Il sogno di Francesco da Madrid ad Assisi

Il sogno di Francesco da Madrid ad Assisi

Ci ritroviamo alla vigilia di una grande evento. Molti di noi hanno ancora davanti agli occhi quella straordinaria immagine di Madrid nella spianata dei “Quattro venti”. Eravamo più di un milione di giovani di tutto il mondo attorno al papa Benedetto XVI per vivere momenti di gioia tra cristiani e sognare un mondo diverso per tutti i popoli. Il mondo, così com’è, non è bello: c’è troppa violenza, troppa ingiustizia, troppa disuguaglianza, troppo egoismo, troppe persone sono abbandonate. E il futuro è buio come un cielo senza stelle.

A Madrid, quella notte, nonostante la pioggia che ha cercato di disperderci, siamo rimasti uniti perché c’era una stella: quell’Ostia bianca, in alto, davanti a tutti. Vedendola il nostro cuore si è scaldato e i nostri occhi si sono aperti allo “spezzare del pane” all’alba di un nuovo giorno. Eravamo felici di stare con Gesù, di essere “radicati in lui”, uomo buono, giusto, mite, generoso, felice, e appassionato per gli altri, per tutti, particolarmente per i più poveri.
Con questo bagaglio ci siamo dati appuntamento qui, nella nostra Umbria. Il sogno di Madrid non poteva terminare. Ed eccoci ad Assisi. Qui riceviamo in dono una nuova visione: quella di rappresentanti delle grandi religioni mondiali, assieme a non credenti, gli uni accanto agli altri, che sognano un mondo di pace. Vengono ad Assisi come ad attingere forza dal sogno di quel giovane umbro che ottocento anni fa voleva sradicare dal mondo la violenza e riempirlo di pace.

Anche allora il mondo era segnato da conflitti e ingiustizie. Francensco stesso, giovanissimo, partecipò ad una delle guerre tra Perugia ed Assisi e fu fatto prigioniero. Passò un anno nelle carceri. Uscito, non abbandonò la via delle armi; anzi, decise di continuarla in maniera più stabile tentando anche di diventare “cavaliere”. E si incamminò per andare a combattere al seguito di un capitano la guerra in Puglia. Una notte fece un sogno: si trovò in una ampia stanza di un grande castello con alle pareti un numero considerevole di armi. Inizialmente non comprese con chiarezza tale sogno. Giunto a Spoleto, cadde malato e, nellanotte, sentì una voce che glielo illuminava: “Chi scegli: il servo o il padrone?” Insomma: “Chi vuoi seguire: te stesso e i tuoi istinti, il capitano d’armi, o il Signore che ti ama sino a morire per te e che ti invita a combattere un’altra battaglia?”
Partecipare al sogno di Gesù

Francesco non ebbe dubbi. Scelse di seguire non se stesso e le sue abitudini ma Gesù e la “battaglia” per il mondo di giustizia e di pace che Gesù era venuto a inaugurare. Scrive la Leggenda dei tre compagni: “E da quell’ora smise di adorare se stesso, e persero via via di fascino le cose che prima amava”. Cosa vuol dire “smise di adorare se stesso”? Significa che Francesco, giovane come tutti gli assisiati e un po’ più ricco di loro, scelse di non vivere per se stesso e per i suoi ideali, ma per il Signore e gli ideali del Vangelo.

L’egocentrismo, ossia mettere il proprio “io”al centro di tutto, è la tentazione di sempre dell’umanità, ma nei nostri tempi lo è ancor più. In passato, infatti, il senso del “noi”, della comunità, resisteva e poneva qualche argine all’impetuosità dell’io. Oggi, non è più così: la nostra società somiglia sempre più ad una folla di soli. La globalizzazione che ha avvicinati i popoli non li ha però resi fratelli. Al contrario, sembra che abbia spinto singoli e gruppi a rinchiudersi in se stessi, a ripiegarsi sui propri interessi. E questo atteggiamento provoca indifferenza verso gli altri, anzi avorisce il fastidio per gli altri sino al conflitto. E sono scomparse le visioni universali. Ogni singolo, ogni gruppo, ogni nazione, ogni gruppo di nazione gaurda a sé, pensa a sé e ai propri problemi. Ciascuno è fisso sul proprio cielo, non importa se piccolo o grande, quel che conta è che sia il mio.

