Il dialogo tra le religioni come contributo alla democrazia

Il dialogo tra le religioni come contributo alla democrazia

“Il terzo millennio non poteva iniziare peggio di così”, lamentava Mario Luzi in una recente intervista. E noi potremmo aggiungere che, dopo gli ultimi fatti di Beslan, il male ha superato ormai anche la soglia di se stesso, o per dirla con Cacciari è divenuto “indicibile”. Certo ci fa pensare l’affermazione di Bin Laden: “Occorre rispondere con le armi al dialogo”. E sappiamo che purtroppo non è solo una provocazione; e tuttavia raccoglierla significherebbe legittimarla, rendendola parte del semplificato schema huntingtoniano del conflitto delle civiltà. Mi pare invece molto più realistico quel che Tarik Alì, uno scrittore londinese di origine pakistana, chiama “Lo scontro dei fondamentalismi”: non sono le civiltà a scontarsi ma le ali estreme. Parlare perciò di conflitto di civiltà tra Islam e Cristianesimo (identificato poi con l’Occidente) significa non comprendere la complessità di una storia che dura da circa 1400 anni, per fare un solo esempio. Purtroppo il demone della paura – un demone che non è affatto innocuo – spinge verso reazioni esasperate, e porta ad atteggiamenti unilaterali che esasperano i conflitti.
Il dialogo ha invece la forza di portare verso la pace. Purtroppo è poco praticato, spesso banalizzato e ritenuto ingenuo. Ha, invece, una dimensione articolata che riesce ad entrare nelle complesse pieghe del mondo contemporaneo. Indubbiamente, oggi, sul dialogo è scesa come una grande gelata. Sembra che nessuna trattativa di pace faccia progressi, mentre la violenza, la rottura dei negoziati, la guerra delle identità, la forza delle armi siano le regole quotidiane. E c’è una sorta di delegittimazione del dialogo nel campo dei conflitti. Ma questa delegittimazione è quanto mai pericolosa. Anzitutto bisogna evitare di lasciarsi assorbire totalmente dal problema terroristico per pensare il futuro del pianeta. Mentre infatti si combatte doverosamente il terrorismo (e bisogna combatterlo adeguatamente e non semplicemente in modo cieco) è necessario porre grande attenzione all’impegno per la convivenza tra popoli, tra culture, tra civiltà, tra religioni diverse. Infatti, ammesso che si riesca a debellare il terrorismo, restano in piedi le trentacinque guerre dimenticate, il drammatico divario tra Nord e Sud, l’AIDS che falcidia milioni di persone, e soprattutto resta anche in piedi il vero problema del futuro che è la convivenza tra popoli di cultura e di fede diversi. E’ qui la grande sfida che va affrontata sin da oggi.
Ebbene, l’unica strada per aiutarci a vivere tra diversi è il dialogo. Si tratta di una via complessa, ardua, difficile, ma non c’è scelta. E’ l’unica. La condizione umana sta diventando appunto la vicinanza tra diversi. E sappiamo che la convivenza tra diversi non è facile: troppe differenze all’interno della mondializzazione inducono verso individualismi irresponsabili, tribalismi difensivi, nuovi fondamentalismi. C’è gente che si sente aggredita e spaesata di fronte a nuovi vicini e a un mondo troppo grande, e quindi si lascia prendere dalla paura del presente e del futuro. E costoro, facilmente, chiedono alle religioni di proteggere la loro paura, magari con le mura della diffidenza. Nascono così fondamentalismi di generi diversi che, come fantasmi, pullulano e inquietano. Crescono anche fondamentalismi di carattere etnico o nazionalista, che giungono sino al terrorismo. E in genere tutti i fondamentalismi hanno il marchio dell’odio, se non della lotta al diverso religiosamente o etnicamente. Gilles Kepel osserva a proposito del libro di Huntington: “Gli islamismi lo adorano: porta acqua al loro mulino, le due civiltà sono incompatibili, dunque il mondo musulmano ha ben ragione di rinchiudersi in un’alterità radicale rispetto all’Occidente”.
In tale contesto le religioni acquisiscono una nuova responsabilità. Esse,  contribuendo in modo determinante nel definire l’identità dei popoli, sono poste oggi di fronte ad un bivio: o favoriscono l’incontro tra popoli diversi o ne approfondiscono i fossati. Conosciamo i drammatici effetti della seconda scelta, basti pensare ai Balcani. La mutua ignoranza porta rapidamente all’inasprimento. Responsabili religiosi isolati si trovano talvolta costretti in orizzonti troppo nazionalisti. L’universalità, che è propria delle diverse tradizioni religiose, si libera nel contatto reciproco e nel dialogo. E’ un lavoro lungo che richiede una pazienza “geologica” diceva un amico. Bisogna frequentare le grandi tradizioni religiose e coglierne la spiritualità, senza che questo significhi perdere la propria identità in una confusione da moderno mercato. E deve crescere la stima dei mondi religiosi complessi e popolati di pensieri, di santità, di fede, come anche di errori e di peccato.
Gli incontri tra uomini e donne di religione che si sono susseguiti negli anni, a partire da quello di Assisi del 1986 quando Giovanni Paolo II radunò i capi religiosi delle Chiese cristiane e delle grandi religioni mondiali, hanno messo in rilievo ciò che unisce, ma anche ciò che differenzia e che divide. L’esperienza della Comunità di Sant’Egidio, che ha riproposto di anno in anno questi incontri nelle diverse città europee, ne mostra la fecondità. L’incontro di Milano appena concluso è stato assolutamente straordinario in questo senso. E si badi bene, non si tratta di simulare un facile irenismo e tanto meno di trovare un minimo comune denominatore religioso. Il dialogo vero e sincero non appiattisce. E’, invece, l’arte paziente di ascoltarsi, di capirsi, di riconoscere il profilo umano e spirituale dell’altro. Il dialogo è un’arte della maturità delle culture, delle personalità, dei gruppi. L’unilateralismo è invece figlio della paura e dell’ignoranza.
