Intervento al sinodo valdese e metodista

Intervento al sinodo valdese e metodista

Cari sorelle e cari fratelli,


      permettete che mi rivolga a voi così; era il modo con cui il pastore Valdo Vinay iniziava le sue predicazioni del giovedì sera nella piccola chiesa di Sant’Egidio a Trastevere. Sento l’obbligo – un obbligo tutto personale – di ricordarlo in questa assemblea sinodale alla quale partecipo per la prima volta. Valdo è stato per me – giovane prete cattolico, all’inizio degli anni ’70 – un modello nella predicazione ed anche colui che mi ha fatto conoscere e stimare la Chiesa Valdese e la sua lunga e non facile storia per testimoniare l’Evangelo nel nostro paese.


      Commosso nel ricordo di questo fratello carissimo, ringrazio dell’invito a partecipare alla vostra Assemblea sinodale. E volentieri porgo a tutti voi il saluto del cardinale Camino Ruini, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana e dei vescovi italiani. Ho ascoltato con grande interesse gli interventi che ci sono stati sino ad ora. Ed ho cambiato il testo di saluto che avevo preparato perché il tema della “vocazione” di cui state discutendo in questa Sinodo non riguarda solo la Chiesa Valdese ma tutte le Chiese nel nostro paese. Nella sostanza tutti siamo chiamati ad interrogarci sull’essenziale delle nostre Chiese, ossia su come comunicare l’Evangelo agli uomini di questo nostro tempo. E non è questione di numeri di fedeli. Anche la Chiesa Cattolica Italiana ha scelto di fermare la sua attenzione, in questi primi dieci anni del nuovo secolo, appunto sulla necessità di “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”; è proprio questo il titolo di un documento pastorale che traccia le linee di riflessione per le diocesi italiane. Ogni generazione infatti ha bisogno di riascoltare l’Evangelo di sempre, ma con parole che siano ad essa comprensibili. E se pensiamo alle  giovani  generazioni,  voi  tutti comprendete  l’urgenza  e  la  complessità  di  una comunicazione che riesca a toccare il cuore dei giovani e li attragga al Signore. Sappiamo bene che cristiani non si nasce, lo si diventa. E oggi, di fronte ad un mondo che qualche studioso dice “uscito da Dio” e che appare in balia delle onde della guerra, del terrorismo, dell’ingiustizia, della fame e della paura, tutti dobbiamo chiederci come attrarre gli uomini verso l’unica Parola che salva. Credo che questa prospettiva, che voi avete posto al centro della vostra assemblea, sia anche quella entro la quale ricomprendere il cammino ecumenico.
      Ieri un fratello valdese di Torino mi chiedeva con qualche timore di imbarazzarmi a che punto fosse il cammino ecumenico. Gli ho risposto con una frase del pastore Paolo Ricca, ricca appunto di sapiente realismo. Il pastore parla di impasse. Dice: “Non si indietreggia, si vorrebbe andare avanti ma non si sa come”. Ed è anche vero – a mio avviso – che non è difficile oggi correre il rischio di porre nuovamente l’accento su quello che divide, accantonando l’innegabile cammino che si è fatto.  Ovviamente, non vanno sottovalutate le divisioni che ancora esistono, ne dobbiamo essere ciechi di fronte ai problemi teologici, storici, culturali, pastorali, psicologici ancora presenti. È certo però che il progresso fatto in questi ultimi quaranta anni, deve restare saldo. In tale prospettiva, noi cattolici ricordiamo i 40 anni della Unitatis redintegratio, il documento del Vaticano II sull’ecumenismo. Il cammino ecumenico di questi ultimi anni deve sprigionare ancora tutte le sue potenzialità. I molti eventi accaduti sono da comprendere ben più profondamente. Faccio solo due esempi. Il primo riguarda i cattolici e i luterani: forse dobbiamo ancora comprendere in tutta la sua portata storica il documento sulla Giustificazione firmato congiuntamente ad Augsburg nel  1999.  Sono passati,  da allora, esattamente cinque anni ed è bene fame memoria per auspicarne una rilettura approfondita. Ed anche la Charta Oecumenica, sottoscritta a Strasburgo nel 2001, deve trovare un maggiore impulso nell’attuazione. Non è questa la sede per discuterne, ma anche tra noi è forse necessario stabilire ulteriori impegni comuni. Penso, per fare un solo esempio, alla giornata per la difesa del creato, o anche all’impegno per la diffusione della Bibbia che mi pare però un campo già fecondo di iniziative  comuni.  Ricordo  a  tale  proposito  che  nel  settembre  prossimo,  a quarant’anni dalla Dei Verbum, la Federazione Biblica Cattolica terrà a Roma un convegno sul primato della Parola di Dio nella vita della Chiesa. Sono poi da promuovere ancor più nelle diocesi i Consigli delle Chiese cristiane già presenti in alcune di esse con ottimi risultati.
      Tanti altri possono essere gli ambiti in cui misurarci. Ma tutti si collocano all’interno dell’orizzonte della comunicazione dell’Evangelo alle donne e agli uomini di oggi. Nella predicazione di ieri il pastore Redalier ci ricordava che la ragione di vita delle nostre Chiese è la stessa di Zaccheo: “vedere chi è Gesù e comunicarlo”.  Va anche bene che ogni Chiesa salga sul suo albero. Ma non per sistemarsi bene, magari per paura di cadere. No, se dobbiamo salire sui nostri alberi è per “vedere meglio Gesù e per comunicarlo con efficacia”. L’invito di Gesù a scendere è comune a tutte le Chiese. Ed è lo stesso invito che mosse i grandi protagonisti dell’ecumenismo a scendere nel nuovo campo della fraternità tra le Chiese: cercare ciò che unisce prima di quel che divide.


