Intervento al convegno su “Giustizia e santità di vita”

Intervento al Convegno su Antonio Rosmini

SANTITA’  E  GIUSTIZIA


 Premessa



Ho accettato volentieri di partecipare a questo incontro di riflessione comune sulla “prima massima di perfezione” di Antonio Rosmini. Oltre l’amicizia che mi lega agli organizzatori, mi ha spinto ad accettare l’invito anche l’ammirazione che aveva per Rosmini un mio predecessore, Vincenzo Tizzani, vescovo di Terni, contemporaneo di Rosmini e noto studioso di storia ecclesiastica. Nei suoi scritti si leggono parole estremamente elogiative del filosofo di Stresa, sebbene si fossero incontrati una sola volta. Tizzani ricorda così l’incontro: “Il Rosmini era al mio fianco. Durante la mensa, non alzò mai gli occhi, meditò sempre e mangiò pochissimo. Poche parola di semplice cortesia ci scambiammo noi due. Io mi sentiva di non potere allontanare i miei occhi da quella fronte e da quella fisionomia, la quale mi ispirava ammirazione e venerazione senza saperne il perché. Da quel giorno non vidi più il Rosmini, né ebbi miaa relazione alcuna” (M.F.Mellano, Antonio Rosmini in una testimonianza di Mons.Tizzani (1882), in “Rivista della Storia della Chiesa in Italia”, 41 (1987), pp.490-491). Ebbene, vorrei idealmente inserirmi in quello sguardo di Tizzani si da non poter anch’io “allontanare i miei occhi da quella fronte e da quella fisionomia”. E sono particolarmente lieto di contribuire, almeno un poco, alla causa di beatificazione di Rosmini. E mi pare particolarmente opportuna questa iniziativa tesa a illustrare e approfondire il senso della santità come Rosmini la proponeva. Iniziare dalle “Massime di perfezione cristiana” significa avviarsi con il piede giusto.


Vorrei partire con qualche cenno generale sul testo. Rosmini aveva 33 anni quando lo scrisse. Era il 1830 ed era sacerdote appena da 9 anni; quindi piuttosto giovane, potremmo dire. E tuttavia l’autore teneva in grande stima questa sua piccola opera. Lui stesso scrive: “Stimo che non siano mai intese abbastanza, mai abbastanza discusse, meditate, sviscerate e in tutto osservate”, (Ep Ascet; I, p. 378). Noi, in certo modo, continuiamo l’auspicio dell’autore. E’ mia convinzione che le sue considerazioni hanno da dire molto anche ai credenti di oggi. Esse, infattti, si radicano in profondità nella lunga tradizione cristiana, a partire dallo stesso Vangelo. Rosmini giunge a scrivere: “Il librettino delle Massime di Perfezione non è che il succo del Santo Vangelo” (EC, VII, 16). Non spetta a me parlare dell’eco avuto da questo “librettino” nel corso dell’Ottocento e del Novecento, e delle 53 edizioni che si sono susseguite. Per l’Ottocento basti citare il Tommaseo, il quale – assieme a vari rilievi ribattuti, peraltro, dallo stesso Rosmini – scriveva all’autore: “Il libro vostro di Massime ha cose bellissime; e giova che in un mondo così degradato vi sia chi parli di perfezione cristiana, con semplicità veramente evangelica”(M. P. p. 291). Per il Novecento, con un salto di più di cento anni, troviamo il beato Giovanni XXIII che, nel Giornale dell’Anima, scrive: “Questa santificazione caratteristica mi viene indicata, qui a Castello, da una pagina e da una pittura. La pagina inattesa è un libricciuolo: “La perfezione cristiana. Pagine di ascetica” di Antonio Rosmini” (cit. p. 293).


