Il senso della vita. Conversazioni tra un religioso e un pococredente

Mons. Paglia, nelle pagine di esordio del Vostro dialogo Lei spiega in modo netto che “il futuro si edifica sulla via di una fraternità universale”. Questa affermazione, che potrebbe essere la chiusa di un ragionamento, diventa il fondamento di una prospettiva da imboccare per governare i destini dell’uomo, far prevalere le ragioni del bene comune e della concordia, immaginare un modello di sostenibilità planetaria che poggi sulla condivisione di alcuni valori essenziali: il rispetto, la benevolenza, la solidarietà, la sconfitta dell’indifferenza attraverso il “vaccino” dell’umana comprensione. Sono peraltro temi che Papa Francesco ha considerato nella sua enciclica ‘Fratelli tutti’. Eppure permangono alcune difficoltà. Dopo il tempo della post-modernità, dello spaesamento, della liquidità non ricomponibile con cui ci ha affascinato e spaventato Zygmunt Bauman, il declino delle ideologie, la globalizzazione e la deriva tecnocratica avvertiamo il fallimento della stagione dei diritti, del relativismo etico che favorisce prevaricazioni e ingiustizie, dell’individualismo sfrenato in cui radicano interessi confliggenti, il dominio del ‘dio denaro’. Mi disse Mons Giovanni Barbareschi, sacerdote della Resistenza: “Oggi tutto si vende e tutto si compra, perché tutto è cedibile” e aggiunse ”Te lo dice un prete: il primo atto di fede che l’uomo deve compiere è nella sua libertà, nella sua capacità di essere e di diventare sempre di più una persona libera”. C’è coerenza tra questa affermazione che riguarda la persona con il Suo richiamo alla fraternità, dato che Lei stesso ammette non trattarsi di un “idillio ma di una conquista ardua e faticosa”?

Risposta Mons. Paglia.  Il libro nasce a partire dalla pandemia, a partire cioè dalle questioni, anche concrete, esistenziali, che in questo difficile tempo siamo costretti ad affrontare e che riguardano diversi settori della vita sociale, produttiva, politica. Siamo in un profondo cambiamento d’epoca, come ama dire papa Francesco e non semplicemente in un’epoca di cambiamento. Ne usciremo, certamente, ma dipende dalle scelte che già facciamo oggi per uscirne rinnovati. Per parte mia sono convinto che dobbiamo impegnarci perché il mondo sia migliore, più solidale, a partire dai rapporti tra di noi. Il virus non ha frontiere, non viene fermato da barriere fisiche, da confini o da muri. Le barriere le abbiamo costruite noi, sono artificiali e non servono. L’altro, gli altri, non è mio nemico, non sono nemici. Dobbiamo allearci tra tutti, esseri umani, donne ed uomini, per costruire una nuova civiltà. Certamente è una conquista, ardua e anche faticosa. Pensiamo agli ideali universali dell’Illuminismo: fraternità, libertà, uguaglianza. Sono trascorsi più di 200 anni e non li abbiamo realizzati, se non in minima parte, e non in tutto il mondo. Ma il messaggio della Bibbia e del Vangelo oggi ci spingono con maggiore forza a riscoprirci un unico genere umano, fratelli e sorelle tra noi, e a trarne le conseguenze politiche, economiche, sociali.

