Incontro Nazionale Acli Perugia – Per un’Italia interculturale

                                            Per un’Italia interculturale

Sono passati esattamente nove anni dall’11 settembre. La distruzione di quelle due torri resta una ferita emblematica che segna l’inizio del nuovo millennio in maniera fosca e drammatica. E’ la dimostrazione di dove porta lo scontro tra le civiltà, ossia di chi vuole l’instaurazione di un monismo culturale che non tollera l’altro diverso da sé. E la globalizzazione, se non guidata, può favorire questa tentazione. In maniera opposta, ma analoga quasi a sostenersi a vicenda, si staglia il parallelismo culturale, ossia mondi che non si incontrano e quindi destinati, allorché occupano uno stesso spazio, a configgere per elidersi. Nessuna delle due visioni comunque risponde alla vocazione profonda dell’umanità: la convivenza pacifica tra diversi. Per questo la pluralità è una ricchezza non una condanna. E possiamo comprendere in questo orizzonte quella che nel titolo viene indicata come “inter-culturalità”, che significa appunto diversità compatibili attraverso la fatica dell’incontro e del dialogo.
Questa vocazione è iscritta nel “crollo” di un’altra torre, quella di Babele, come raccontata il libro della Genesi al capitolo 11. Normalmente tale pagina viene interpretata come un intervento di Dio che punisce gli uomini con la dispersione. In verità l’intervento di Dio è per evitare il monismo culturale che sta in agguato sin dalle origini della vicenda umana. Scrive l’autore sacro: “Si parlava un’unica lingua… E – si dissero l’un l’altro – ci faremo un nome e non accadrà che ci sparpaglieremo sulla faccia di tuta la terra”. Ma ecco che interviene il Signore che vuole infrangere il sogno monoculturale: “Orsù, scendiamo e confondiamo la loro lingua, sì che uno non comprenda quel che dice l’altro. Il Signore li disperse sulla faccia della terra, e così cessarono di fabbricare la torre”. E si crea così la molteplicità delle culture e dei popoli. Per iniziativa di Dio stesso.
E’ una lettura di Babele che oggi appare particolarmente importante. L’autore sacro – che era un credente ebreo – vuole affermare che il Dio della Bibbia non è solo il Dio di Israele, ma di tutti di tutti i popoli, di tutta l’umanità. La conseguenza – che appare in Isaia e nell’intera tradizione cristiana – è che il fine della storia umana si staglia come il raduno di tutti i popoli attorno all’unico Dio. Tutti i popoli infatti sono radicalmente fratelli perché tutti creati dall’unico Dio e Lui chiamati a tornare. Non importa se di questo ne hanno o non coscienza. Ma far emergere tale coscienza è il compito affidato da Dio ad Israele e ai cristiani. Nessun popolo pertanto è cattivo. Certo, tutti però possono essere tentati dalla prevaricazione e quindi dal conflitto. Ed è l’istinto monista, frutto del peccato, a inquinare la convivenza umana. Altro è il disegno di Dio. Insomma, la pluralità delle culture è iscritta nelle Scritture ebraico-cristiane. Coloro che pensano alla purezza di una cultura da difendere da ogni incontro vivono il sogno opposto a quello di Dio. E quindi vano incontro alla sconfitta. La globalizzazione deve tener conto pertanto della pluralità dei popoli e delle culture. Certo, esiste la questione dello scontro tra le stesse culture. Ed è un’ipotesi tutt’altro che astratta. Conosciamo bene le tesi di Samuel Huntington.
