Funerale di Enrico Micheli

Funerale di Enrico Micheli

Carissima signora Maria Rita, cari figli Paolo e Massimiliano, Caro Carlo,

Gentili autorità del Governo, della città, della regione, sorelle e fratelli tutti,

Enrico, per l’ultima volta, ha traversato la soglia di questa chiesa, la “sua” chiesa a Terni. Oggi le porte si sono come spalancate, commosse, per accogliere questo suo figlio che ha contribuito a renderla bella e che forse la vedeva già come il primo gradino della scala che porta nel paradiso, come narra la cappella accanto all’altare, chiamata appunto del “paradiso”. Ed è di qui che Enrico inizia la sua salita verso il cielo. Il male, per tanti anni ha e in tanti modi ha cercato di colpirlo, ultimamente si accanito nuovamente contro di lui e ce lo ha strappato con violenza, e troppo presto. Le ultime settimane sono state davvero dure per lui, con il dolore che non lo risparmiava. L’affetto di chi gli è stato vicino era come una goccia di sollievo in un mare di dolore. Sia per lei, cara Signore, un conforto. E’ stata accanto ad un uomo grande e buono, come tutti voi familiari potete testimoniare.

L’altra sera, quando don Demetrio gli ha amministrato l’unzione degli infermi, Enrico gli teneva stretta la mano, riconoscente per quella compagnia. Era l’uomo credente, che anch’io ho avuto il privilegio di conoscere e di stimare, che si preparava all’incontro con il suo Signore. Enrico era consapevole di quanto gli stava accadendo e ha affrontato quest’ultimo tratto della vita, da credente. Certo, sono stati momenti difficili per lui. Ma il Signore gli stava accanto come al Figlio sulla croce. Il Vangelo ci racconta la vicinanza del padre a quel Figlio messo in croce. E non lo ha abbandonato. Come con Gesù così anche con Enrico ha fatto il Padre del cielo. E ora accoglie Enrico nel mistero della risurrezione del Figlio, dopo che Enrico è passato in quello della morte. E’ ciò che celebriamo in questa Santa Liturgia. E la Chiesa, consapevole di questo mistero, ci fa cantare tra poco: “Ai tuoi fedeli Signore la vita non è tolta ma trasformata. E mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, ci viene preparata un’abitazione eterna nel cielo”. E’ il cuore della fede cristiana. E, in certo modo, è anche la narrazione della vita di Enrico che ha vissuto per anni la fragilità del corpo senza tuttavia lasciar prevalere la rassegnazione e la rinuncia. Enrico ha saputo spendere la sua vita, anche quando la malattia gli era compagna quotidiana, per il servizio ai suoi e alla società.  

Care sorelle e cari fratelli, è una grande sapienza guardare la vita con lo sguardo evangelico. Ci aiuta a vivere ed anche a morire. Non che scompaiano il dolore e la tristezza. Il distacco è sempre difficile e con la morte diventa lacerante. Ma il Vangelo ci soccorre e ci dona una visione nel cielo. Le parole evangeliche che quel padrone disse al primo dei servi al momento del suo ritorno sono dirette soprattutto ad Enrico: “Vieni servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Enrico le ascolterà da Dio stesso mentre lo accoglie sulla soglia della città santa, la Gerusalemme del cielo. E potrà così prendere parte alla gioia del Signore. E vedrà accorrere anche la mamma Tecla e il papà Foscolo che vengono per abbracciarlo. Ed anche gli amici, i tanti amici che ha conosciuto e amato. E’ la liturgia del cielo, di cui questa che celebriamo è un segno. “Vieni, Enrico – gli dice il Signore -, vieni servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.

Enrico, possiamo dirlo, i cinque talenti che ha avuto li ha impiegati tutti. Li aveva, eccome, anche se non se n’è mai vantato. Forse anche per il carattere schivo e riservato che aveva e che gli faceva fuggire i riflettori. Ma è stato sempre schietto, senza mai nascondere la verità, anche nei momenti più difficili. Come si usa dire: “non guardava in faccia a nessuno” quando si trattavano le cose pubbliche. E i talenti li ha impiegati soprattutto per servire la società, non li ha sepolti e neppure ha trafficato per il proprio tornaconto. Ha speso la sua vita per la famiglia, per la crescita di tutti, a partire per quella dalla sua Terni. Quante volte, con orgoglio, ripeteva: “la mia città”! Ne conosceva i limiti, i ritardi, le lentezze, e non mancava di avvertirmi. Ma l’ha amata con intensità, anche se se non sempre è stato compreso o ricambiato. Non ha però mai ha cessato di amarla, magari rifugiandosi nella passione per la “ternana”. Ricordo, ero appena arrivato, la domanda sui colori della maglia per vedere se ero entrato davvero nella città. Il suo interesse per Terni e per l’Umbria è stato costante. In molti lo avete notato e ricordato. E facciamo bene. Molti peraltro sono anche quelli fatti senza che se ne avesse notizia, per quell’attitudine al servizio che lo caratterizzava. Oggi, cari amici, siamo un po’ più soli: questa terra perde un figlio, noi un amico caro, la città e la regione un difensore. Lo stato saluta un servitore scrupoloso e fedele. E la Chiesa lo accoglie tra le sue braccia per consegnarlo al Padre del cielo.

