuta sin dagli anni giovanili. Ho stima per quest’uomo, che continua ad accompagnare Gorgaciov per lavorare per la pace, e per riproporre al centro dell’attenzione dei governi il primato dell’uomo. L’incontro con Zagladin, nella Fondazione Gorbaciov (assente purtroppo da Mosca), è stato piacevole oltre che interessante. Ho rivolto a lui e a Gorbaciov l’invito a tornare nuovamente a Terni e credo che fra qualche mese questo potrà realizzarsi.
Quest’anno ricorrono i quaranta anni della Pacem in terris. Sarebbe bello celebrarli con un grande evento.
Vorrei che l’appuntamento dei quarant’anni della “Pacem in terris” vedesse insieme testimoni, come Gorbaciov, per riflettere e parlare di pace. C’è bisogno urgente di respirare con quello spirito che animò Papa Giovanni quando scrisse questa bellissima enciclica, la prima diretta non solo ai fedeli ma a tutti gli uomini di buona volontà. Vorrei che qui a Terni, e in Umbria, in un momento così difficile della storia del nostro pianeta, potessimo riscoltare quelle pagine di Papa Giovanni. Certo, è mutata la situazione del mondo, ma restano in piedi i pericoli e i drammi di una possibile distruzione. Lo stesso Giovanni Paolo II ha ripreso il messaggio della Pacem in terris perché tutti possano operare per un nuovo ordine mondiale.
Quali sono i ricordi più importanti dei suoi primi contatti nell’Unione sovietica e le difficoltà di dialogo con il vertice?
Sono vari i ricordi. Potrei ricodare quando, dopo un primo diniego, riuscii ad andare con alcuni amici a Leopoli (in Ucraina) per trovare il vescovo Sternjuck, impedito nel suo ministero pastorale e costretto a fare l’infermiere. Mi opposero all’inizio secchi niet. L’intervento di Zagladin sbloccò la situazione. Mi permisero il viaggio, ma solo dalla sera al mattino. Pensavano che di notte non potevo far nulla. Andai invece a trovare questo vescovo. Lo trovai nella sua stanzetta (due metri per tre), “ospite” di una famiglia. Lui diceva: “questa è la mia cattedrale”. Ricordo la sua gioia nel vedere amici che venivano da Roma e che avevano fatto di tutto per andare a portare la solidarietà e il saluto del Papa.
In un’altra occasione, sempre nella seconda metà degli anni Ottanta, ebbi l’opportunità di una lunga discussione, insieme ad altri amici della Comunità di Sant’Egidio, con il Consiglio degli Affari Religiosi mentre si stava discutendo la legge sulla libertà religiosa. Otto ore di discussione dura e difficile nel corso della quale cercavamo di far comprendere l’importanza del diritto della libertà di coscienza e della libertà di culto. E toccai con mano la complessità nella situazione sovietica, con il al ministero degli Esteri, ad esempio, ben più aperto e disponibile rispetto alla struttura degli affari religiosi. Si trattava di due prospettive diverse all’interno dello stesso paese. Si comprendeva già da questo quanto fosse complesso il passaggio verso la libertà e quanto fosse necessaria la vicinanza dei paesi occidentali a questo paese in un momento così delicato e complesso.
I suoi viaggi all’Est, così come le iniziative della Comunità di Sant’Egidio, non si sono limitati al mondo sovietico. Più vicino a noi, tra l’Italia e la Russia, ci sono i Balcani con le loro tormentatissime vicende. In Albania, per esempio, quali furono e come furono i primi contatti con gli esponenti dell’allora regime?