Domanda per l’On.le Prof. Luigi Manconi

Caro Professore, Lei lo chiede esplicitamente, già nell’aforisma d’esordio e poi il Suo discorso mantiene questo tema sottotraccia, come un filo conduttore che attraversa tutta la Sua riflessione:  la condizione umana ed esistenziale nella civiltà contemporanea, dominata in maniera estensiva e irreversibile dalla dimensione tecnologica, esprime un senso di precarietà, un’assenza di approdi, siamo un po’ attori e un po’ spettatori del naufragio così ben descritto da Hans Blumenberg. Non trova che si sia realizzata una sorta di rivoluzione copernicana per cui non la persona in quanto tale ma il contesto in cui vive è il centro dell’universo simbolico nel quale siamo immersi?  Abbiamo davvero bisogno di nuovo Umanesimo, di un nuovo Rinascimento? Qual è il percorso storico che dobbiamo culturalmente  ripensare e quali le possibili immaginazioni di un futuro che continuiamo a rimandare? Il tramonto delle ideologie ci consegna destini incerti: come possiamo avere una visione di modelli comportamentali e sociali da perseguire se stiamo diventando orfani del pensiero critico e dell’immaginazione? Ricordo Rita Levi Montalcini nell’intervista che mi concesse: conta più l’immaginazione e la creatività della mente umana rispetto alla scienza codificata, in quanto apre nuove virtualità. Ma siamo capaci di proiettarci in questa dimensione di libertà intellettuale che rimetta l’uomo e non il profitto o il prodotto al centro dei nostri interessi?

Risposta Prof. Manconi. Purtroppo l’immagine del naufragio ha perso da tempo la sua dimensione metaforica per tradursi, piuttosto, in una realtà concreta e in una tragica emergenza umanitaria. Nel nostro mare, nel “mare nostro”, i naufragi si contano a centinaia e migliaia e migliaia sono le persone che affogano in quelle acque. Ne emerge una sconsolata verità: a livello inconscio, coloro che naufragano sono percepiti da noi come esseri umani inferiori. Solo ammettere questa crudele evidenza può aiutare a comprendere perché mai la strage nel Mediterraneo possa riprodursi da decenni senza che noi italiani ed europei vi poniamo rimedio: e nemmeno, in realtà, tentiamo di farlo. Finiamo, dunque, per accettarlo. Basterebbe questo per rispondere alla sua domanda. C’è stato un totale spaesamento morale degli attuali abitanti del nostro continente. Dico spaesamento e non, ad esempio, crollo, perché ciò che mi pare evidenziarsi è qualcosa di simile a uno stato confusionale, a una condizione di scissione psicologica e intellettuale dai nostri elementari punti di riferimento, dai nostri principi e, direi, dalle nostre stesse convinzioni. Insomma, come facciamo a riconoscerci in questo agnosticismo etico che ci suggerisce l’inerzia davanti alle tragedie, non solo del mondo, ma a quelle propriamente domestiche, “di casa nostra”, delle stesse acque in cui ci bagniamo. Di conseguenza, l’umanesimo cui tendere non è altro che la volontà di mettere al centro di tutto – della politica e della filosofia, dell’economia e del nostro quotidiano agire – l’uomo, nient’altro che l’uomo. Ad esempio, se colloco l’uomo al centro di ogni mio sentimento e di ogni mio operare, consegue che l’obiettivo di “abolire il carcere” diventa un’assoluta priorità: e l’esigenza di controllare i soggetti socialmente pericolosi viene dopo. Sia chiaro: viene, deve venire, ma solo a patto che il controllo, la pena, la messa in stato di inoffensività siano misure tutte interne alla prospettiva dell’abolizione della cella chiusa. È un esempio estremo, ma, mi auguro, aiuti a comprendere la mia idea di azione pubblica e di politica.

