Ho ricevuto, ho trasmesso. La crisi dell’alleanza tra le generazioni

Introduzione

L’incontro di studio tenutosi nel novembre scorso a Roma presso il Pontificio Consiglio per la Famiglia («Ho ricevuto, ho trasmesso. La crisi dell’alleanza tra le generazioni») è stato la felice occasione per riflettere e discutere su un problema molto sentito nell’esperienza comune, ma insieme trascurato dalla comunicazione pubblica. Studiosi di discipline e orientamenti diversi, cattolici e laici, hanno proposto analisi, diagnosi e interpretazioni su una questione che ci preoccupa non poco e che manifesta la profonda crisi in cui versa la società contemporanea, soprattutto nell’Occidente. È difficile sopravvalutare l’importanza del rapporto tra le generazioni. Si tratta infatti di una struttura antropologica fondamentale sotto il profilo sia dell’esperienza personale sia dei legami sociali e quindi della configurazione della civiltà stessa. E tuttavia, se volessimo rappresentare il susseguirsi delle generazioni come i piani di un palazzo, dovremmo purtroppo dire che stiamo correndo il rischio di costruire i diversi piani senza più né gli ascensori né le scale. Ciascun piano crede di dover bastare a se stesso, costringendosi a una triste autoreferenzialità. Come non pensare con qualche angoscia a questa situazione? Sentiamo tutti l’urgenza che le generazioni ritrovino il modo per comunicare tra loro.

Occorre francamente riconoscerlo: la generazione adulta attuale ha in larga misura mancato la sua responsabilità. Spesso semplicemente perché non c’è stata, preoccupata com’era a pensare solo a se stessa, oppure a credere che bastasse saturare di merci e di consumi il paesaggio in cui le nuove generazioni nascevano e cominciavano a muoversi. In verità – e bisognava comprenderlo per tempo e per bene – la scena di quel ‘misterioso appuntamento tra le generazioni’, secondo la suggestiva immagine di W. Benjamin ripresa nel contributo di Francesco Stoppa, non doveva essere disertata dagli adulti e, ovviamente, neppure occupata per intero e troppo a lungo, come esclusivo monopolio dei padri. Nella scena occorreva e occorre starci, ma con la consapevolezza del proprio limite e nella prospettiva di lasciare il campo. Lo splendore di questo atteggiamento e di questo gesto è condizione perché alle giovani generazioni si schiuda quel futuro che oggi è loro tendenzialmente negato. Appare significativo quanto scrive un intellettuale italiano, Michele Serra, nel suo recente romanzo, Gli sdraiati, a proposito dello scarto che separa la nuova generazione da quella dei padri. La finale che vede il figlio procedere sul cammino oltre il padre, indica quell’indispensabile rapporto che si crea tra consegna e distacco. Ristabilire questo rapporto tra le generazioni è una questione decisiva perché costitutiva della civiltà, di tutte le civiltà.

C’è da dire anzitutto che il disagio dei giovani di questo tempo non sembra più causato da una eccessiva presenza del padre, come poteva accadere nel recente passato quando si sentiva l’urgenza di liberarsi da un peso troppo ingombrante. Ricordo a questo riguardo un libro che ebbe grande fortuna negli anni ‘60/’70, Verso una società senza padre, di A. Mitscherlich, studioso di psicologia sociale. Sono passati 50 anni ed è avvenuto quanto evocato dal titolo. Fin troppo. È la fin du dogme paternel, l’evaporazione, il tramonto del padre. In effetti, il dramma dei giovani oggi sembra l’opposto di ieri: abbandonati dai padri, attendono ora un ritorno della paternità. Non alla stregua dell’impossibile ritorno di una figura del passato. Ma è comunque chiara una inedita domanda di padre. Per riprendere l’immagine della mitologia greca – sulla scia di Massimo Recalcati −, si potrebbe dire che la figura di Telemaco bene esprime le attese dei giovani oggi. I figli, infatti, stanno in riva al mare e scrutano l’orizzonte aspettando che il padre ritorni e metta ordine nell’isola dominata e saccheggiata dai Proci. Telemaco cerca il padre, non come rivale con il quale battersi, ma come una speranza, come la possibilità di riportare una Legge nell’isola devastata dalla sua assenza.