      È quello che visse Giovanni XXIII aprendo il Concilio. È quel che mostrarono, dopo circa mille anni di lontananza. Paolo VI e Atenagora, con l’abbraccio, ricordato quest’anno da Bartolomeo e Giovanni Paolo II. Un abbraccio che in modi diversi si è ripetuto anche con altri responsabili di Chiese. E mi piace ricordare qui il dottor Subilia, osservatore valdese al Vaticano II, il quale incontrando Paolo VI gli disse: “È la prima volta, da cinquecento anni, che un valdese stringe la mano al Papa”. Sono gesti che hanno ammorbidito il clima, perché manifestavano un modo nuovo di guardarsi. Ed, in effetti, da quando i cristiani hanno imparato a guardarsi in modo diverso, si è avuta una svolta storica nei loro rapporti, prima impensabile. L’incontro tra i cristiani a partire da quel che unisce è stata e – credo debba restare – la via maestra dell’ecumenismo. E se oggi c’è qualche raffreddamento, – lo dico a livello generale – lo si può scorgere a partire dagli anni ’80, da quando cioè le Chiese hanno ripreso a camminare senza curarsi l’una dell’altra, magari in nome dell’identità confessionale che si temeva di perdere. 7Si potrebbe dire che quel che è avvenuto nel campo politico e civile, ossia il risorgere degli etnicismi di fronte al fenomeno della globalizzazione, abbia influenzato anche le Chiese.
  A mio avviso, la via dell’amore resta centrale nel cammino ecumenico. Essa non è una via laterale o parallela ad altre, ad esempio, a quella teologica; al contrario, è l’alveo che le fonda e le raccoglie tutte. Ovviamente parlo di quell’amore evangelico di cui Gesù ha detto: “Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici”(Gv 15, 13). È una via ampia, che chiede, oggi soprattutto, coraggio, creatività e audacia. Lo stesso dialogo teologico deve nascere all’interno di quello dell’amore,  altrimenti  rischia  la  sterilità.  Giovanni  Crisostomo,  a  proposito dell’amore, diceva che “è il più importante tra tutti i beni; è la loro radice, fonte e madre, e che se esso manca non v’è alcuna utilità degli altri”. E Agostino, parlando della verità, diceva che nel dirla, essa “appaia, piaccia e attiri” (pateat, placeat, moveat); non essa, infatti, ma la carità è scopo del precetto e pienezza della legge. Questo porterebbe a dire che non basta la formulazione corretta della fede, ovviamente necessaria, per unire le Chiese. C’è bisogno della carità, come ci dice l’Apostolo: “se possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla” (1 Cor 13,2).