 La perfezione cristiana


 Una prima riflessione da fare è proprio sulla perfezione. Ed è davvero sorprendente che in quegli anni Trenta Rosmini abbia avuto l’audacia di parlare della vocazione di tutti i cristiani alla perfezione. La Lezione I “Sulla vita perfetta in generale” inizia con affermazioni che ritroveremo solo nel Concilio Vaticano II, quando, appunto, i padri conciliari parlano della vocazione universale alla santità. Scrive Rosmini: “Tutti i cristiani, cioè i discepoli di Gesù Cristo, in qualunque stato e condizione si trovino, sono chiamati alla perfezione; conciossiacosaché tutti sono chiamati al Vangelo, che è legge di perfezione; e a tutti fu detto dal divino Maestro: “Siate perfetti, siccome il Padre vostro celeste è perfetto” (MP p. 33). Oltre alla freschezza del linguaggio, del tutto inusitato nel clima polemico e devozionistico dell’Ottocento, è senza dubbio sorprendente un tale invito alla perfezione. Non mi dilungo su questo punto ma penso sia importante sottolineare che erano secoli che la teologia e la spiritualità assegnavano solo ai “religiosi” o ai “monaci” lo “stato di perfezione”, lasciando ai laici la fatica di vivere (e di incontrarsi) in uno stato decisamente “inferiore”. Era il riflesso di quella ecclesiologia che definiva la Chiesa come “societas, perfecta, inaequalis”, ossia una società perfetta e strutturata nella distinzione tra clero e laici, gli uni chiamati ad ammaestrare e gli altri ad obbedire (cfr. l’enciclica di Gregorio XVI Provvidentissimus). Rosmini conosce bene, ovviamente, la differenza tra i religiosi, che professano i consigli evangelici, e i laici. Ma questo non gli impedisce di affermare che anche i laici in forza del battesimo – sarà proprio questo l’argomento portato dal Vaticano II – debbono tendere alla perfezione. Ebbene, che Rosmini potesse affermare la chiamata di tutti i battezzati alla santità suonava assolutamente fuori dal coro come del resto non poche altre sue affermazioni. D’altro verso il suo argomento è stringente e conseguente sino alla affermazione che il cuore della vita cristiana è la “perfezione d’amore”. Scrive Rosmini: “La perfezione del Vangelo consiste nella prima esecuzione dei due precetti della carità di Dio e del prossimo; di che quel desiderio e quello sforzo che fa l’uomo cristiano di essere portato con tutti i suoi affetti e con tutte le opere della sua vita totalmente in Dio, per quanto è possibile in questo mondo, essendogli stato imposto quanto segue: “Amerai il Signore Dio tuo in tutto il tuo cuore, e in tutta l’anima tua, e in tutta la mente tua”, ed “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (MP p. 33).


Da questa particolare tensione alla perfezione cristiana sgorga logicamente una seconda riflessione, che ci avvicina sempre più alla “prima Massima”. Mi riferisco al cosiddetto “principio di passività”, che Rosmini pone a fondamento non solo della sua vita personale ma anche dell’itinerario spirituale delineato per i suoi e per tutti i cristiani. E lo esprimo con un piccolo esempio. Rosmini, subito dopo l’ordinazione, non si diresse nella vita pastorale attiva, ma si ritirò nello studio e nella riflessione. Questo fatto mi ha fatto venire in mente una scelta analoga, quella di Gesù dopo il Battesimo: non iniziò subito la vita pubblica, ma si ritirò nel deserto. E aveva trenta anni. L’evangelista Luca scrive: Gesù “fu condotto dallo Spirito nel deserto”. Come a dire che non fu una sua scelta strategica, ma una sorta di violenza dello Spirito su Gesù. Insomma, lo Spirito guidava Gesù, e Gesù si lasciò guidare. Ecco cos’è, a mio avviso, il “principio di passività” proposto da Rosmini: essere “costretti” dallo Spirito. E’ ovvio che nella formulazione di questi principi Rosmini risenta delle fonti a cui si ispira. E penso ai vari autori consultati, come Sant’Alfonso, San Francesco di Sales, San Tommaso, Rodriguez, il card. Pallavicini Sforza, e soprattutto, Sant’Ignazio di Loyola. Rosmini scrive a tale proposito proprio: “Quell’aureo stato di indifferenza che raccomanda Sant’Ignazio, e che mise per fondamento dei suoi Esercizi, cioè di tutta la vita spirituale” (Quarta Massima nn. 18-20). Insomma, il nostro si lega a questo filone ignaziano, segnando tuttavia qualche novità. Il “principio di passività” non è né inoperosità né indifferenza, è piuttosto il lasciarsi guidare dallo Spirito che diviene Egli stesso “regola di condotta”, fonte di vita e di operosità. Insomma Rosmini sfugge alle secche del quietismo che aveva suscitato polemiche laceranti. Il “principio di passività” che egli propone non è un senso avaro e pigro di inazione, quanto piuttosto un forte senso di figliolanza di Dio o, se vuole, di assoluta dipendenza da Lui sino ad essere “tutto di Dio”. 