Ebbene, Gesù è venuto a disarticolare questo cerchio, a spaccare questa chiusura, a far saltare i confini e ad abbattere i muri. Egli vuole che i suoi discepoli abbiano una visione universale e il cuore che pulsa per il mondo intero. Gesù vuole questo tipo di discepoli. Sa bene che l’istinto ci porta a ripiegarci, per questo egli interviene e ci spalanca gli occhi e il curoe. E’ quel che accadde anche a Francesco. Com’è accaduto?
La via dell’amore: l’incontro con il lebbroso e il crocifisso
Due incontri segnano l’inizio della vita nuova di Francesco: l’incontro con il lebbroso e quello con il Crocifisso. Lo detta nel suo testamento, scritto poco prima della morte. Dice così: “Il Signore concesse a me, frate Francesco, di cominciare così a far penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara di vedere i lebbrosi. E il Signore mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro, mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo”.
Francesco, appena fuori le mura di Assisi – un po’ come noi -, si imbatté in un lebbroso. Erano numerosi a quei tempi i lebbrosi. Ed erano temuti perché si pensava che la lebbra fosse contagiosa. Per questo i lebbrosi dovevano abitare fuori delle città. Francesco appena vide il lebbroso istintivamente voleva evitarlo, si fece forza e vinse la paura, scese da cavallo e fece l’elemosina al lebbroso. Ma comprese – forse guardò negli occhi il dolore rassegnato di quell’uomo – e comprese che non bastava l’elemosina. C’era bisogno di un gesto personale di amore. E Francesco lo baciò. Non di solo pane vivono i poveri, ma anche del nostro amore. Come, del resto, ciascuno di noi. Con quel gesto Francesco faceva finire il mondo del disperezzo e dell’abbandono dei deboli, e ne iniziava un altro, quello più fraterno voluto da Gesù.

In effetti, l’incontro personale con i poveri allarga il cuore, affina gli occhi e rende più attente le orecchie e più gioiosa la vita, sia umanamente che religiosamente. Francesco in effetti da allora vide in modo nuovo anche il Crocifisso. Non lo guardò più come lo guardava prima. I lebbrosi gli avevano aperto gli occhi del cuore. In essi, nei loro volti sfigurati dalla lebbra, Francesco vide i tratti stessi del Crocifisso. E in certo modo si ripeté quel che accadde a san Paolo sulla via di Damasco. Se all’apostolo Gesù disse: “Saulo, perché mi perseguiti!” a Francesco disse: “Francesco, ero lebbroso e mi hai amato!” Queste parole ci vengono suggerite dalla Vita seconda, ove si narra: “Era già del tutto mutato nel cuore e prossimo a divenirlo anche nel corpo, quando, un giorno, passò accanto alla chiesa di San Damiano, quasi in rovina e abbandonata da tutti. Condotto dallo Spirito, entra a pregare, si prostra supplice e devoto davanti al Crocifisso e, toccato in modo straordinario dalla grazia divina, si ritrova totalmente cambiato. Mentre egli è così profondamente commosso, all’improvviso – cosa da sempre inaudita!(Gv 9,32) – l’immagine di Cristo crocifisso, dal dipinto gli parla, movendo le labbra. «Francesco, – gli dice chiamandolo per nome (Cfr Is 40,26) – va’, ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina». Francesco è tremante e pieno di stupore, e quasi perde i sensi a queste parole. Ma subito si dispose ad obbedire e si concentrò tutto – continua la Vita seconda – su questo invito: “Da quel momento si fissò nella sua anima la compassione del Crocifisso”. E iniziò a riparare la casa di Dio, la chiesetta di san Damiano.

Un mondo fraterno e pacifico

Ma cos’è oggi per noi la chiesetta di San Damiano? E’ il mondo intero, sono le nostre città, è la nostra Umbria, ma anche l’Italia, l’Europa e il Mediterraneo. Sì, c’è come una continuità ininterrotta tra Assisi e il resto del mondo, tra Perugia, l’Umbria, L’Italia, l’Europa, il Mediterraneo e il mondo intero, tra il “me” e il “noi”. La casa degli uomini ha dimensioni universali. Già da qualche decennio si parla del mondo come di un villaggio. Ed in effetti siamo tutti legati gli uni agli altri. Quel che accade in una parte immediatamente si riverbera nell’altra. E la casa del mondo va urgentemente riparata perché rischia la rovina: in alcune parti è già crollata, in altre è scardinata, in altre rischia di crollare, in altre si stanno ammassando le pietre… e così oltre. E c’è bisogno di una visione d’insieme per raccogliere le pietre, quelle vecchie e quelle più nuove, e riedificare la casa perché sia abitabile per tutti. E’ una metafora, questa della casa, ma descrive bene il mondo di oggi.
E noi siamo le pietre. Voi, giovani, le pietre nuove. Non possiamo concepirci separati e dispersi. Ciascuno di noi non deve pensarsi come una pietra, magari bella e levigata, ma che se ne sta da sola nel campo della storia. Siamo pietre per esssere impiegate per la costruzione di una nuova città, di una nuova regione, di un nuovo paese, di un nuovo mondo. La nostra vocazione non è per costruire un mondo per me, ma per edificare un “noi”, per radunare la gente, per costruire copmunità buone. La nostra vocazione è fare ovunque delle comunità, delle frater nità evangeliche. E’ quel che fece Francesco: rinunciò ad essere una pietra isolata, ossia a porre se stesso al centro della sua preoccupazione, e dedicò la sua esistenza a costruire una comunità di fratelli (frati), che stessero con i più poveri (minores) – di qui “frati minori” – perché fosse feremento di una nuova società.
In un mondo di violenza, Francesco cambiò il suo cuore e scelse di essere un costrutture di fraternità. Dopo aver creato un piccolo gruppo di amici andò in giro ad abbattere i muri che dividevano la gente e a metterla in pace. Come ho già accennato, la vita anche allora non era sicura, soprattutto quando si viaggiava. Le città e i villaggi erano scossi da conflitti, le strade piene di agguati e la vendetta era molto diffusa. Si diceva che non era da uomini sopportare le offese.