Mi chiedo – per fare un salto nella realtà attuale − se qualcosa del padre non sia tornato con Papa Francesco che continua a radunare persone provenienti da ogni dove e di qualunque età. È re-iniziata un’alleanza? Ovviamente ce lo auguriamo. Fa comunque riflettere che tale alleanza si riaccenda in un contesto religioso che appare fresco, diretto, ospitale. Mi fa piacere sottolineare, a tale proposito, la realizzazione da parte del Pontificio Consiglio per la Famiglia dell’icona della Presentazione di Gesù al tempio, che ha presieduto il pellegrinaggio delle famiglie a Roma per l’anno della fede. Il suo titolo, «Di generazione in generazione», intende sollecitare la comprensione della famiglia all’interno dell’intreccio delle generazioni. Papa Francesco ha voluto sottolinearlo parlando esplicitamente del compito degli anziani verso i più giovani e dell’importanza che i giovani ascoltino la loro voce per apprenderne l’esperienza.

Nell’intera tradizione biblica, sia giudaica sia cristiana, l’alleanza tra le generazioni è centrale. Basti pensare al fatto che la trasmissione della fede nella Scrittura assume la forma della narrazione dei padri ai figli di quanto Dio ha fatto per il suo popolo. Generare è narrare: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto, che i nostri padri ci hanno raccontato, non lo terremo nascosto ai nostri figli, che racconteranno alla generazione seguente le lodi del Signore e la sua potenza, le meraviglie che egli ha compiuto» (Sal 78, 3-4) .Tutta la storia biblica è innervata sulla trama del succedersi delle generazioni. Pensiamo anche a quanto siano importanti le figure della paternità e della filiazione nella Scrittura, fino ad assumere la valenza simbolica più alta per esprimere il rapporto tra Dio e l’uomo e la natura stessa di Dio.

Ma questo essenziale movimento della trasmissione della fede è messo a rischio, come rileva mons. F.G. Brambilla nel suo intervento, dall’odierna difficoltà anche semplicemente a trasmettere i valori fondamentali dell’umano. In un’epoca come la nostra di vertiginoso cambiamento sociale, economico, valoriale, la generazione adulta rischia di vivere come inutile o irrealizzabile il passaggio del testimone, la consegna ai giovani degli ‘attrezzi’ per vivere. Qualcuno parla anche di un inedito nella storia dell’Occidente, di una sorta di cesura nella successione tra le generazioni. Quando i figli sono capaci di utilizzare le tecniche infinitamente meglio dei genitori, si può trasmettere ancora qualcosa a chi viene dopo di noi, ai nostri figli? E comunque c’è qualcosa che vale la pena di trasmettere? Sono domande radicali che spesso inquietano i padri e le madri di oggi, mettendone in discussione l’impegno e la tenuta nella dedizione. Il rischio è che i padri e le madri si percepiscano come l’ultimo anello di una catena ormai spezzata.

Tuttavia, la nitida percezione della crisi in atto non deve indurre alla tentazione di idealizzare il passato o di coltivare l’illusione di un suo possibile ritorno. Infatti, l’atto stesso della trasmissione in ogni tempo e in ogni luogo è ‘a rischio’ per l’intrinseca precarietà che lo caratterizza. Si tratta cioè di un ‘meccanismo’ molto delicato, perché è il luogo in cui il nuovo e l’altro si fanno strada oltre ciò che li precede. Il succedersi delle generazioni non è come un lungo fiume tranquillo. Anche la storia biblica a cui prima si accennava è piena di passaggi falliti, dei drammi della paternità: quante volte si parla della generazione dei padri che ha peccato e dei figli che scontano le colpe dei padri; Davide stesso, figura del Messia, è un padre che conosce nella morte del figlio Assalonne il dolorosissimo scacco del fallimento. E perfino nelle genealogie evangeliche di Gesù non tutto scorre tranquillo; l’evangelista Matteo, ad esempio, inserisce nell’elenco anche rappresentanti del paganesimo e donne tutt’altro che esemplari.