Essere giusto 


Ed è a questo punto che possiamo entrare nel cuore della prima Massima: “Desiderare unicamente e infinitamente di piacere a Dio, cioè di essere giusto”. Il termine “giusto” e, di conseguenza, anche la parola “giustizia”, in tale contesto acquistano un senso particolare che superano quello relativo al campo giudiziario, economico o sociale, tenuto presente da Rosmini nelle sue opere filosofiche. Nelle Massime di perfezione, mi pare che il temine “giusto” e “giustizia” siano come immersi  più nel sapore biblico-spirituale che in quello etico-giuridico. E tale senso lo rivedremo anche nei testi del Vaticano II. Insomma, anche da queste pagine emerge che l’albero rosminiano si radica nella Bibbia e nello stesso tempo proietta i suoi rami sino al Concilio Vaticano II. Come poi Rosmini, in un contesto ecclesiologico impoverito e polemico qual era quello dell’Ottocento e in un’atmosfera spirituale fiaccamente irrorata dalla Scrittura, abbia potuto concepire una dottrina spirituale così saldamente ancorata alla Scrittura e così fresca da ispirare ancor oggi i credenti, è la ragione della attualità di proporre questo figlio della Chiesa e del suo tempo all’attenzione universale come testimone di santità. Quel che sorprende nella prima Massima è l’identificazione che Rosmini opera di fatto tra giustizia, santità e perfezione. I tre termini coprono in verità lo stesso campo semantico, lo stesso spazio spirituale. Scrive Rosmini: “E perchè nell’ossequio e gloria che si dà a Dio consiste la santità dell’uomo, la perfezione del cristianesimo importa una tendenza a conseguire la maggiore Santità possibile” (MP p. 37).


Come poc’anzi accennavo, la giustizia che Dio chiede all’uomo – secondo Rosmini – non è sul piano della giustizia distributiva, bensì in quello di una continua tensione a superarsi o, come scrive Rosmini a “diventare ancor più giusto, ognor più buono”. Si tratta, infatti, di tendere a Dio e alla sua giustizia. La giustizia pertanto non consiste in una sorta di pareggio di conti tra Dio e l’uomo, quanto nel tendere incessantemente dell’uomo verso Dio o, se si vuole, nell’essere sempre più figlio. Direi, quindi, che più siamo figli di Dio, più siamo giusti, quindi santi. In tale prospettiva, pertanto, non si potrà mai raggiungere una giustizia tra l’uomo e Dio, proprio perché tra l’uno e l’altro vi è una distanza incommensurabile. E l’unico rapporto possibile è quello della totale dipendenza, come quella di figlio a Padre. E se volessimo prendere il termine giustizia come “dare a ciascuno ciò che gli è dovuto”, dovremmo dire che l’unica giustizia per l’uomo è la tensione verso verso Dio, senza mai appagarsi, senza mai fermarsi. Insomma, l’uomo è giusto se si immerge in Dio. Si potrebbe dire: “totus tuus” e più ancora. E’ significativo, in tal senso, questo passaggio di Rosmini: “E poichè ciò che rende cari a Dio è la giustizia, perciò conviene che il cristiano addimandi incessantemente di diventare ognor più giusto, ognor più buono. In questo egli ha bisogno di essere insaziabile e incontentabile, dimandando sempre più e più, colla maggior fiducia di essere tanto più caro a Dio, quando a Lui dimanderà questo; confortandosi in quelle parole: “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perciocchè saranno satollati” (Ivi p. 37). Da queste premesse è facile per Rosmini tendere verso una identificazione della giustizia con la carità o, se si vuole, con la misericordia. Scrive: “Deve adunque il discepolo tanto desiderare di giustizia, fino che si avveri che sia consumato nella carità, e non viva più egli, come dicea l’Apostolo, ma viva in lui Cristo” (Ivi p. 38). La giustizia, insomma, è la pienezza della carità. Non è solo un caso perciò che il nostro metta la giustizia come fine, e non come mezzo, nella vita spirituale.