Non c’è alternativa credibile alla “interculturalità”, ossia a quel processo di integrazione e di arricchimento reciproco tra le diverse culture che prevede non il reciproco annullamento, ma l’arricchimento nell’incontro e nel dialogo. E gli uomini di religione sono chiamati ad aiutare tale incontro. E tra tutti, i cristiani in particolare. Il cristianesimo, infatti, ha iscritto in se stesso la capacità di fermentare le culture, di metterle in dialogo, di favorirne l’arricchimento. La storia dimostra tale capacità. Per questo in un mondo globalizzato i cristiani sono invitati dalla loro stessa fede ad evitare ogni monismo e a favorire l’incontro che eviti disgregazione e violenze. L’icona della Gerusalemme a Pentecoste è emblematica. In quel giorno i rappresentanti dei popoli della terra, presenti in quella piazza, ascoltarono lo stesso Vangelo ciascuno nella propria lingua nativa. Gerusalemme: icona dell’incontro e della pace tra i popoli.
Molti si chiedono invece se la religioni, che peraltro si iscrivono fortemente nell’identità dei popoli, non siano purtroppo motivo di conflitto piuttosto che di pace. Gli interrogativi si susseguono: la loro esclusività non è una riserva di intolleranza? non sono destinate a contrapporsi, come i diversi fondamentalismi suggeriscono? come possono parlare di pace, quando le loro stesse divisioni impediscono loro persino di incontrarsi? non è allora auspicabile la creazione di una religione universale comune a tutti, una sorta di religione globale che assorba e attutisca le diverse identità? O non è da auspicare la fine delle religioni, magari respingendole verso il privato? Non si auspica che i credenti agiscano nel pubblico “come se Dio non ci fosse”? E così oltre.
Il discorso si farebbe lungo, ma è si deve chiarire immediatamente che impercorribile qualsiasi tentativo di promuovere una sorta di comune denominatore delle religioni. E tantomeno è percorribile quella della loro scomparsa. La storia sconfessa ambedue le ipotesi. Resta la via dell’incontro e del dialogo. Ed è una delle frontiere del nuovo millennio che richiede però una vera e propria strategia. In tale orizzonte non si deve chiedere l’indebolimento delle identità dei “credo”. Al contrario, l’identità va salvaguardata; è anzi condizione essenziale del dialogo. Ho potuto constatare, nella esperienza della Comunità di Sant’Egidio che ogni anno organizza incontri internazionali tra i responsabili delle grandi religioni mondiali, che più si va al fondo della propria fede, quindi più si comprende la propria identità, più si riesce a comprendere la posizione e la ricchezza altrui. Questo sta a dire che il dialogo fa guardare oltre i propri confini e permette di comprendere se stessi e gli altri. Le due dimensioni da salvaguardare sono l’identità e la pluralità. Non si tratta di un generico “embrassons nous”, ma di una strategia di vita. Se pensiamo alle tensioni e ai conflitti che oggi tormentano lo scenario internazionale, i quali peraltro vanno di pari passo con chiusure e ripiegamenti su se stessi, direi che il dialogo deve accelerare il passo, deve divenire una condizione permanente sino a caratterizzare la stessa esistenza come esistenza dialogale. E’ il modo per far crescere la convivenza tra gli uomini, e forse per farla semplicemente sopravvivere.
Tornano più che attuali queste parole pronunciate da Martin Buber a Berlino nel 1929 davanti a un uditorio di personalità sioniste pochi giorni dopo che decine di ebrei erano stati barbaramente massacrati da alcuni arabi a Hébron: “In Palestina, noi non abbiamo mai vissuto con gli Arabi, ma accanto a loro. La coabitazione di due popoli sulla stessa terra diviene fatalmente opposizione, se non si sviluppa nella direzione di un essere-assieme. Nessun cammino permette di tornare ad una pura e semplice coabitazione. E’ invece ancora possibile incamminarsi verso lo “stare assieme”, anche se numerosi ostacoli si sono accumulati su questa via”. Queste stesse identiche parole potremmo applicarle al Belgio, all’Italia, ai vicini Balcani, all’Irlanda del Nord, alla Spagna, alla Turchia, alla Cecenia, al Congo, e a tante altre regioni del mondo.
