«Fui il primo a portare Dio nell’Albania comunista»

di Alessia Ardesi

È stato fin dall’inizio l’assistente spirituale della Comunità di Sant’ Egidio a Roma. Il primo prete a entrare nell’Albania comunista. Da cinque anni papa Francesco gli ha affidato sia l’Istituto Teologico Giovanni Paolo II per il Matrimonio e la Famiglia sia la Pontificia Accademia per la vita, dove si occupa anche di intelligenza artificiale e nuove tecnologie. L’arcivescovo Vincenzo Paglia è rimasto un uomo umile e diretto che ama stare in mezzo alla gente.
Nel suo ufficio a via della Conciliazione spicca il quadro coloratissimo di Stefano Di Stasio: quattro generazioni che si tengono per mano nell’affrontare la morte. Un tema che ha ispirato anche il suo ultimo libro, “Ricominciare”.

Eccellenza, lei dove nasce?
«A Boville Ernica, vicino a Frosinone, il 21 aprile 1945. Era appena finita la seconda guerra mondiale. Sono figlio della pace e della ricostruzione».

Come era la sua famiglia?

«Mamma Angela era casalinga, papà Arduino era contadino. Sono il primo di cinque figli e in casa c’era anche lo zio, Giuseppe Paglia, l’arciprete del paese».

È stato lui a influenzare la sua vocazione?

«Certamente. Grazie a lui, e alla famiglia, ho visto la bellezza di una vita serena spesa intorno all’altare, alle feste religiose e al catechismo nelle campagne, tra bambini spesso analfabeti e in condizioni precarie. A sette anni ho sentito la chiamata, a dieci ho deciso di entrare in seminario».

Non era un po’ troppo piccolo per avere la certezza di una decisione così radicale?

«No, ho scelto con molta lucidità quella di un bambino di quell’età. Don Giuseppe era un noto predicatore, radunava gente, creava una socialità bella, era un punto di forte riferimento per la comunità».

Dove ha fatto il seminario?

«Sono entrato nel Pontificio Seminario Romano, quello del Papa. Per me, ragazzino di un paesino sconosciuto, partecipare alle celebrazioni nella Basilica di San Pietro e al corteo papale, significò sentirmi parte del cuore della Chiesa universale».

Ha conosciuto Pio XII e Giovanni XXIII. Che ricordo ne ha?
«Ricordo meglio papa Giovanni che si intratteneva con noi. Quando visitava le parrocchie romane noi lo accompagnavamo correndo accanto alla sua auto».

La capacità attrattiva che descrive si è un po’ persa negli anni, le chiese si stanno spopolando. «
È vero. Oggi la Chiesa suscita a volte ammirazione altre opposizione. Fa fatica a coinvolgere la gente attorno al Vangelo e al rinnovamento. Ho vissuto con entusiasmo la primavera del Concilio e il ’68. La Chiesa aveva cominciato a riprendere il dialogo con il mondo e la società, attraverso un linguaggio più comprensibile».

Un tentativo non del tutto realizzato però…
«Molto è stato fatto. Ma ancora tanta strada bisognava percorrere. Spesso è prevalsa la lotta interna alla Chiesa più che lo slancio e l’audacia di parlare a tutti».

Prima ha fatto riferimento allo spirito ricostruttivo del dopoguerra. Crede che lo vivremo anche dopo il Covid?

«Oggi c’è un’opportunità straordinaria. Se avessimo un po’ più di audacia saremmo più creativi per una nuova stagione, anche per la Chiesa. Dobbiamo riprendere a comunicare il Vangelo dell’amore, quello “sine glossa” – come diceva San Francesco».

La pandemia ha riportato alla luce il tema della destinazione umana e dell’Aldilà.
«È vero. La morte, che avevamo come espulsa dalla nostra cultura e dal vocabolario, è rientrata prepotentemente tra noi. Siamo più spaventati e senza parole, per questo dobbiamo ritornare a parlarne».

Cosa c’è dopo la morte?
«Continua la nostra vita umana, ma in maniera diversa, appunto, risorta. Viene trasformata, come fu trasformata quella di Gesù. Saremo come Lui dopo la resurrezione».

E cioè?

«Pensiamo ai quaranta giorni che trascorre il figlio di Dio dopo che è risorto: è tornato tra i discepoli, parla, mangia e cammina con loro. In una maniera diversa da prima, ma sempre umana. E quando Gesù, durante i tre anni di predicazione, parlava del “dopo”, del Regno dei cieli, ne parlava come di un grande banchetto di bevande nutrienti, di cibi succulenti, di festa per tutti i poveri. Insomma, con la risurrezione di Gesù l’umanità è entrata nel cielo e in Dio stesso, sino a poter dire che il Padre non è più puro spirito, perché suo figlio è entrato nella Trinità con il suo corpo».

Nella vita integralmente risorta proveremo quindi anche le sensazioni?