Dio, Padre di giustizia e di misericordia 


Vorrei ora fare qualche cenno alle radici bibliche di questo pensiero e nello stesso tempo a legarlo all’attuale riflessione teologico-spirituale. C’è anzitutto da approfondire il rapporto tra paternità di Dio, giustizia e misericordia, temi che mi paiono interni alla prima massima di Perfezione. L’ispirazione biblica dell’impianto rosminiano non gli viene dagli studi esegetici, che comunque a quell’epoca erano ben rari soprattutto nella Chiesa Cattolica, quanto da quell’intuito spirituale ch’è proprio degli uomini carismatici, ossia di coloro che sono guidati dallo Spirito Santo, che è il vero autore della Bibbia e che quindi colgono, per affinità, il senso delle Scritture. Quando Rosmini parla del cristiano perfetto come “giusto”, senza avere il bagaglio esegetico adeguato, si lega al termine “giusto”  inteso come titolo messianico, che nel Nuovo Testamento viene affiancato anche a “Santo”. Il Messia è definito giusto e santo perchè in Lui tutto corrisponde alla norma del volere divino. E la verità di Gesù, che è quella verso cui ogni discepolo deve tendere, è fare la volontà piena di Dio che è padre, giusto e misericordioso.


Nella tradizione biblica compito di Dio è stabilire la giustizia. Va subito notato che la distinzione, ancora oggi diffusa, tra un Dio giusto (qualcuno direbbe anche giustiziere e castigatore) dell’Antico Testamento e un Dio buono e misericordioso del Nuovo Testamento è assolutamente lontana dal testo biblico. C’è, in verità, una progressio svelamento della profondità del senso della giustizia. Basti pensare al cammino che la Bibbia fa compiere alla giustizia intesa come legge del taglione (occhio per occhio, dente per dente), dato peraltro per ammorbidire la durezza di comprensione del popolo d’Israele, alla giustizia intesa come amore e perdono dei Vangeli. E il tutto si spiega a partire dalla paternità assoluta di Dio. Un esame attento dei testi mostra che Dio vive la paternità come attuazione della giustizia e della misericordia. Insomma, così Egli agisce nella storia. Ma tale giustizia di Dio non si stabilisce in base alla semplice equità. Nella Bibbia, che pure non rifiuta di utilizzare il linguaggio umano e le idee diffuse nella cultura, si sviluppa progressivamente una concezione di giustizia originale.


Nei testi legislativi riguardanti la vita della società, spesso la giustizia viene presentata nel suo non attuarsi, ossia nella pratica dell’ingiustizia. Soprattutto i testi profetici, ma anche molti salmi, sono concepiti come una denuncia o un appello a Dio per la mancanza di giustizia. Ed è proprio in questo ambito che Dio esercita la sua paternità. Nelle pagine della Scrittura sono frequenti le affermazioni dei codici legislativi e delle preghiere che esprimono un’esigenza di giustizia affidata appunto alla divinità, per la consapevolezza del fallimento o del limite umano nell’attuarla. Un esempio ci è dato dal salmo 68. Non è certo tra i più facili sia dal punto di vista testuale-filologico che della struttura. Accenno solo agli elementi collegati con il tema della giustizia in rapporto alla paternità. Dio appare come giudice: al v.1 lo si invoca perché si alzi (qum), tipico atteggiamento del giudice in atto di emettere la sentenza. La conseguenza (vv.3-4) è: la distruzione dei malvagi (resa’im) e la gioia-salvezza dei giusti (saddiqim). A questa situazione introduttiva, una sorta di giudizio anticipato nella preghiera, segue il corpo del salmo, che inizia e si conclude con l’invito alla lode (v. 5: cantate-inneggiate-spianate la strada-gioite; v.33: cantate-inneggiate). Il salmo si chiude descrivendo la conseguenza dell’azione di Dio: la teofania e la proclamazione della benedizione (vv.34-36: tuono-potenza-maestà-terribile-tempio-sia benedetto Dio).