Domanda per S.E. Mons. Vincenzo Paglia

Mons Paglia, in un passaggio importante del Vostro libro Lei evoca le due encicliche di Papa Francesco, Laudato sì e Fratelli tutti, in ciò esprimendo la visione del Pontefice e la presenza della Chiesa rispetto a problematiche di grande attualità, a partire dalla crisi pandemica che sta affliggendo il pianeta, fino alla dimensione ecumenica delle relazioni umane, ispirata ad un afflato di fratellanza universale ma non priva di riflessioni sulle solitudini e le diaspore del nostro tempo.  La pandemia  in atto, i suoi effetti a livello planetario, le restrizioni alle libertà nella vita quotidiana dei cittadini di tutto il mondo impongono degli interrogativi ai quali mi pare la Chiesa non voglia restare estranea. Lei stesso, citando Karl Jaspers, parla di un momento “assiale” per i destini dell’uomo. Si ha la percezione (il Rapporto ONU del 2019 lo ha confermato) di vivere una lunga transizione verso un radicale mutamento del concetto di sostenibilità ambientale. Ciò significa che l’uomo ha vissuto in modo distorto, speculativo e consumistico il suo rapporto con la natura: si impone un ripensamento drastico. Senza entrare negli aspetti scientifici del tema non Le pare necessario un recupero di consapevolezza sull’importanza della vita, in tutti i suoi aspetti, anche nei rapporti inevitabilmente imposti dalle derive tecnologiche che incidono sull’ecosistema? Quale uomo e quale modello di umanità la Chiesa intende proporre al dibattito culturale e al senso poietico della creatività spirituale che ne deriva, con l’autorevolezza delle proprie deduzioni? In fondo questa emergenza asseconda lo scopo del vostro libro: capire e spiegare il senso della vita.

Risposta Mons. PagliaIl senso della vita! È una domanda che implica una risposta lunga tutta una vita. Per il credente l’orizzonte è suggerito dal messaggio di Gesù sulla destinazione dell’umanità che va oltre la morte, come scrive l’Apocalisse verso “cieli nuovi e terra nuova”. Come si può intuire il messaggio è pienamente umano. E’ a dire che la destinazione universale non è disincarnata. Al contrario l’azione per il futuro inizia già da ora e la dimensione della risurrezione è umana, non spirituale o astratta. Per questo il credo cristiano parla di “risurrezione della carne”, non semplicemente di immortalità dell’anima. Il cuore del cristianesimo è l’agape, la carità, verso Dio e verso il prossimo. Papa Francesco con le sue due encicliche che lei cita fornisce l’orizzonte nel quale collocare la nostra azione. Dire ‘vita’ significa interessarci delle condizioni di vita, della qualità della vita, di tutti i nostri compagni di viaggio, uomini e donne del nostro tempo. Abbiamo una sola vita da vivere e che sia umana, degna, possibile. Ed abbiamo un solo pianeta sul quale vivere, che non è ‘nostro’ ma lo abbiamo in prestito dalle generazioni future. E le tecnologie incidono sui rapporti, sulla  qualità della vita, sulle condizioni di vita. Il nome che papa Francesco – e non solo – ha dato a questa prospettiva è efficace e profondo: Bioetica Globale. Ed è un cambiamento di prospettiva radicale, che chiama ognuno a una revisione e conversione, a partire dai comportamenti quotidiani fino alle scelte politiche. 

Domanda per l’On.le Prof. Luigi Manconi

Professore, rileggendo le riflessioni di Pierre Bourdieu sulla violenza simbolica trovo che ripensandola oggi la ritroviamo affinata, diversificata, esponenzialmente cresciuta dalla preponderanza pervasiva del “pensiero calcolante”.  Mi sembra che tutto diventi strumentale sia rispetto ai processi che ai prodotti.  Ad esempio una malintesa valutazione dei principi di privacy e trasparenza sta mettendo le manette ai polsi delle relazioni sociali. La gente – pur disponendo di mezzi straordinari e potenzialità impensabili un tempo- non si parla e non si comprende più. Emergono solitudini nuove che non hanno target sociali o riferimenti anagrafici, poiché in fondo viviamo un’esistenza dominata dalla globalizzazione che ci spinge alla diffidenza, ad appartarci dentro nicchie di incomunicabilità. Non pensa che ci sia – nella nostra situazione esistenziale – un prepotente ritorno dei meccanismi di condizionamento dei comportamenti, fino a renderci schiavi del ‘pensiero pensato’ piuttosto che creatori e artefici di un ‘libero pensiero pensante’? Nella stessa quotidianità molta parte di ciò che facciamo non è dettata da ragionati convincimenti ma da luoghi comuni, stereotipi, opinioni, modelli precostituiti. Per dare un senso alla vita dobbiamo recuperare l’uso del discernimento?