      Se la carità si affievolisce è facile tornare a sottolineare quel che divide. Ecco perché l’ecumenismo va sempre più compreso nell’orizzonte dell’amore. L’amore evangelico, infatti, fa vivere già l’unità, in anticipo, malgrado le inadempienze e le imperfezioni. Nell’amicizia  c’è  già la dimensione  teologica  della  comunione.  Un’ amicizia, ovviamente, che non sia una parola vuota, ma rapporto personale fatto di fedeltà, di interesse e di attenzione per l’altro, di memoria anche dei problemi altrui, di conoscenza delle vicende altrui, e anche di perdono vicendevole. Quest’ amicizia fa superare le divisioni,  fa svanire i pregiudizi, brucia l’ignoranza e mette in comunicazione l’uno con l’altro. Essa da nuova forza al dialogo teologico e ne favorisce la ricezione, ma soprattutto consolida l’ecumenismo in un terreno più sicuro e permette il superamento di quei problemi concreti che continuano a presentarsi e che, altrimenti, rischiano di allontanare ancora una volta gli uni dagli altri. In tal senso la via dell’amore non è né irenica, né velleitaria, né ingenua; al contrario è quanto mai esigente e chiede a tutti di superarsi.
  Ecco perché l’allargamento dello spazio della carità deve divenire un impegno prioritario nella vita delle Chiese cristiane. Ed è un campo vastissimo nel quale è urgente ritrovarsi: si va dall’aiuto ai “nuovi poveri” nei paesi ricchi a quello per i paesi più poveri; dall’impegno per la giustizia a quello per il rispetto dei diritti umani, alla difesa della pace, che diviene sempre più urgente e che comporta lo sforzo per l’allargamento della solidarietà, e così oltre. La comunione tra i cristiani è lievito di fraternità per i popoli, così come la loro divisione lo è per i conflitti. È urgente far crescere nella coscienza dei fedeli delle nostre Chiese, la responsabilità di essere segno e strumento dell’unità della famiglia umana. C’è infatti un rapporto diretto tra l’unità tra le Chiese e l’unità tra i popoli. E questo non implica l’abbandono della missione. Al contrario, come diceva stamani l’amico pastore Eric Noffke di Temi, richiede, si potrebbe dire parlare anche di “proselitismo”. Magari tutti potessimo riempire tutte le nostre Chiese! Certo è però che la fraternità tra i cristiani è senza dubbio la base per una missione efficace, e nello stesso tempo è un’arma contro la crescita della conflittualità tra etnie, tra popoli, tra culture, tra religioni, tra civiltà. Possiamo dire che la pace tra i popoli è più difficile se le Chiese restano divise. Ecco perché la fraternità, e quindi l’ecumenismo, non è solo una questione intraecclesiale; è una sfida  per mostrare al mondo, che la convivenza tra i diversi è possibile; anzi, è la strada che Dio indica ai popoli. E questa fraternità si realizza nella vita di ogni giorno con la preghiera comune, con lo scambio fraterno, con la solidarietà vicendevole, con la comune passione per la comunicazione dell’Evangelo.


       Il  mondo  ha  bisogno  di  Chiese  che  siano,  certo,  numerose,  ma  anzitutto evangeliche, compassionevoli, piene di misericordia, piene d’amore. E quando siamo pieni di amore, è allora che possiamo comprendere quanto dice Paolo: “quando sono debole, è allora che sono forte”. Auguri di cuore, care sorelle e cari fratelli, perché voi  e noi possiamo rispondere, ancora una volta, all’invito di Gesù con le parole dell’apostolo Pietro: “Signore, sulla tua parola getteremo le reti”. Sono certo che allora l’ecumenismo ci impegnerà in modo nuovo: ci aiuteremo per raccogliere i frutti di una pesca miracolosa. Grazie e buon lavoro.