Subito dopo l’invito alla lode, il v.6 introduce il tema della paternità divina: “Padre degli orfani e difensore delle vedove è Dio nella sua santa dimora”. Il versetto, assieme a quello seguente,  appare quasi avulso dal contesto. Infatti, ad esso segue la memoria della grande opera salvifica di Dio nei confronti del suo popolo, celebrata nelle sue diverse tappe. Qual è la funzione dei versetti 6-7? Essi, proprio per la loro collocazione, devono ritenersi fondamentali per la comprensione del salmo e di tutta l’opera di Dio, che ha mostrato nella storia la sua misericordia nei confronti del suo popolo. Il fondamento di quanto è avvenuto e di quanto è celebrato nel salmo è proprio la paternità di Dio verso i poveri e quindi la sua giustizia che si attua nei loro confronti. Orfano e vedova, assieme all’immigrato (ger), rappresentano la triade delle persone deboli in molti testi biblici soprattutto di origine deuteronomista. Le altre due categorie sono più rare. “Solitario, derelitto” (yahid) compare in questo senso solo nel Sal 25,16, dove è in parallelo con “povero” (‘ani). Per “prigioniero” (‘asir) vedi soprattutto Zac 9,11-12 e Sal 69,34. In quest’ultimo testo i prigionieri sono citati con gli “indigenti” (‘ebyonim). Insomma, la paternità di Dio si realizza innanzitutto come giustizia nei confronti dei poveri. Non si dice chi siano i poveri e a chi appartengano. Certo sono parte della società in cui vive Israele. Ma come nel caso degli immigrati del Deuteronomio possono essere in origine anche non israeliti. Nei testi la conseguenza immediata è che Dio è il giudice che attua la giustizia. Ma parlando di Dio giudice non si deve pensare all’immagine di un Dio pronto a punire gli uomini per il peccato. Nell’Antico Testamento Dio è giudice in quanto è colui che realizza la giustizia nel mondo, e questo talvolta comporta anche l’eliminazione dei malvagi. Il linguaggio è impregnato di termini relativi all’azione giudiziaria di Dio. E i destinatari della giustizia divina sono, come hio già detto, i poveri: oppressi, affamati, prigionieri, ciechi, umiliati, giusti, immigrati, orfano, vedova, misero (dal), povero (‘ani, ras), indigente (‘ebyon). Essi sono sempre in opposizione ai malvagi (resa’im) (Dt 10,18; Sal 82,3-4; 146,7-9).


 Dio, padre dei poveri 


La verità di Dio come Padre e creatore, si manifesta pertanto in un atto del tutto gratuito di giustizia nei confronti dei poveri. Per costoro la giustizia di Dio non si manifesta come l’applicazione di una legge o di una scelta di equità, bensì come amore, come preoccupazione concreta per la loro vita che diventa nutrimento, liberazione, guarigione, salvezza. Dio dà a ciascuno secondo il suo bisogno. Non si tratta pertanto di una giustizia distributiva o retributiva. Dio distribuisce secondo i suoi criteri, perché la sua giustizia è amore che dà secondo il bisogno. Non è una giustizia che consegue a meriti (non se ne parla nei testi, come non si parla di poveri santi o buoni o cercatori di Dio). Sono poveri e basta. La proclamazione della giustizia di Dio nei confronti dei poveri è l’inizio del superamento dell’idea di giustizia come necessità della condanna del malvagio, elemento che ancora permane nei nostri testi.