Dicendo esistenza dialogale sottolineo che il dialogo non è semplicemente un metodo nel rapportarsi tra le persone, tra i popoli e tra le nazioni, bensì un modo di vivere e quindi di relazionarsi. In tal senso il dialogo (è in questo orizzonte che va intesa l’interculturalità) non è una tecnica ma un’arte che richiede pazienza e saggezza, fermezza e tolleranza, curiosità e ricerca. E’ una vera e propria rivoluzione culturale. E’ una via lunga, spesso poco visibile, certamente faticosa, ma è decisiva. Essa invita a riconoscersi plurali fin nelle proprie radici, ad accettarsi cioè come persone abitate da una vita in cui lo scambio è la manifestazione primaria. Una parola che non entra in relazione con le altre, in tal senso “mono-logale”, si isterilisce e perde il suo stesso statuto relazionale. Al contrario, la parola “dia-logale”, che forse corre il rischio di essere tirata sin quasi a perdere i suoi confini, non si dissolve, anzi si arricchisce. Pertanto, le diverse identità si costringono ad una complementarietà ricca e fruttuosa perché l’apertura all’altro obbliga a ridefinirsi costantemente. L’identità non è chiusa e bloccata. E’ sempre plurale. Potremmo allora dire che ogni religione diviene sempre più un pensiero interreligioso, proprio perché la delimitazione della propria identità richiede il riconoscimento dei confini altrui. Nessuna identità è possibile senza il confronto e il dialogo con le altre. E questo sconfigge in radice ogni totalitarismo religioso, ogni fondamentalismo. Essi sono tali, infatti, quando si sentono talmente gratificati della pienezza della verità da non avere più il bisogno dell’altro o da non avvertirne la mancanza.
E’ in questa prospettiva che vorrei spendere una parola sulla “laicità”, affrontata anche in questa tavola rotonda. Sappiamo bene che il termine “laicità” ha avuto lungo la storia diversi significati. Certo è che le radici del termine affondano nel cristianesimo. Non a caso, la prospettiva della laicità si è affermata solo nei paesi di tradizione cristiana, sebbene spesso in maniera conflittuale con la Chiesa, non però con la cultura ispirata dal cristianesimo. La laicità ha avuto ed ha comunque differenti declinazioni. Non mi addentro nel dibattito sviluppatosi in questi ultimi tempi. E mi fermo solo ad accennare alla laicità come metodo di pensiero e di atteggiamento che aiuta sia la fede che la ragione a non cadere in pericolosi estremismi. Credo ormai vecchia e priva di futuro la polemica sulla laicità intesa come un contenuto da contrapporre alla religione. La laicità, lo ripeto, va compresa sul piano metodologico più che su quello contenutistico. In questo orizzonte, laico è colui che non rifiuta né deride il sacro, semmai è colui che lo discute, che lo interroga, che si mette di fronte al senso del mistero che il sacro porta con sé. Ed è laico anche ogni credente che non è superstizioso, che non è fanatico, che non è arrogante, che non è chiuso alla ricerca di una verità sempre più chiara e piena. È laico altresì ogni non credente che non assolutizza e non idolatra il proprio relativo punto di vista e la propria ricerca. Il laico non credente sa invece riconoscere la profonda analogia che lo lega alla domanda del credente e alla sua continua ricerca del vero e del bene.
La laicità, pertanto, non è un’ideologia ma una sensibilità; non è un contenuto ma un modo di porsi e di pensare. La laicità non si identifica a priori con nessun credo preciso, con alcuna filosofia, neppure quella che affida allo Stato il compito di arbitro super partes. La laicità è piuttosto un’attitudine critica ad articolare il proprio credo filosofico o religioso secondo regole e principi logici che non possono essere condizionati da nessuna fede, perché in tal caso si cadrebbe in un torbido pasticcio, sempre oscurantista. Laicità significa tolleranza e demistificazione di tutti gli idoli, anche dei propri; è capacità di credere fortemente in alcuni valori, sapendo che ne esistono altri, pure essi rispettabili. In questo senso la laicità è utile sia ai credenti che ai laici perché spinge ambedue alla ricerca del vero bene mettendoli in guardia da una pericolosa idolatria di se stessi. Questa idea di laicità è quella che appare anche nel dettato costituzionale italiano e mi pare la più idonea a sostenere quella prospettiva della interculturalità. Diverso sarebbe il discorso rispetto alla laicità alla “francese” che tende appunto ad escludere la fede dalla sfera pubblica per dare allo Stato il giudizio su tutto. Lo Stato sarebbe il più idoneo, il più puro da pregiudizi, l’unico, insomma, a garantire la possibilità della convivenza tra diversi. In verità, anche in chi professa tale prospettiva è segnatoi da una dose massiccia di pregiudizi che impediscono quella neutralità che pure vuole rivendicare.