Le sue qualità lo hanno portato a ricoprire uffici di alta responsabilità in momenti delicati nella vita del paese, da quelli manageriali a quelli di uomo di governo. Enrico ha vissuto questo faticoso impegno con disponibilità e sempre appassionato. E, sempre militando nella parte che aveva scelto, non ha tuttavia mai dimenticato di coinvolgere tutte le forze del paese perché lo sviluppo fosse effettivo e durevole per tutti. La faziosità non gli apparteneva. E noi che lo abbiamo conosciuto possiamo testimoniarlo. Enrico ha servito la vita pubblica, senza risparmiarsi e senza approfittarne. Della politica aveva una concezione alta, legata ad una visione alta e ad un’anima integerrima. Era consapevole del momento delicato che stiamo vivendo e del bisogno di un nuovo slancio sia della politica che dell’etica. Perseguiva una visione alta della società, che non fosse schiacciata sull’immediato o peggio sul proprio affare. La sua sensibilità di fine scrittore lo ha aiutato molto a scendere nelle profondità dei processi storici che sfuggono ai superficiali e ai politicanti, ma che sono indispensabili per una politica degna del nome. Nel libro ove raccoglie molti suoi interventi con i quali scandiva il corso degli ultimi decenni, chiude la raccolta con due pagine dalle quali traspare un uomo davvero appassionato del nostro paese. Scrive, con filo di amarezza: “Credemmo nella qualità della politica e pensammo lungo il corso degli anni, sempre, a una Italia migliore culturalmente, dal punto di vista etico, sociale e politico, padrona del proprio destino, modello per gli altri come spesso è stata nella storia, spinta dal cambiamento generazionale, dal talento e dalla fantasia”. Ma, conclude: “Ciò non è avvenuto”.

Non ha lasciato tuttavia prevalere la rassegnazione, anche se l’analisi della società continua nella sua dura crudezza: “La politica ha fallito troppe occasioni, il paese se ne è accorto, ne ha preso atto, ha lasciato le vecchie ideologie, si è frammentato attorno a concetti generici, insufficienti, superficiali, rivolti alla tutela individuale contro l’idea della solidarietà collettiva. Ciò ha consentito il prevalere dell’ipocrisia nella politica con l’elusione dell’interesse più alto e generale”. Ma poi chiude il libro, come a volerle consegnare a noi, con queste ultime parole: “Mai rinunciare all’ottimismo e alla curiosità. E’ certo che prima o poi l’Italia sarà in grado di risollevarsi”. Sono parole che accogliamo e che vogliamo conservare nella memoria personale e collettiva, mentre lo consegniamo nelle mani di Dio.

Questa concezione appassionata e alta della vita pubblica – più volte ne abbiamo parlato assieme – nasceva in lui da una profonda coscienza religiosa che sapeva distinguere i piani senza tuttavia separarli. Enrico, aveva un profondo senso di Dio e amava la Chiesa. La voleva ancor più chiaramente evangelica o, come lui amava dire, “giovannea”. E per questo con libertà ne seguiva la vita. Amava soprattutto quel grande papa che fu Giovanni XXIII, come il Concilio Vaticano II che non cessava di esaltare. Quella stagione della Chiesa gli era rimasta nel cuore. Amava una Chiesa che stesse con le porte aperte sul mondo; non perché cedesse al mondo, semmai per mostrare quell’amore di Dio che sa chinarsi sulla vita perché di tutti perché sia bella e serena.

Caro Enrico, ci mancherai. Ci mancheranno le tue analisi, le tue visioni, soprattutto la tua compagnia. Oggi, grati al Signore per quanto hai saputo dare alla nostra società, non vorremmo lasciarti. La nostra fede tuttavia ci apre uno spiraglio oltre la morte. Tu un giorno scrivesti Le scale del paradiso e ti ritrovasti finalista al premio Strega. Oggi quelle scale le stai salendo. Noi ti accompagniamo con la nostra preghiera mentre scompari dai nostri sguardi. Ci fa male non vederti più. Tu, però, dal cielo, continua a guardare e amare la tua famiglia, la tua Terni e questo nostro Paese, che hai amato e servito, perché torni ad essere – come tu dici e speri – “modello per gli altri come spesso è stato nella storia”. E il Signore ti doni la sua pace.