Uno di caratteri distintivi dei testi biblici rispetto a quelli del Vicino Oriente Antico è che la peculiarità della paternità di Dio come giustizia incide radicalmente sul rapporto uomo-Dio, quindi sul costituirsi della fede di Israele. L’uomo non può accedere a Dio se non compie la giustizia nei confronti dei poveri, allo stesso modo e nella medesima misura di Dio. La giustizia nei loro confronti è talmente parte della natura paterna di Dio che non esiste culto, non esiste accesso a Dio che attraverso di essa. Nei testi profetici emerge cosa significa attuare questa giustizia. I primi capitoli di Isaia, e alcuni testi di Amos, sono i più espliciti. In Is 1,10-20 e 1,21-26 Dio ripudia un popolo e una città che abbondano in atti cultuali, ma non operano il bene e la giustizia nei confronti dei poveri. In Is 1,17 il testo stabilisce un chiaro parallelo tra “imparare a fare il bene” e “cercare il diritto” (mispat), cioè attuare la giustizia nei suoi aspetti concreti. Poi il testo continua quasi volendo dare un contenuto all’esortazione iniziale: “aiutate l’oppresso, realizzate il diritto (mispat) dell’orfano, difendete la causa (ribu) della vedova”. Quando Isaia dice che costoro sono “della stessa carne”, vuol significare che sono membra della tua famiglia (cf. Gen 2,23; 29,14; 37,27; Gdc 9,2; 2Sam 5,1; 19,13ss). Il profeta Isaia propone addirittura un salto di qualità nel rapporto con i poveri: se Dio è Padre di giustizia, l’attuazione della giustizia nei confronti dei poveri rivela l’esistenza di un rapporto del tutto singolare con essi (Is 58). La paternità di Dio li rende parte di un’unica famiglia, li rende fratelli di un unico popolo. In questo senso la giustizia si trasforma in un nuovo modo di concepire il rapporto con il povero, a partire dalla paternità di Dio. Essa si riversa quindi nello stesso amore che si deve avere per i membri della propria famiglia. Is 58,1-12 ci conduce nel dire che lo scopo della paternità giusta di Dio è quello di creare tra gli uomini un rapporto con la fraternità. E in questo la storia di Giuseppe (Gen 37-50) esprime con grande chiarezza il legame tra questi due aspetti essenziali dell’esistenza umana. Uno degli aspetti più interessanti del racconto di Giuseppe sembra essere proprio la ricostruzione della fraternità e della paternità. I fratelli, separati dall’amore paterno, si scontrano e si odiano, fino a meditare la morte di uno di loro. Ma, dice Giuseppe, “se voi avete pensato del male contro di me, (Dio) ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso” (Gen 50,20). Il piano di Dio è ricostruire la famiglia umana disgregata dal peccato fin dall’uccisione di Abele. In una società senza padre, anche la fraternità è messa radicalmente in discussione. Dio interviene muovendo le maglie sconosciute della storia perché quei fratelli si ritrovino e si riconoscano nell’unità di un solo padre, Giacobbe. In questo senso Dio è rivelatore di una paternità giusta, che vince la condanna e la vendetta che albergano anche nel cuore di Giuseppe, il giusto, per arrivare alla riconciliazione. Giuseppe, il povero e il giusto, ritrova lo scopo della sua esistenza non negli onori dell’Egitto, ma nella famiglia ritrovata. Il cammino verso la ricostruzione passa attraverso il bisogno dei fratelli e il riconoscimento della loro ingiustizia.


 Non c’è giustizia senza perdono 


Ed è in questo contesto che si realizza un altro rapporto, quello della giustizia e del perdono. Non abbiamo il tempo per discuterlo. L’affermazione di Giovanni Paolo II: “Non c’è giustizia senza perdono”, è particolarmente pregnante. Il papa afferma: “Ma poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com’è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati. Ciò vale tanto nelle tensioni che coinvolgono i singoli quanto in quelle di portata più generale e internazionale”(3). Giovanni Paolo II ribadisce che non solo non c’è opposizione tra perdono e giustizia; c’è anzi una necessaria relazione. Già gli antichi in verità affermavano: “Summum jus, summa iniura”. I due termini, perdono e giustizia, in questo contesto, vanno compresi nel loro senso più profondo che va ben oltre quello del codice civile o del codice penale. Si tratta di cogliere cioè la profondità e la complessità della rete delle relazioni che si stabiliscono tra gli uomini: la giustizia  è una dimensione della convivenza umana che va oltre una fragile e temporanea cessazione delle ostilità per significare, invece, il risanamento, che avviene appunto anche attraverso il perdono, delle ferite che dividono e insanguinano i popoli e le persone. Insomma, per sanare in profondità le ferite che hanno lacerato la convivenza tra gli uomini, sono indispensabili sia la giustizia che il perdono.


E’ esemplare quanto è accaduto ad esempio in Sud Africa dopo la cessazione dell’apartheid, per evitare vendette e ritorsioni tra individui, famiglie, gruppi. Fu costituita una apposita commissione per accogliere le confessioni dei responsabili dei crimini in cambio del perdono. L’esperienza è narrata da Desmond Tutu nel volume Non c’è futuro senza perdono. Si trattava di sanare in profondità le colpe attraverso l’ammissione della colpa. C’era una pensiero dietro tale iniziativa. Scrive Tutu: “Noi siamo intessuti in una fitta rete di interdipendenze: come diciamo con un’espressione africana, una persona è persona attraverso le altre. Disumanizzare l’altro significa inevitabilmente disumanizzare se stessi… Perciò perdonare è davvero il modo migliore per fare l’interesse di ognuno, mentre la rabbia, il rancore e la vendetta sono corrosivi, distruggono il summum bonum, il più alto dei beni: quell’armonia collettiva che all’interno della comunità accresce l’umanità e la fratellanza di tutti i suoi membri” (p.33). Potremmo dire che in Sud Africa si realizzò un processo di giustizia attraverso la confessio peccati e il successivo perdono. E’ ovvio notare che si trattava di un procedimento particolare per una situazione del tutto congiunturale. Non di  meno ha manifestato quel particolare rapporto che si può e si deve instaurare tra perdono e giustizia.