Ebbene, in questa società violenta, Francesco fu edificatore di pace. Fu lui a portare riconciliazione tra il gruppo del vescovo e quello del sindaco di Assisi. Li convocò assieme nella piazza del vescovado, non prese parte né per l’uno né per l’altro, ma fece cantare da due frati: “Laudato sì, mio Signore per quelli che perdonano per lo tuo amore e sostengono infirmitate e tribulazione, beati quelli che sosteranno la pace, che da Te, Altissimo, saranno incoronati”. Dopo il canto i due decisero di fare pace. Sono tante le storie di “lupi” ammansiti da Francesco. Si trattava di uomini violenti che, con l’impiego delle armi, gettavano nel terrore intere regioni e città. La storia più famosa è quella del lupo di Gubbio: non era un animale, ma in realtà un guerriero che, come una bestia selvatica terrorizzava quella piccola città. Forse era quello che oggi chiameremmo “un signore della guerra”, perché con qualche mercenario e un castello per proteggersi, teneva in scacco una popolazione intera.

E come non ricordare, a dieci anni dall’11 settembre, il famoso episodio dell’incontro tra Francesco e il sultano Malek-el-Kamel, a Damietta in Egitto? E’ un episodio che oggi parla ancora: fu sconcertante per la cultura di quel tempo, che concepiva la guerra per liberare i Luoghi Santi dagli infedeli come un’opera cristiana meritoria, tanto che i papi e i grandi cristiani avevano predicato la crociata. E forse Francesco non era estraneo da questa mentalità. Ma il vangelo e la visione dell’altro come fratello lo spinse a cercare un’altra starda, non quella delle armi, ma quella della parola, del dialogo. Se così posso dire, il “metodo” per portare la pace utilizzato da Francesco era sempre lo stesso: occorreva vedere nell’altro il fratello e non il nemico.

Assisi e il cantiere della pace

Noi siamo qui per accogliere questa testimonianza di san Francesco che domani viene come aggiornata al mondo di oggi. Sono passati venticinque anni dall’incontro di Assisi voluto dal beato Giovanni Paolo II. Il mondo, allora, era ancora diviso in due e sotto il terrore della guerra nucleare. Il papa volle mostrare a tutti la visione di un mondo diverso, dove gli uomini e i popoli non fossero più gli uni contro gli altri, ma gli uni accanto agli altri.
Certo, ci si poteva chiedere: ma che cosa potevano fare le religioni di fronte alla minaccia della guerra atomica? Eppure, con quella convocazione di Assisi, il papa mostrò che i cristiani possedevano una forza debole che può cambiare il mondo attraverso l’amore. L’amore genera l’arte dell’incontro e del dialogo. Ero presente quel giorno ad Assisi e sentii che quella era una grande visione. Giovanni Paolo II, l’uomo dell’incontro, parlò in modo davvero profetico: “Il fatto stesso che siamo venuti ad Assisi da varie parti del mondo è in se stesso un segno di questo sentiero comune che l’umanità è chiamata a percorrere… Cerchiamo di vedere in esso un’anticipazione di ciò che Dio vorrebbe fosse lo sviluppo storico dell’umanità: un viaggio fraterno nel quale ci accompagniamo gli uni gli altri verso una mèta trascendente che egli stabilisce per noi…”