Risposta Prof. Manconi.  Uno dei testi della mia formazione è stato “La folla Solitaria” di David Riesman. Aggiornare il volume di Riesman alla situazione attuale e, in particolare, alla incontenibile diffusione del web e dei social sarebbe assai interessante. Si scoprirebbe che il ruolo del soggetto nell’attuale infosfera conferma il paradigma di Riesman nella forma più esasperata e acuta. Mai come oggi, all’interno di un campo affollatissimo e di una comunicazione incessante e prepotente, l’individuo conosce la propria solitudine. È come se lo sviluppo formidabile delle relazioni sul web finisse con l’esaltare l’atomizzazione delle persone e l’alienazione dell’una rispetto all’altra. L’essere permanentemente connessi costituisce il surrogato del legame sociale in via di accelerato deperimento. A questa crisi, i social network non riescono in alcun modo ad opporsi e il massimo delle interrelazioni convive con la più profonda scissione inter-individuale. Rispetto a questo processo, sembra esservi poco o nulla da fare: è una tendenza incoercibile che non sembra possibile contenere. E, tuttavia, alcune misure di profilassi sono realizzabili e potenzialmente efficaci. Ad esempio, dopo l’insopportabile tendenza a ridurre l’azione politica allo scambio online e alla retorica del click e del like, già sarebbe utile favorire tutte le forme di partecipazione politica dal vivo e di mobilitazione fisica dei corpi nell’incontro diretto, nello scambio in presenza, nell’“assembramento” intorno a opzioni condivise e a movimenti comuni. Ed è solo un esempio.

Domanda per S.E. Mons. Vincenzo Paglia

Mons. Paglia, argomentando sulla necessità di ricostruire un nuovo Umanesimo Lei evidenzia le difficoltà di questo progetto ponendo una questione centrale: “sono convinto che la società contemporanea fatichi a uscire dalla deriva nella quale è caduta, perché ha rimosso Dio dal suo orizzonte”. Ho apprezzato la citazione di Luigi Zoja – che ho la fortuna di conoscere e di aver intervistato- il quale offre un’interpretazione decisiva su questo tema nel suo libro “La morte del prossimo”. Afferma Zoja che “nel mondo attuale dopo la morte di Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale dell’uomo. L’uomo cade nell’individualismo o peggio nella solitudine. È un orfano senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale – è morto il suo Genitore Celeste – ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli stava vicino. È orfano dovunque volti lo sguardo. Da quando il mondo si è fatto laico…Il prossimo si è trasformato in lontano, uscendo dallo spazio. E il vivo in morto, uscendo dal tempo”. Zoja individua due aree critiche: una sociologica, che descrive una società dominata dai media e – nello stesso tempo – la tendenza all’individualismo, alla separazione, come reazione ai fenomeni di globalizzazione con un ritorno ai localismi. Il secondo aspetto è l’invadenza della tecnologia. Se sono queste  le cause e gli effetti di questo fenomeno così dilagante proprio nell’epoca dell’immediatezza e della potenzialità comunicativa,  quali sono a Suo parere  i possibili rimedi?

Risposta Mons.Paglia. Vedo all’orizzonte – ma un orizzonte prossimo, vicino, molto vicino – la necessità di riannodare due fili: da un lato il sapere scientifico e dall’altro la visione umanistica. La Pontificia Accademia per la Vita l’anno scorso ha espresso in maniera plastica questa unione quando abbiamo parlato di Intelligenza Artificiale e della necessità di una visione etica delle tecnologie. Abbiamo parlato di renaissance! Perché siamo nell’epoca in cui l’umanità può distruggere se stessa attraverso il nucleare o con gli interventi genetici, ma può anche uscire dalla strettoia di un dominio esasperato del profitto e delle tecnoscienze capaci di manipolare molti a vantaggio di pochi. E possiamo farlo, potremo farlo, nell’alleanza di scienza ed umanesimo, nell’unità fondamentale dei saperi in favore di un approccio umano alla vita, per offrire spazio, possibilità, speranza a ciascuno e a tutti.