Scrive ancora il papa: “Le famiglie, i gruppi, gli Stati, la stessa Comunità internazionale, hanno bisogno di aprirsi al perdono per ritessere legami interrotti, per superare situazioni di sterile condanna mutua, per vincere la tentazione di escludere gli altri non concedendo loro possibilità di appello. La capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale”( Messaggio…n.9). Sono parole certamente coraggiose e piene di sapienza evangelica. Ma, come prima accennavo, esse indicano anche l’unica via percorribile per una pace stabile e duratura. Del resto è facile capire che se la soluzione delle ferite viene affidata alla vendetta, ossia al pareggio della bilancia, ci si immette in una spirale drammatica che continuerà ininterrottamente ad approfondire le ferite non certo a sanarle. Giovanni Paolo II esplicita una delle spirali viziose di questo atteggiamento: “Il perdono mancato, quando alimenta la continuazione dei conflitti, ha costi enormi per lo sviluppo dei popoli. Le risorse vengono impiegate per sostenere la corsa agli armamenti, le spese delle guerre, le conseguenze delle ritorsioni economiche. Vengono così a mancare le disponibilità finanziarie per produrre sviluppo, pace e giustizia”(Ivi, n.9). E, sconsolato, aggiunge: “Quanti dolori soffre l’umanità per non sapersi riconciliare, quali ritardi subisce per non saper perdonare! La pace è la condizione dello sviluppo, ma una vera pace è resa possibile soltanto dal perdono” (Ivi, n.9).


E’ convizione comune nella Bibbia, ad esempio Isaia 58, che non esiste una fraternità in cui anche i poveri non siano fratelli della comunità. E’ a dire che non esiste una società saldamente costituita se non si pratica la giustizia nei loro confronti. La preoccupazione per loro è un atto di giustizia, che deriva direttamente dalla paternità divina. Ma la giustizia di Dio, come abbiamo visto, ha il sapore della carità e dell’amore, perché si sostanzia direttamente dal mistero della paternità divina. Molti sarebbero i testi neotestamentari che sostengono questa interpretazione. Mi riferisco solamente a quella stupenda affermazione della lettera di Giacomo: “Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo.” (Gc 1,27) Riecheggiano in queste parole i testi profetici dell’Antico testamento. Con Gesù Cristo si manifestano pienamente la giustizia e l’amore di Dio. E gli uomini saranno giudicati su questo, ossia sull’amore: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare”. Chi pratica questa “religione” sarà benedetto dal Padre, che lo accoglierà nel regno dei cieli, realizzando così quella giustizia piena di amore che lo contraddistingue.



La “via” dell’amore  


Il passo di Matteo mostra la via universale alla perfezione: la via dell’amore. E’ una “via” larga e antica. Dio l’ha percorsa per primo. L’immagine che emerge dalle Scritture è quella di un Dio che si manifesta appunto come un movimento d’amore. Bella l’interpretazione di Rosenzweig sul rapporto tra creazione e rivelazione. Dice il filosofo ebreo: dopo la creazione, intesa come prima rivelazione di Dio (amante) all’uomo (amato), c’è n’è stata una seconda, più gratuita della prima, se così si può dire. Il creatore avrebbe potuto tornare nel nascondimento, ma non l’ha fatto. Ha scelto, invece, di restare nel perenne presente della rivelazione, e l’ha fatto attraverso l’amore: “Così la prima rivelazione…esige l’irruzione di una “seconda” rivelazione, di una rivelazione che non sia altro che rivelazione, di una rivelazione in un senso più stretto, anzi, nel senso più pieno del termine”. Questa seconda rivelazione ha bisogno dell’amore dell’amante, di un amore inteso non come semplice attributo, ma come evento. E spiega Rosenzweig: “Dio ama” non vuol dire che l’amore inerisce a lui come un attributo, come ad esempio la potenza creatrice. “Dio ama” è il più puro presente: l’amore stesso non sa se mai amerà, anzi neppure sa se ha mai amato. Gli è sufficiente sapere una cosa sola: che ama. L’uomo diventa l’altro polo della rivelazione – e questa è la sua giustizia – e su di lui si riversa l’amore divino: “In questo modo l’anima raccoglie l’amore di Dio”(F. Rosenzweig, La stessa della redenzione, Genova 1985). E di qui – nota il filosofo ebreo – si comprende quanto la redenzione dell’uomo dipenda dalla pratica dell’amore del prossimo. Agli uomini è chiesto di scegliere questa via. Essa tuttavia non è prefabbricata; va continuamente costruita. E tutti debbono costruirla percorrendola, credenti e non credenti.


