Il mondo digitale sta riscrivendo il nostro rapporto con la morte

di Marco Grieco

Mentre in Europa negli anni Quaranta imperversava la Seconda Guerra Mondiale, nei teatri americani veniva proiettato Fantasia: Disney narrava la morte del mondo nella danza dei demoni sul monte Calvo, eppure lasciava il finale alle note dell’Ave Maria di Schubert su un mondo aperto alla vita. Come scrive Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri (Mondadori, 2006), la morte ha quel potere di muovere l’uomo e schiuderlo.

Ma cosa accade quando la società tende a rimuovere la morte? Perché si dà il caso che questo stia avvenendo nel digitale, almeno nella radiografia implacabile che ne dà il filosofo coreano Byung-Chul Han: «La morte presuppone che la vita stessa abbia una conclusione, quindi se si priva la vita di qualsiasi possibilità di conclusione, essa finirà nel momento meno opportuno» (La scomparsa dei riti, Nottetempo, 2021).

Nella riproposizione di spazi virtuali apparentemente infiniti, il virtuale illude in una morte ridimensionata, addirittura scomparsa: «Vincere la morte rimane il sogno proibito dell’uomo e poterla rimandare ci illude di poterla superare – spiega monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la Vita -. D’altra parte, abbiamo superato limiti che tempo addietro ritenevamo intoccabili. I desideri sembrano essere divenuti tutti realizzabili e non ci saremmo mai immaginati, nel nostro mondo occidentale, di soccombere davanti ad un misero e invisibile virus. Ci credevamo troppo evoluti per dover lottare contro un parassita che pensavamo potesse mettere in crisi, al massimo, qualche disgraziato confine del sud dimenticato del mondo. Sì, la pandemia rovescia con forza su di noi una questione antica: la Bibbia dice che abbiamo ‘i giorni contati e un tempo fissato’. Forse si tratta di viverli meglio, non solo di affannosamente di aumentarli».

Raccolte di informazioni dettagliate hanno già permesso a un’IA di generare l’avatar di una bambina di sei anni morta per una malattia rara. L’esperimento virtuale, mandato in onda sulla tv sudcoreana e su YouTube, mostra l’incontro tra la madre (reale) e la figlia (virtuale) in un interscambio emotivamente toccante, ma biologicamente impossibile. L’avatar della bambina morta interagisce con la madre attraverso la ricostruzione della sua voce, ma nessuno considera finora gli effetti sulla psiche della madre.

«Le nuove tecnologie e gli sviluppi della robotica ripropongono nella modernità la sfida di Icaro: farsi delle ali e volare, anche al di là del tempo. Poter sopravvivere a me stesso in una macchina, nella memoria dei megabyte,  cedere ad una macchina la funzione di rimanere accanto al dolore e alla sofferenza, fuggendo da ciò che ci spaventa: star male e veder soffrire – spiega mons. Paglia, autore del libro Sorella morte (Piemme, 2017) -. Con la Pontificia accademia per la Vita abbiamo promosso un manifesto per dare un’anima alla relazione tra l’uomo e le nuove tecnologie e per restituire una chiarezza: la macchina rimane un mezzo e uno strumento nelle mani dell’uomo, il fine resta il bene della persona e quello pubblico. Cancellare il dolore rende disumani. Ma non serve certo l’IA per diventare disumani: basta girarsi dall’altra parte quando si incontra una persona che vive per strada o non si visita un anziano che vive da solo la stagione del tramonto» spiega.

Il progetto, ancora in fase di test, ha suscitato numerosi interrogativi etici, a cui egli stesso ha dato una risposta: «Non stiamo cercando di sostituire una persona morta. L’avatar è come un bibliotecario: aiuta gli utenti a dare un senso alle informazioni che sono state memorizzate». Da qualche anno, Facebook ha introdotto la possibilità di ricordare gli account delle persone scomparse con un profilo commemorativo. Sulla piattaforma, chi vuole può lasciare un messaggio e pubblicarlo a seconda delle impostazioni sulla privacy. Il social segue le orme di Google, che già nel 2013 lanciava una gestione dell’account inattivo per amministrare i dati degli utenti scomparsi.

In questo caso, l’account della persona morta poteva essere collegato ad alcuni contatti fidati, che avrebbero potuto avere accesso anche ad altri tipi di dati, come i drive, se consentito dalle norme di rispetto della privacy. Ma Google e Facebook non hanno creato una Spoon River digitale, semmai scatenato un’elaborazione del lutto infinita. Questo è ancora più evidente in un caso controverso riportato da The VergeEugenia Kuyda, ingegnera russa che ha perso il suo migliore amico Roman Mazurenko in un incidente stradale, ha realizzato un bot tramite cui amici e parenti possono interagire come se fosse ancora vivo.