Domanda per l’On.le Prof. Luigi Manconi

Nel paragrafo dove Vi confrontate sul senso dell’amore, la sua gratuità e la sua appropriazione Lei stigmatizza alcuni atteggiamenti della Chiesa ancora diffusi: come l’usare il termine ‘misericordia’ per le relazioni omosessuali o la concezione punitiva del godimento sessuale poiché  “fare l’amore” deve essere  finalizzato alla procreazione. Ecco che il dibattito degli ultimi giorni sul DDL Zan pone questioni nuove e forse capaci di dividere anche il fronte più progressista e libertario. Mi riferisco ai temi delle differenze di genere, dell’identità sessuale biologica e di quella elettiva: “sentirsi” uomo o donna a prescindere dal requisito anagrafico, una sorta di situazionismo elettivo che a mio parere non contribuisce alla costruzione di una identità affettiva e sentimentale che metta ordine alla dimensione relazionale. Mi domando se ciò non crei una confusione persino fraudolenta. Come possiamo affidare lo statuto biologico della natura ad un atto di volontà? Con quali garanzie di orientamento e di radicamento identitario introduciamo a scuola questa variante opzionale che legittima la teoria ‘gender’, blandendo e solleticando il senso della trasgressione? Lasciamo perdere Dante e l’amor cortese, qualcuno parla di azioni legali per estromettere dai programmi scolastici dell’infanzia le favole di “Biancaneve” e della “Bella addormentata” perché il bacio del Principe non è consenziente e diventa abuso sessuale. Mi pare che si stiamo travalicando i limiti del buon senso comune: io non ho un concetto chiaro di cosa sia normale o trasgressivo in un rapporto a due (o a tre e più). Ma avverto il rischio di una paralisi dei sentimenti e dei gesti di affetto per il timore di sanzioni penali inflitte da giudici cervellotici, così come pavento il pericolo di crescere una generazione di soggetti asessuati e defedati, insicuri e infelici. Cosa ne pensa Professore?

Risposta Prof. Manconi. Credo che il mio interlocutore, Monsignor Vincenzo Paglia, grazie anche una mia affettuosa aggressività, abbia detto cose assai importanti e, credo, inedite, sul possibile approccio della Chiesa Cattolica al tema, sempre censurato o almeno trascurato, del piacere. Ma spetta a lui ribadire e approfondire. Per quanto riguarda la  questione dell’identità sessuale – uso intenzionalmente questo termine perché mi sembra il più asettico – non sono proprio d’accordo sulla critica a ciò che viene definito come “situazionismo elettivo”. Sì, penso che si possa “affidare lo statuto biologico della natura” ad un “atto di volontà”, per il semplice motivo che in realtà si tratta d’altro. Si tratta, cioè, di riconoscere la possibilità di definire il proprio genere prescindendo dal mero dato biologico-anatomico. È la stessa natura che porta alcune persone a voler cambiare e ad affermare una propria identità, sulla base della propria inclinazione e del proprio desiderio, diversa da quella indicata dall’atto di nascita. Questo è differente da ciò che viene detto “fluidità di genere”. Non si vuole rivendicare un capriccio e trascriverlo normativamente: si intende, piuttosto, nel definire l’identità, far valere la propria esperienza, il proprio vissuto, la propria cultura, i propri bisogni. E, a proposito, non c’è alcuna “ideologia gender” da combattere, tanto meno nelle nostre scuole. Si tende, invece, a chiamare ideologia gender ciò che è, né più né meno che la formazione al rispetto: anche delle identità sessuali che appaiono irregolari e, magari, incerte. 