Larga è la “via amoris”. Ed è senza dubbio quella che maggiormente può accomunare gli uomini. Vattimo scrive: “mi è capitato altrove di notare come lo stesso termine “carità” abbia ritrovato di recente, in modo imprevisto ma non per ciò meno significativo, una cittadinanza nella filosofia”. Rosmini in verità l’aveva già fatto. La “caritas” è il cuore stesso della vita. Si potrebbe dire che la carità, pur essendo il senso ultimo della rivelazione, non ha però quel peso di perentorietà da principio della metafisica che fa cessare ogni domanda, anche se possiamo aggiungere che trova forse il suo riposo nella contemplazione della Verità: “non intratur in veritate nisi per charitatem” (S. Agostino). Mi chiedo se questa intuizione di Agostino non offra anche una indicazione di metodo. E mi spiego: non può essere proprio la pratica dell’amore la via che il pensiero contemporaneo deve percorrere per giungere alla riscoperta dell’essere? Non può essere proprio la “via amoris” quella che oggi con maggior facilità, non esclusività, conduce il pensiero umano a cogliere nuovamente la Verità? Bonaventura lo affermava per Francesco d’Assisi: “E’ quanto è stato mostrato al beato Francesco, quando nell’estasi della sua contemplazione…egli passò in Dio… Perché questo passaggio sia perfetto, è necessario lasciare da parte ogni attività intellettuale, per trasfondere e trasformare in Dio tutto il vertice dell’affetto”. Ritorna la via mistica o, se volete, la via della santità. E riguarda sia i cerdenti che i non credenti. Camus affermava che la questione della santità era l’unico affare serio che egli conoscesse. E la sua domanda era: “può un ateo essere santo?” o meglio: “Come un ateo può diventare santo?”. E noi potremmo aggiungere: “giusto”? 


Nella tradizione cristiana l’agape, cuore della vita del credente, è superiore a tutte le virtù. Per gli antichi pensatori cristiani l’agape è Dio stesso che si comunica al mondo. “L’amore di Dio è infinitamente gratuito: da qui il senso di stupore, da qui l’accento di lode che ha la pietà dei primi fedeli che hanno accolto il dono di Dio. L’amore di Dio è divinamente efficace: rinnova il volto del mondo. Un senso di freschezza e di libertà e di forza incontenibile, di gioia prorompe da questi cuori nei quali inabita Dio. Soprattutto l’amore di Dio si rivela nell’universalità di una salvezza che è offerta a ciascuno, che anzi già in qualche modo raggiunge gli estremi confini, e non salva più soltanto qualcosa, ma ogni cosa, perfino la carne nella promessa della risurrezione futura”, sintetizza Barsotti. Non c’è nulla al disopra dell’amore: né la profezia della tradizione ebraico-cristiana; né l’ineffabile lingua degli angeli, quella che estasiava i Corinzi; e nemmeno la speranza; e neppure la conoscenza, la quale in questo mondo è così misera sì che conosciamo Dio solo confusamente, come attraverso uno specchio, dentro “enigmi”. L’amore è superiore persino alla fede. San Paolo scrive: “Se avessi tutta la fede tanto da poter trasportare i monti, ma non avessi l’amore, non sarei nulla”. Tutto passerà, anche la fede e la speranza. Al termine resterà solo l’amore. E’ la dottrina che Rosmini ha proclamato e vissuto in prima persona.