In Albania il primo incontro dovetti farlo di notte e vestito non da prete. Per fortuna avevo con me un amico con una camicia e una cravatta, era peraltro rossa, ed andai in piena notte ad incontrare il segretario del comitato centrale del partito comnunista. E le cose cambiarono in un modo incredibile. Il giorno dopo fui ricevuto dal presidente della Repubblica, e ottenni immediatamente la riapertura del seminario. Molte altre cose si potrebbero dire riguardo all’Albania, ove anche la nostra diocesi sta svolgendo una sua opera di solidarietà. Altre se ne potrebbero aggiungere per il Kossovo, in particolare relativamente all’impegno per riconsegnare l’università e le scuole agli albanesi. Quest’anno consegneremo il premio San Valentino a Iibrahim Rugova, leader pacifista degli albanesi kossovari. E’ stato un uomo che ha guidato il suo popolo sui sentieri della non violenza per conquistare i propri diritti. Ricordo l’opera di convincimento per giungere alla firma dell’accordo (l’unico accordo scritto tra Milosevic e Rugova) sulle scuole, che prometteva un cammino pdi soluzione pacifica del problema kosovaro. Personalmente ho riconsegnato otto facoltà universitarie agli albanesi, più numerose scuole. La guerra ha travolto ogni tipo di processo. Non è questa la sede per esaminare questi avvenimenti, ma certo una lezione si può trarre da essi. Il dialogo, attento, tenace, fermo e appassionato, porta frutti copiosi, talvolta anche miracolosi.
Basti pensare a quanto, ad esempio, è accaduto in Mozambico. Il confronto, il dialogo, la pazienza nelle trattative hanno portato alla firma di un accordo di pace, dopo diciassette anni di guerra, un milione di morti e un milione mezzo di profughi.
La complessità dei Balcani mette da sempre a durissima prova chiunque voglia portare un contributo di pace. Lei ne sa qualcosa…
Racconto un episodio che può essere indicativo del clima. Quando si trattava di riconsegnare le facolta universitarie agli albanesi, gli albanesi volevano una università indipendente, appunto albanese; i serbi la volevano serba, perché il Kosovo era in Serbia. Dopo un lungo dibattito trovammo una soluzione “inglese”. Prendemmo un diploma dell’Università di Oxford che riportava in alto solo il nome della città. Proponemmo così ai serbi e agli albanesi di scrivere solo “Università di Pristina”. Ambedue accettarono e risolvemmo un problema che appariva insolubile e sul quale rischiava di cadere l’intero dialogo.
Questo per dire che talvolta è necessaria anche un po’ di simpatica furbizia. Ma è l’amore appassionato che suggerisce i modi per trovare soluzioni adeguate e accettabili. Per questo tutti, ciascuno nel suo piccolo, può lavorare per la pace, per l’incontro, per il dialogo: senza stancarsi mai. Ecco perché credo che all’inizio di questo nuovo millennio le piccole vicende a cui ho fatto cenno in questa inetervista, portano a dire che quando ci si incontra, quando si parla con franchezza e con disinteresse sempre si guadagna qualcosa. La distanza, l’ignoranza, l’indifferenza facilmente portano all’incomprensione e questa all’inimicizia e quindi al conflitto.
Il messaggio d’amore, per concludere, apre molte più porte di quanto si possa pensare…
Esattamente. San Valentino ci mostra che la passione per l’uomo nasce dal Vangelo, e non lascia mai indifferenti. E’ una passione che costringe a rivolgersi verso chi ha bisogno di aiuto, di sostegno, di conforto. Ma non è proprietà di qualcuno, ogni uomo e ogni donna di buona volontà deve vivere questa passione. La via dell’amore è una via non scontata, perché tutti siamo spinti a percorrere quella dell’egoismo, e richiede impegno e perseveranza. Tutti però possono percorrerla. Valentino ci mostra quanto sia forte l’energia del Vangelo per avviarsi sulla via dell’amore. Tutti però dobbiamo cercarla. Su questa strada, la strada dell’amore e della passione, ci troviamo gli uni accanto agli altri nel comune impegno per un mondo più giusto e più pacifico.
Terni, nel suo piccolo, si ritrova al centro di una grande scommessa: partecipare alla costruzione del ponte dell’Est o comunque del ponte verso chi ha bisogno, e che si aspetta solidarietà e un impegno forte per la pace.
La storia è anche questo. E’ importante aprire gli occhi e riflettere su quanto ci accade intorno. Anche i gesti piccoli, come quello che abbiamo compiuto con il viaggio a Mosca, aiutano a gustare la gioia delle cose belle e fanno scoprire la responsabilità che ciascuno ha di vivere nell’amore e di operare per la pace.