«Sì certo, non un’esistenza di puri spiriti. Giovanni nell’Apocalisse parla di cieli nuovi e terra nuova. La Bibbia vuole convincerci che in Paradiso ci vediamo, ci tocchiamo, ci abbracciamo. Non è una contemplazione immobile».

E come sarà possibile?

«Come non lo sappiamo. Ma tra questa esistenza e quella successiva c’è continuità. Del resto, il Paradiso, come anche l’Inferno, iniziamo apre pararlo fin da ora sulla Terra. Ogni atto d’amore costruisce il Paradiso, così come ogni gesto di odio e di in differenza costruisce l’Inferno».

Cosa avviene quando moriamo?

«Una seconda nascita, perché non è la fine. È l’incontro tra un figlio peccatore e un Padre misericordioso e amorevole e potrà abbracciarlo».

Anche se è l’anima di un peccatore?

«L’Inferno è possibile: è per coloro che rifiutano l’amore del Padre misericordioso. Io mi auguro che sia vuoto».

Questo vorrebbe dire che tra peccatori e brave persone Dio non fa differenza?
«Chi si pente è sempre perdonato».

Non è una soluzione troppo facile?

«Perdonare non è perdonismo, non si cancella il male compiuto. Per riuscirci bisogna iniziare una trasformazione intensa, dura. Spesso quando si parla di questo lo si riduce a una mostra di buoni sentimenti a comando, non capendo la forza terribile del male».

Lei ha paura di morire?

«Certo che ne ho. Ma anche Gesù l’aveva. È importante parlarne, cercare di prepararsi, di far crescere la nostra vita interiore, la preghiera, l’amicizia. Il passaggio diventa più facile, meno doloroso. Tenersi per mano in quel momento significa aver già vinto la morte; lei vuole separarci».

E del suicidio assistito cosa pensa?
«Non lo concepisco. Non collaborerò mai con il lavoro sporco della morte, anche se alcuni pensano di vestirlo di compassione. Sarebbe la sua ultima vittoria. L’amore vuole l’eternità».

Conosce bene papa Bergoglio. Ce ne parla?
«È un grande profeta. È l’uomo che in questo tempo riesce a dare al mondo intero una visione che accomuna tutti. Si è assunto l’arduo compito di indicare a tutti, cristiani e no, credenti e no, la visione di un mondo nuovo, più fraterno, più solidale, più pulito».

Il Santo Padre si è attirato polemiche quando è intervenuto sui migranti.

«La reazione di difesa e di paura verso di loro è indotta, frutto di pregiudizio. Gli esempi di accoglienza e integrazione dei profughi con i corridoi umanitari mostrano il contrario. Intendiamoci, che ci siano problemi è vero».

Infatti la gente ha paura.
«Questa paura nasconde in verità altri timori, come l’incertezza del futuro, la mancanza di lavoro, la violenza che cresce. E poi mi domando: non dovremmo forse essere preoccupati delle migliaia di nostri giovani che vanno all’estero? Non è questo un drammatico impoverimento per il nostro Paese?».

Come valuta il lavoro che sta facendo Draghi?
«Molto bene. Il suo governo ha tutte le possibilità per aiutarci a uscire dalla crisi, per dare all’Italia una nuova prospettiva nel contesto europeo e internazionale».

È vero che è stato il primo prete a entrare in Albania dopo il crollo del comunismo?

«Era il 13 marzo del 1991 e quella terra viveva giorni drammatici. La religione era proibita dalla costituzione. Papa Wojtyla mi disse di partire. Il ministro degli esteri albanese non voleva vedere nemmeno un prete, ma riuscii lo stesso a portare il Vangelo in quel paese comunista. In mezzo alla povertà assoluta. Ho assistito con i miei occhi al miracolo del cambiamento».

Fu lei a agevolare la visita di Gorbaciov a Roma?

«Papa Giovanni Paolo II voleva andare a tutti i costi a Mosca, ma il suo essere polacco glielo impediva. Conobbi nel 1988 uno dei consiglieri più ascoltati di Gorbaciov e cominciammo a lavorare su questo. Sentivano che l’Unione Sovietica doveva cambiare e in meno di due anni riuscimmo a organizzare il viaggio del presidente del Soviet a Roma. L’incontro tra lui e il Santo Padre del primo dicembre 1989 fu storico. Tra loro nacque un rapporto solido».

Nel suo magistero si occupa anche di nuove tecnologie e intelligenza artificiale?
«Certo. La passione per l’umano che connota la Chiesa dopo il Concilio è interpellata anche da queste prospettive perché riguarda le donne e gli uomini in maniera universale. Non possiamo non interessarcene e non appassionarcene, al di là delle idee e delle fedi».

Cosa ci attende per il futuro?

«Per risponderle uso la frase che la mamma, recentemente scomparsa, di un amico americano gli ripeteva sempre: “The best is ahead of us”, “Il meglio deve ancora arrivare”».

(Libero)