In un saggio del 1964 sul ‘tradimento’, James Hillman proponeva una interpretazione del tradimento come passaggio necessario, da parte del padre, per iniziare i figli alla vita. La fiducia originaria del figlio nei confronti del padre deve spezzarsi, affinché il figlio possa intraprendere, da solo, il proprio cammino di ‘individuazione’, quel cammino che secondo C.G. Jung è indispensabile perché ciascuno diventi se stesso. Il tradimento avviene anche da parte dei figli nei confronti dei padri, quando i figli reinterpretano in modo nuovo quei valori che i padri hanno loro consegnato. Potremmo dire che tradizione e tradimento sono stretti tra loro in un rapporto reciproco per cui non si dà l’uno senza l’altro. I valori e l’insieme di saperi consegnati dalla generazione precedente, per essere vivi, aperti al presente e orientati al futuro, debbono trasformarsi, ‘tradire’ quindi qualcosa del significato che rivestivano in passato. Insomma, c’è bisogno della reinterpretazione da parte della nuova generazione dei valori trasmessi dai padri.

In tal senso dobbiamo evitare di indulgere al catastrofismo, sempre facile quando si parla di questo tema. La parola ‘crisi’ allude sì a un rischio, all’esposizione al pericolo, ma insieme essa annuncia la possibilità del nuovo. Il momento della crisi può rappresentare il varco generatore di un futuro inedito, l’incubazione di una rinascita. Anche in questo la storia biblica ci è di estremo aiuto, attraversata, com’è, dalla dinamica del passaggio alla vita nuova, cominciando dall’esodo di Israele per finire con la Pasqua di Gesù.

Il Convegno, e i testi che ne sono il frutto, è entrato con consapevolezza e fiducia in questo territorio così importante, delicato e difficile. Facendo registrare una singolare e sorprendente convergenza, pur da punti di vista e riferimenti diversi. L’imprescindibile apporto delle scienze umane, e della psicanalisi in particolare, ha consentito di ravvisare nell’individualismo della società dell’iperconsumo la genesi mortifera del disagio tra le generazioni. Se il paradigma dell’umano è l’individuo principio e fine di sé, tutto teso all’autorealizzazione nella forma di un godimento senza limiti, come potranno incontrarsi le generazioni nella loro insuperabile diversità? «Un tale individuo onnipotente ha interesse a sviluppare solo se stesso, non è interessato a trasmettere nulla» (L. Scaraffia). E se il modello oggi indiscusso dell’amore sta nell’eros romantico che vive della fusione emotiva nell’attimo senza storia, che ne è di quella distensione temporale di cui sono necessariamente intessuti i legami famigliari e sociali (P. Sequeri)? Si può essere generativi (M. Magatti) – cioè diventare il tramite perché qualcuno o qualcosa posse esistere oltre noi stessi – senza stare con tenacia nel laborioso flusso della storia? Queste domande hanno ispirato una prima disamina della problematica, senza evidentemente pretese di completezza o di sistematicità, ma con l’intento di favorire la consapevolezza  delle radici ultime della questione e dell’importanza della posta in gioco. Questo passaggio appare indispensabile nella prospettiva della fede cristiana e più precisamente del compito che si dischiude per la missione della Chiesa.

La comunità dei credenti è chiamata a svolgere un suo ruolo prezioso per promuovere la buona qualità del legame tra le generazioni, così essenziale per la sua stessa vita come per il futuro della nostra società. La Chiesa, «esperta in umanità», è chiamata, oggi più che mai, a ‘trafficare’ quel tesoro prezioso di sapienza umana che ha ricevuto dal suo Signore, che ha custodito nei secoli trasmettendolo alle nuove generazioni e che si mantiene nella sua forza unicamente se riesce a fermentare legami che tengono in vita e che nello stesso tempo aprono alla storia. Mettere a frutto questi suoi talenti, significa ‘sporcarsi le mani’ con la realtà così come essa si dà, lasciandosi coinvolgere e interrogare. È in questa prospettiva di vicinanza, di prossimità, e di dialogo, che la parola dei credenti può risuonare persuasiva e quindi dischiudere un nuovo cammino. Tragici sarebbero i toni del rimpianto, della lamentazione o della rimozione. È urgente intraprendere un intelligente accompagnamento, critico se necessario, ma assieme sempre cordiale e partecipe.

La crisi, soprattutto quella che tocca l’alleanza tra le generazioni, domanda a tutti noi, ai credenti e anche a chi non crede ma ha a cuore la vita buona della società, un sagace discernimento dei segni di questo tempo. È un compito faticoso, ma che va svolto con decisione e con piena fiducia. Sappiamo infatti che la storia umana è abitata senza pentimento dallo spirito di Dio e che la fine di un mondo non è la fine del mondo, che i momenti critici misteriosamente preludono alla nascita del nuovo.