Il bot commemorativo assembla frasi della persona che Kuyda ha caricato per anni e anni su un database. Prima di morire, Mazurenko stava lavorando a un progetto simile. Nel 2015 aveva fatto richiesta di borsa di studio per realizzare un nuovo tipo di cimitero, Taiga. I morti sarebbero stati seppelliti in capsule biodegradabili e i corpi avrebbero fertilizzato gli alberi. Sotto ogni albero ci sarebbe stato un display digitale con tutte le informazioni biografiche sul defunto. «Ridisegnare la morte è una pietra angolare del mio costante interesse per le esperienze umane urbana» scriveva Mazurenko sul suo diario, commentando la resistenza degli statunitensi ai funerali.

L’IA non rischia di sostituire il ricordo con un agglomerato di dati gestito da un algoritmo di deep learning?  «La fuga di fronte al dolore, alla debolezza, alla fragilità, ossia il tentativo di anestetizzare la vita è una sciocca e, alla fine, crudele illusione – spiega mons. Paglia -. Intendiamoci: che il dolore vada combattuto è più che positivo, E in questo senso un’alleanza tra etica e tecnologia è più che utile. Ma la pretesa di eliminare dalla nostra vita il dolore – con tutto ciò che in esso è implicato e non solo sul piano fisico ma anche su quello dei sentimenti – è pericolosissimo: significherebbe essere in balia del male. Sentire dolore aiuta a reagire, rende più prudenti, sollecita lo sdegno per combattere il male che si abbatte su di noi e sulla società».

Il già citato Han la chiama società palliativa: «Ci si sfrutta da soli credendo di autorealizzarsi. Mediante il culto dell’autenticità̀, il regime neoliberista si appropria della persona e la trasforma in un sito produttivo ad altissima efficienza». Nella positività della produzione non c’è posto per la naturalissima morte, archetipo della negatività. Per cui, anche gli eventi più drammatici, diventano pretesto di un possesso morboso.

Lo spiega bene Michela Murgia in una recensione al romanzo di Walter Siti, Bruciare tutto, commentando il disturbante risvolto della foto del piccolo naufrago siriano Aylan nel deep web: «La foto di Aylan è pornografica in sé, perché della pornografia ha la natura: produce la sensazione senza la relazione. Quella foto ha offerto al senso di colpa collettivo la forma autoconclusiva tipica del porno: ha generato l’illusione che dispiacersi per quel corpicino bidimensionale equivalesse a occuparsi del suo dramma. Il pianto collettivo su Aylan è dunque desiderio – che è uno dei nomi dell’assenza – ma anche abuso, perché compiuto fuori da ogni possibile reciprocità. Se Aylan sono tutti, Aylan non è più nessuno, perché la mimesi dell’intimità rende estraneo chiunque e dell’estraneo puoi fare qualunque uso, persino piangerlo, persino desiderarlo». Questo spiega perché la foto degli autocarri con le bare impilate, scattata a Bergamo nella notte del 18 marzo 2020, non solo non ci colpisce più di tanto a un anno di distanza, ma nella sua riproposizione collettiva viene addirittura sconfessata.

Ciononostante, negli ultimi anni si sta diffondendo un nuovo approccio al digitale. La pandemia di Covid-19, che ha atomizzato la già deteriorate relazioni sociali, ha spinto alcuni designer ad occuparsi dell’interazione tra l’uomo e le tecnologie attraverso la materia. È il cosiddetto material design, un sistema che progetta contenuti riproducendo nel digitale l’esperienza virtuale della carta, con la creazione di pulsanti e leve per aumentare l’effetto tangibile. È quanto realizzano Matteo Dacome e Jessica Valanzano, fondatori di Jesma.it: «La sfida del product design è trasformare la consapevolezza dell’utente in formato digitale, aumentando così l’esperienza immersiva» spiega Dacome. Ma non si tratta dell’ennesimo modo di manipolare la consapevolezza? «Oggi è impossibile pretendere a livello materico l’esperienza che ci dava un pallone supersantos, che per la sua leggerezza ci illudeva di essere Holly e Benji – spiega -. Oggi invece deleghiamo i nostri rapporti umani all’esperienza utente, ma manca la percezione dell’user experience: noi cerchiamo di spiegarla, anche se manca un’alfabetizzazione generale delle persone».

Come rivela il rapporto Istat “Cittadini, imprese e Ict” (2019), in Italia almeno 18 milioni di italiani non utilizza Internet. A questo dato, se ne aggiunge un altro peggiore, che riguarda la mancanza di consapevolezza dello strumento: solo il 13% dei cittadini sbriga le pratiche amministrative online e il 40% dei dipendenti di imprese private non sa utilizzare bene i software. «Intanto, dall’altra parte del mondo, vediamo robot umanoidi come Sophia e una tendenza sempre maggiore a delegare alla tecnologia. L’intrattenimento dei social colma una mancanza di consapevolezza» spiega Matteo Dacome.