La laicità secondo la Costituzione Italiana, invece, non solo non esclude la fede ma ne deve garantire l’esercizio, ovviamente all’interno di un quadro democratico che permetta l’incontro delle diverse componenti della società. Essa stessa, la stessa Costituzione Italiana, è il frutto di questa concezione della laicità come metodo e non come contenuto. Essa, infatti, è frutto di una vivace dibattito tra le tre grandi tradizioni culturali e politiche del paese: cattolica, socialista e liberale. Nell’incontro e nel rispetto reciproco, è stato possibile comporre le diversità in un dettato costituzionale condiviso. Tale prospettiva risponde ad una concezione della società non monarchica ma poliarchica, ove nessuno ha il monopolio del tutto e le diverse realtà della società hanno la responsabilità del bene comune della nazione. Non mi dilungo su questo, ma mi pare una prospettiva particolarmente utile oggi mentre nelle nostre società post-secolari le religioni sono tornate alla ribalta e ad occupare uno spazio nel pubblico. La laicità alla “francese”, invece, si regge sul presupposto che le religioni esprimano una libertà privata, che non concorre al pubblico; e non a caso sostiene – lo riflette la Carta europea dei diritti – un’accettazione e una proclamazione della libertà religiosa come libertà esercitabile anche in forma collettiva, ma senza riconoscimento di ruoli alle organizzazioni religiose. In verità non è così: quella religiosa è anche libertà e ruolo sociale delle organizzazioni, come riconosce, a differenza della Carta, il successivo testo della Costituzione europea. La stessa libertà individuale ha bisogno di interazioni fra pubblico e privato per essere effettivamente tutelata in diverse situazioni (pensiamo all’assistenza religiosa in ospedale o in carcere).
Il credente, pertanto, ha il diritto-dovere di operare nella e per la società. Certo, non lo fa con argomenti presi dalla dialettica democratica. In tal senso si potrebbe dire che i cattolici si addentrano nel dibattito democratico «senza il Vangelo», nel senso di non portare argomenti religiosi per difendere scelte economiche, politiche o tecniche. Nel restare fedeli al Vangelo non ricevono da esso indicazioni tecniche di comportamento. Resta però l’obbligo di impegnarsi in ogni modo perché l’ispirazione evangelica, che sostiene l’intera loro esistenza, fermenti l’impianto della società nella quale vivono. In alcuni casi si tratterà di difendere (o di ostacolare) particolari scelte legislative. Ed è ovvio che i cattolici si impegnino in ogni modo perché il quadro legislativo non sia in contrasto con i valori in cui credono. E non si deve dimenticare che la responsabilità non si esercita solo verso l’una o l’altra legge, bensì sull’impianto generale della società. Questo comporta, o può comportare, dibattiti anche all’interno della stessa comunità cristiana, salvo quando si toccano valori irrinunciabili. Ma è fuor di dubbio che il credente debba adoperarsi in ogni modo – nel rispetto delle regole della democrazia – per tradurre nella vita della società ciò che a lui appare la cosa migliore non per se stesso ma per il bene comune.