Domanda per S.E. Mons. Vincenzo Paglia

Risposta Mons Paglia nel libro Lei considera ad un certo punto come sia mutato il contesto generazionale a motivo dell’allungarsi  della vita, che comprende “ i ragazzi, i giovani gli adulti e gli anziani”. Le età della vita sono più differenziate che in passato e la pandemia ha posto alcuni problemi etici rispetto ad esempio ai tempi e ai modi delle cure, alla somministrazione dei vaccini  in relazione ad una condizione di fragilità degli anziani, confermata purtroppo dalle statistiche sui decessi, specie nelle RSA, ad un certo punto apicale si è adombrato il pericolo di quali vite salvare: quelle lungamente vissute sono alla fin fine risultate soccombenti. Accanto all’età anagrafica esiste un’età mentale che offre una chiave di lettura diversa al concetto di  “vita piena”, si parte dalla precarizzazione del lavoro giovanile, alla sua labilità nel mantenerlo in età adulta, al trascorrere del tempo nella terza età deprivata di autosufficienza e dello status di pienezza esistenziale. Ciò era pur vero anche prima che il flagello pandemico investisse il pianeta. In una interessante Ricerca curata da G.B.Sgritta e M.Raitano il tema della sostenibilità generazionale è considerato sotto il profilo della compatibilità economica. Negli studi sulle età della mente di A.Benini e G.Maira viene evidenziato il problema del lento declino delle potenzialità cognitive e relazionali degli anziani. Si aggiunga che in una società globalizzata e competitiva chi non è produttivo finisce inesorabilmente per essere marginalizzato: questo ha delle conseguenze sul piano relazionale, emotivo e riguarda proprio il concetto di “senso della vita” nella sua quarta fase (per usare il suo paradigma). Lei è stato nominato dal Ministro della salute in qualità di Presidente di una Commissione incaricata di studiare nuove modalità di assistenza agli anziani, tenuto conto di tutte le fragilità connesse all’età. Come intende procedere in tale veste verso una più dignitosa considerazione di questa parte finale della vita? Quale “senso” attribuirle? Quali iniziative assumere?

Mons. Paglia. Serve, oggi, un cambiamento radicale nell’assistenza andando a recuperare lo spirito originario con cui sono nate le residenze: luoghi di recupero, ristoro e cura, e dunque necessariamente temporanee, per poter poi tornare a casa. È necessario mettere alò centro l’assistenza domiciliare sanitaria e sociale degli anziani con servizi a domicilio, il cohousing, i centri diurni ad alta qualificazione, capaci di terapie occupazionali e cognitive e processi di inclusione e socialità, formazione ed educazione. È necessario prevenire. Non lasciamo soli gli anziani, non li scartiamo. Gli anziani sono una risorsa preziosa da valorizzare, non da buttar via.

Domanda per l’On.le Prof Luigi Manconi

Il Vostro dialogo sul “senso della vita” tocca inevitabilmente i temi della procreazione, della crescita demografica,  della bioetica, del dolore e della morte. Mi ha colpito il Suo ricorrente richiamo al pensiero di Alex Langer, pensatore poco conosciuto come Lei stesso ammette, che tuttavia pone come cruciale il concetto del “limite”. In realtà riflettendo su di esso si potrebbero maturare convincimenti risolutivi per le nostre scelte esistenziali: come collocarci nel mondo, che rapporto mantenere con la natura, quali codici etici considerare imprescindibili, quali tassonomie graduare. Estensivamente potremmo utilizzare alcune sue riflessioni per spiegare la crisi epocale che stiamo attraversando, quella pandemia che ci sta radicalmente cambiando, nelle possibilità del presente e nelle prospettive che dovremo affrontare, non escludendo scelte drastiche o sviluppi ingovernabili. Vuole completare il già esaustivo riferimento a questo autore e l’incidenza che conserva nei Suoi convincimenti personali?