L’incontro tra le religioni è la via per incamminarsi verso un mondo in cui i diversi sappiano convivere. E’ qui che bisogna concentrare gli sforzi: si tratta di ri-apprendere e ri-praticare l’arte del convivere che per secoli è stata possibile. L’arte del convivere, come ogni arte, richiede disciplina interiore, studio, conoscenza e comprensione reciproca, stima, superamento di pregiudizi e ricerca di valori condivisi. Insomma, richiede l’esatto contrario della semplificata e pericolosa teoria dello scontro tra civiltà. La differenza che c’è tra le religioni, e tale deve restare, non deve tuttavia scoraggiare e tanto meno impaurire. Essa ormai è parte integrante della vita contemporanea. E tale attitudine trova le sue fonti anche in una ricomprensione dell’antico racconto di Babele. L’autore sacro, dopo aver presentato la tavola dei popoli al capitolo 10 della Genesi, parla dell’intenzione degli uomini di “farsi un nome per non disperdersi”. E decidono di fare a Babele una torre per essere un solo popolo e una sola lingua. Ebbene, di fronte a questa decisione di unità, Dio invece decide di disperderli su tutta la terra, confondendo le loro lingue. Insomma la diversità è voluta da Dio. Essa non solo è una realtà della storia ma ha anche un suo valore religioso. E’ a dire che è necessario elaborare una teologia della differenza, ancora del tutto assente, accanto a quella della comunione piuttosto avanzata. La maturità delle stesse identità nazionali sta nel sapersi incontrare, aggregare, relazionare, conservare se stesse nello scambio. E qui c’è, a mio avviso, quel grande segreto europeo che è la capacità di sintesi che l’Europa ha nelle sue radici e che purtroppo fa fatica a far emergere. Differenza e dialogo sono perciò le guide per allargare lo sguardo al mondo interno, per trovare senso in una convivenza tra gente diversa. Il dialogo non è un fatto accademico, è un modo di vivere.
La fede, ma anche la ragione, debbono diventare cultura di riconciliazione e di dialogo, ossia un modo di vedere largo, un modo di amare senza confini, un modo di vivere che non riduce le cose ai propri schemi mentali. Ognuno è chiamato ad aprire la propria mente e il proprio cuore. E’ facile, sia a i credenti che ai non credenti, essere sensibili solo a quello che sta vicino, a quello che tocca e commuove; e ignorare ciò che sta lontano da sé. Il dialogo è anche una mente e un cuore ospitali a ciò che non ci tocca direttamente. L’ignoranza è funzionale all’egoismo. E nell’ignoranza appassiscono l’amore, la generosità, l’audacia, la passione, il sogno di un mondo di pace. La forza dialogo spinge ad uscire da sé per recarsi nei cuori degli altri al fine di creare una cultura della pace. E’ quel che fece Francesco di Assisi quando, in tempo di crociata, si recò dal Sultano a Damietta, non certo per fare compromessi di fede, ma per dibattere con lui. Sì, aveva intuito la forza della “parola” e del dibattito. E’ quel che oggi chiamiamo lo “spirito di Assisi”, ossia l’avvicinamento dei diversi mondi religiosi sulla via del dialogo e del confronto, anche forte e serrato, per raggiungere l’unica meta: la pace tra i popoli. Il dialogo perciò non ha frontiere e oggi, a mio avviso, deve comprende anche il noto precetto evangelico dell’amore per i nemici. Lo accenno appena. In un mondo come l’attuale l’amore per i nemici è parte non solo dell’etica della responsabilità (ossia siamo responsabili anche dei nemici), ma anche di una politica sapiente. Il male va debellato, il nemico va fermato e possibilmente cambiato.
C’è una convinzione al fondo del dialogo: nel cuore dei popoli (e, a maggior ragione, delle religioni) ci sono gli ideali per la convivenza, ed anche forze cieche e violente. Atenagora, un credente, nato in quel crogiuolo di popoli ch’è la terra balcanica, vissuto negli Usa e poi eletto patriarca ecumenico a Istanbul, diceva: “Tutti i popoli sono buoni. Ognuno merita rispetto e ammirazione. Ho visto soffrire gli uomini. Tutti hanno bisogno di amore, se sono cattivi è forse perché non hanno incontrato il vero amore… So pure che esistono forze demoniache e oscure, che a volte si impossessano degli uomini e dei popoli, ma l’amore di Gesù è più forte dell’inferno”. Ebbene, sconfiggere le forze violente e liberare quelle positive, fa parte della difficile arte del convivere che tutti dobbiamo apprendere e praticare. E per questo c’è bisogno di più fede, non di meno fede. Come pure, a mio avviso, c’è bisogno di più ragione, di più laicità. Ma qui vado oltre il mio tema. In ogni caso questo “di più” deve trovare attenti sia laici che i credenti: ad ambedue è chiesto maggiore audacia per creare e praticare l’arte del convivere tra diversi, per vivere gli uni accanto agli altri e non gli uni contro gli altri. E’ la democrazia, ma soprattutto l’unico futuro possibile del pianeta.