Entra in gioco qui la tensione al bene comune dell’intera società. Purtroppo negli ultimi decenni, le classi dirigenti del nostro Paese, cattolici compresi, spesso hanno dimenticato di dibattere su quale Paese si vuole edificare. Ci siamo fermati troppo a discutere di riforme elettorali e anche costituzionali, senza dubbio importantissime, ma tralasciando l’interrogativo per costruire quale società si richiedono tali riforme. Tale preoccupazione purtroppo è stata per lo più assente. Eppure è proprio qui il cuore dell’impegno per il “bene comune” che Benedetto XVI ha richiamato nell’enciclica Caritas in Veritate. E per i cristiani tale impegno affonda le radici nella fede. Essi sono chiamati ad impegnarsi nella cosa pubblica proprio a partire dalla loro fede, dalla Eucarestia che celebrano. Per i credenti l’Eucarestia è principio e fondamento, forza e luce di rinnovamento della pòlis, della Città. Così libertà, responsabilità, solidarietà e sussidiarietà raccontano ed illustrano aspetti della riforma che la forza dell’Eucarestia imprime alla pòlis, alla società. Per questa via, la indelegabilità del bene comune ad una qualsiasi potenza intrastorica, anche politica, si manifesta nella comprensione poliarchica della pòlis. La città aperta alle operazioni di bene comune è una città dalla sussidiarietà verticale ed orizzontale, in particolare, in cui la politica non è autorizzata a fare altro che il proprio prezioso ma limitato compito, e così l’economia, la scienza, la famiglia, e via dicendo. A nessuno è affidata l’esclusiva sul bene comune, a tutti è chiesta la corresponsabilità.
La Chiesa, nella varietà dei suoi carismi, si pone come anima e presidio per una pòlis sempre più aperta e poliarchica (Caritas in Veritate, 57), sempre più libera da ogni pretesa di egemonia. La Chiesa diffida di chi promette il bene comune qui ed ora e di chi si arroga il diritto che Dio solo ha di sradicare la zizzania prima che l’ultimo momento sia giunto. Qualcuno potrebbe chiedersi se la Chiesa opera per il bene comune e la poliarchia da dentro o da fuori della pòlis. Ciò che rende questa coscienza e questa comprensione poliarchica di bene comune incompatibile con il vecchio modello di laicità, anche se non con l’istanza essenzialmente cristiana di separare potere politico da potere religioso, è l’impossibilità di spazializzare definitivamente la differenza tra Chiesa e societas. La Chiesa è dentro la pòlis, come il lievito nella pasta; ma la Chiesa è anche oltre la pòlis perché indica ed opera verso una pòlis che non sarà mai altro che dono.
L’Eucarestia pertanto non separa i cristiani dalla società. Al contrario, li spinge ad incarnarsi in essa per trasformarla. Per questo i cristiani non vivono una storia separata né si costruiscono città a parte. Partecipano, invece, ad un’unica storia, quella di tutti. E la loro tensione non è ripiegata su se stessi, ma sul bene comune di tutti. E in questo particolare momento storico significa allargare lo sguardo sino ai confini più lontani. Valgono ancora oggi le parole di Sant’Agostino: “Due amori danno origine a due città: la città terrena il cui amore di sé giunge sino al disprezzo di Dio; e la città celeste il cui amore di Dio giunge sino al disprezzo di sé”(libri 11-14). Agostino non intendeva affermare l’esistenza di due città distinte, quella di Dio e quella degli uomini. Egli voleva piuttosto sottolineare due modi di vivere dentro la stessa città, due atteggiamenti o, appunto, come lui stesso dice: due amori, due modi di intendere e vivere l’amore. Questi due amori portano a due esiti opposti. E ne spiega il perché: “Di questi due amori, l’uno è santo e l’altro è empio: l’uno è sociale e l’altro egoista; l’uno tiene conto dell’utilità comune in vista della società del cielo, l’altro riduce lo stesso bene comune al suo potere spinto dal sentimento dell’arroganza nel comandare”(De Genesi ad litteram, 11, 15). Per questo i cristiani sono chiamati a vivere dell’Eucarestia, il sacramento dell’amore di Gesù che giunge sino a “spezzarsi” e “versarsi” per il bene di tutti. Possiamo dire che è proprio il dinamismo di questo mistero a spingere i cristiani ad impegnarsi nella vita della società.