Prof. Manconi. Via via che trascorrono gli anni, mi rendo conto di essere assai più Langeriano di quanto fossi quando Langer era vivo ed era tra i miei amici. Oltre al concetto di limite, dal quale – penso – si possa ricavare un’intera e ricca strategia politica, mi riferisco all’altro termine, “mitezza”, che in genere si accompagna al ricordo di lui. La mitezza in Langer non aveva alcunché di dolciastro e, nemmeno, di retorico. Era l’espressione, ancora, di quella consapevolezza del limite (limiti della politica e limiti del conflitto) che innervava tutta la sua azione pubblica e la sua vita privata. Una mitezza che, lungi dallo sminuirla, sottolineava la radicalità delle sue opzioni e dei suoi obiettivi. Ecco, tardivamente e confusamente, cerco di mettere in pratica questa sua importantissima lezione.

Domanda per S.E. Mons. Vincenzo Paglia

Mons. Paglia, come Lei sottolinea nel libro non è più tempo di conflitto tra fede e ragione. Abbiamo il diritto-dovere di usare il pensiero critico agendo nella ricerca della verità  e conciliando questo atteggiamento razionale con una scelta di “affidamento”: questo è il senso della Fede che mi pare di percepire dal Suo pensiero. Potremmo affermare che il “Velut si Christus daretur” ha prodotto i migliori risultati, infatti la scelta cristiana di darsi a Dio ha grandi vantaggi anche nell’etica pubblica: dare senso e dignità alle nostre azioni, operare secondo coscienza, agire per realizzare con onestà il bene comune. Sono questi i fondamenti etici cui possiamo ispirarci per  restituire una direzione di marcia a questa epoca così ibrida e attraversata da mille conflitti e contraddizioni morali, per dare “un senso alla vita”? Senza un “faro” che illumini la via della verità e del bene riusciremmo ad orientarci da soli? Possiamo infine dire con  Charles Peguy  “la fede che più amo è la speranza”?

Risposta Mons. Paglia.  Qui a mio avviso “tocchiamo” lo snodo fondamentale che ha a che fare con il “senso della vita”. La fede è ragionevole, è possibile, è sensata. E il cambiamento d’epoca in cui siamo ci rende più responsabili nei confronti delle sorti di tutta l’umanità. Se penso agli ultimi tre Papi, questa linea mi sembra esplicitarsi in maniera molto chiara. San Giovanni Paolo II è il pontefice della Fides et Ratio, della grande sintesi che unifica fede e ragione come due poli della ricerca dell’umanità. Benedetto XVI è il pontefice della Deus Caritas Est, che inscrive la logica della fede all’interno dell’amore, dell’agape, della cura e dell’interesse verso l’altro. Papa Francesco oggi esplicita ancora di più questa dinamica ecclesiale e la approfondisce, la rende imprescindibile come via della Chiesa “in uscita” verso le periferie reali ed esistenziali. Il fatto nuovo è decisamente forte e decisamente semplice: abbiamo superato il binomio tra fede e ragione. La fede non deve più mostrare la sua “ragionevolezza”. E non vale il ragionamento di una volta secondo cui chi aveva fede ad un certo punto “spengeva” la razionalità per affidarsi a qualcosa di anti-razionale. D’altro canto chi seguiva la ragione doveva essere ateo “per forza”. Così si è detto per secoli. Oggi di fronte alle sfide epocali che abbiamo di fronte, la via da seguire ci porta verso un trinomio: fede e ragione si incontrano nella dimensione fraterna, della carità, dell’amore per il prossimo e della cura per il Creato. 