L’incontro tra i credenti delle diverse religioni era, per il papa, la visione del futuro: il viaggio degli uomini verso Dio. E Giovanni Paolo II concluse: “Forse mai come ora nella storia dell’umanità è divenuto a tutti evidente il legame intrinseco tra un atteggiamento autenticamente religioso e il gran bene della pace… La pace è un cantiere, aperto a tutti e non soltanto agli specialisti, ai sapienti e agli strateghi. La pace è una responsabilità universale: essa passa attraverso mille piccoli atti della vita quotidiana. A seconda del loro modo di vivere con gli altri, gli uomini scelgono a favore della pace o contro la pace.”
Giovanni Paolo II apriva a tutti i cristiani, anche ai più semplici, anche ai più giiovani, il cantiere della pace. Tutti sono responsabili della pace nel mondo, anche a quelli che non hanno né forza né potere politico. Noi cristiani abbiamo una forza: quella dell’amore che si fa arte dell’incontro e del dialogo. Appare debole, ma è irresistibile. E abbiamo una visione del futuro: quella del colle di Assisi, uomini di religioni differenti, gli uni accanto agli altri, che significano un’umanità diversificata ma non conflittuale, perché fa emergere la propria dimensione spirituale. In mezzo a loro, come uno di loro, stava quel giorno Giovanni Paolo II e domani Benedetto XVI, ambedue servitori della pace. Guardando il papa in mezzo a quei leader religiosi, vengono in mente le parole di Gesù: “io sto in mezzo a voi come uno che serve” (Lc 22,27). Ambedue stanno in mezzo ai rappresentanti delle diverse religioni come coloro che servono: sono profeti dell’amore e della verità.

Benedetto XVI sale di nuovo ad Assisi per dire che quello spirito è decisivo nel nostro mondo. C’è bisogno dello spirito di Assisi per poter vivere assieme. Benedetto XVI, per l’incontro di Monaco svoltosi nel mese di settembre scorso, ha scritto: “Il vivere insieme può trasformarsi in un vivere gli uni contro gli altri, può diventare un inferno, se non impariamo ad accoglierci gli uni gli altri, se ognuno non vuole essere altro che se stesso. Ma aprirsi agli altri, offrirsi agli altri può essere anche un dono. Così tutto dipende dall’intendere la predisposizione a vivere insieme come impegno e come dono, dal trovare la vera via del convivere. Tale vivere insieme, che un tempo poteva rimanere confinato ad una regione, oggi non può che essere vissuto a livello universale. Il soggetto del convivere è oggi l’umanità tutta intera”.

L’umanità deve imparare a vivere insieme. Questo è un compito dei cristiani, e con loro di tutti i credenti ed anche degli uomini di buona volontà. Lo spirito di Assisi costruisce la civiltà del convivere. Ma bisogna cambiare gli uomini perché imparino a vivere insieme in un mondo di uomini e donne senza padre, senza spirito. E’ nei cuori – sottoliena Benedetto XVI – che deve avvenire il primo cambiamento: sradic are da essi la violenza e renderli luoghi della mitezza e della pace.

Verso una società del convivere

Abbiamo appena iniziato il secondo decennio del nuovo secolo. Dieci anni fa, l’11 settembre 2001, un terribile attentato terroristico colpì le Torri Gemelle di New York: cominciò un decennio di scontri, di guerre (ricordo il dolore di Giovanni Paolo II per la guerra in Iraq), di persecuzioni religiose, in cui sembrava impossibile vivere insieme, in cui si sono voltate le spalle allo spirito di Assisi. Domani riceviamo ancora una volta in dono della visione di Assisi per il prossimo decennio: vivere insieme in pace.

Cari amici, non abbiamo forze particolari per affermarla, se non quella del nostro amore, della nostra fede, della nostra preghiera. Tutto questo è troppo poco? Penso che sia tantissimo: l’amore genera incontro e scaccia la paura; l’amore per i poveri dona la gioia; la fede e la preghiera spostano le montagne di odio. La vita della Chiesa, umilmente ma tenacemente, può indicare una via al mondo. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ci indicano la strada che è la profezia dell’amore.
Non possiamo rassegnarci ad un mondo “in rovina”. Passività e rassegnazione non sono sentimenti buoni; facilmente diventano malvagi. Qualcuno li chiama realismo, ma sono espressioni di occhi e cuori spenti, perché accecati dall’amore per sé. Francesco ci aiuta a non sottrarci all’impegno ad edificare una società nuova, pacifica, buona, giusta. Egli, umile, viene ancora in mezzo a noi, come fece con i giovani di Assisi di ottocento anni fa, e ci spinge a percorrere la via del Vangelo con un nuovo entusiasmo e una nuova passione. Per questo potremmo in questo anno sottolineare nell’Umbria l’impegno dei giovani ad ascoltare il Vangelo, assieme e con perseveranza, certi che il Signore illuminerà la nostra mente e ascolterà la nostra preghiera. Potremmo avviare e irrobustire la pratica della “lectio divina”, sapendo che la Parola di Dio radicherà la nostra vita in Gesù, come accadde a Francesco, il quale ascoltò il Vangelo e lo mise in pratica, alla lettera, “sine glossa”, cambiando se stesso e il mondo.