Le domande di chi non crede sono domande di senso per la vita, come ho potuto verificare negli incontri e nei dialoghi con tanti non credenti. Basti, per tutti, l’ultimo libro, l’ampio e approfondito colloquio con Luigi Manconi di cui stiamo parlando. Anche nel libro noi due alle domande che ci siamo posti non rispondiamo con la dialettica. Non è una sorta di incrocio di spade dove qualcuno vince e l’altro perde! Alle domande, alla ricerca di senso, non si risponde con la dialettica e basta, non è un confronto di “scuole” di pensiero. Per il credente non è mai così. Il credente si fa compagno di strada e di vita, è in cammino, in ascolto, in dialogo, sa che la “verità” della fede non si impone, si mostra nella vicinanza, nel Samaritano che si ferma ed ha un atteggiamento di compassione senza chiedere nulla in cambio. La grande via su cui procediamo è l’amore per il prossimo. Da quello vedrete che siete miei discepoli, come ci dice il Vangelo. Lo verifico ogni giorno nel mio impegno di vescovo, di credente, di uomo di Chiesa e di essere umano. 

Domanda per l’On.le Prof. Luigi Manconi

Caro Professore, mi ha colpito nel sottotitolo del libro  la sua autodefinizione di “pococredente” , per  descriversi nel contesto dell’interlocuzione con Mons. Paglia. Non voglio pensare ad una “diminutio” quantitativa, non è un problema di pesi e contrappesi materiali ma di convincimenti spirituali. La fede implica un processo di affidamento e di trascendenza, mi permetto di pensare che il dubbio riguardi anche l’aspetto dogmatico, certi orpelli e corollari che esprimono una dimensione di esteriorità alla quale sono in molti a non aderire. Ritengo che nel nostro transito esistenziale la vita sia l’unica certezza di cui disponiamo: considerarla un dono o un compito da realizzare (lei afferma “un dono di cui possiamo disporre come vogliamo”)  non inficia il senso del dovere che deve spingerci ad operare per il bene. Il dubbio di vivere rettamente, disse Corrado Alvaro, è una grande disperazione che ci allontana dalla ricerca della verità. Mi piacerebbe perciò che Lei commentasse queste parole del nostro scrittore Mario Rigoni Stern: “Come vivere? Questa domanda ce la dobbiamo porre non soltanto alla fine di un millennio, di un secolo, di un anno, ma tutti i giorni, e tutti i giorni svegliandoci, si dovrebbe dire: oggi che cosa ci aspetta? Allora io considero che si dovrebbero fare le cose bene, perché non c’è maggiore soddisfazione di un lavoro ben fatto”. Le chiedo questo perché sono certo che la Sua “pococredenza” sia un’ammissione di inadeguatezza (non un senso di colpa) che tutti dovremmo condividere poiché reca implicito e taciuto il senso di una finitudine creaturale di cui – confido- anche Lei sia consapevole, come l’avvertire un bisogno di completamento che Le rende onore e che forse tra le pieghe nasconde una “fede” magari non ortodossa ma certamente ricca di dignità, onestà intellettuale e volontà di fare sempre “cose ben fatte”. Sono convinto infatti che la coscienza morale che abita in ciascuno di noi sia il vero discrimine di tutto ciò che ci riguarda,  per misurare se stessi e commisurarci agli altri. Ci riassume il senso di questa “autodefinizione”?

Prof. Manconi. Come molte volte mi accade le mie definizioni e autodefinizioni, si esprimono in un negativo: in un non seguito da un termine declamatorio o, come in questo caso, in quell’avverbio di quantità, poco. Ma anche il mio motto personale – “limitare il disonore” – indica esattamente una misura e la definizione di male minore è, in qualche modo, il titolo della mia strategia politica, se mai ne abbia una. Dunque, pococredente, innanzitutto perché non sono credente. Ma non sono noncredente, né agnostico né ateo, e quella formula pococredente allude a una postura di ascolto – di tutto ciò che è fatto religioso – e di problematica attesa. Più orientata pessimisticamente verso la probabile delusione, ma non per questo meno interessata all’imprevedibile e all’inaspettato che l’attesa può infine rivelare.

(IL DOMANI)