Famiglie e povertà: una sfida pastorale

Intervento al convegno promosso dalla Caritas Internationalis e il Pontificio Consiglio per la famiglia

La Caritas Internationalis e il Pontificio Consiglio per la Famiglia hanno voluto realizzare questa giornata di riflessione su Famiglia e Povertà nel contesto del Sinodo Straordinario dei Vescovi sulla Famiglia che fra pochi giorni avrà inizio. Già da qualche mese i due Dicasteri hanno invitato le Caritas e le Commissioni per la Famiglia delle Chiese locali a riflettere assieme su tale prospettiva che potrebbe sfuggire alla riflessione sui temi della famiglia. L’attualità, o meglio l’urgenza, del tema è sotto gli occhi di tutti anche a motivo della crisi economica che da alcuni anni sta coinvolgendo l’intero pianeta. Lo stesso Instrumentum Laboris rileva il peso che le condizioni di povertà riversano sulle famiglie. Il testo scrive: “nelle risposte e nelle osservazioni, ricorrente e diffuso è il riferimento alle ristrettezze economiche che attanagliano le famiglie, così come alla mancanza di mezzi materiali, alla povertà e alla lotta per la sussistenza. Si tratta di un fenomeno esteso, che non coinvolge solo i Paesi in via di sviluppo, ma è menzionato con insistenza anche in Europa e in America del Nord. Si constata come nei casi di povertà estrema e crescente, la famiglia si trovi a lottare per la sussistenza, nella quale concentra la maggior parte delle sue energie”(73).

C’è poi una seconda linea di riflessione che riguarda l’impegno che le famiglie debbono avere verso le famiglie più povere o comunque verso i poveri. Tale prospettiva non riguarda solo le famiglie cristiane ma tutte. La famiglia, ogni famiglia, è chiamata a vivere la carità, l’ospitalità, l’accoglienza verso i poveri. Di fronte alle possibili ritrosie di molti, Dom Helder Camara amava rispondere: “Nessuno è così ricco da non poter ancora ricevere qualcosa, e nessuno è talmente povero da non avere niente da dare”. Faceva eco a quel che diceva già prima Raoul Follereau: “Nessuno è così povero da non aver qualcosa da offrire agli altri, né così  ricco da non aver bisogno degli altri”. Lo stesso Instrumentum laboris, dopo aver rilevato le difficoltà che la povertà riversa sulle famiglie, aggiunge: “Alcune osservazioni chiedono una forte parola profetica della Chiesa in relazione alla povertà, che mette duramente alla prova la vita familiare. Una Chiesa “povera e per i poveri”, si afferma, non dovrebbe mancare di far sentire alta la sua voce in questo ambito”(73).

“Una Famiglia povera per i poveri”

Credo sia necessaria una riflessione previa che fa da sfondo di queste brevi riflessioni. In sintesi direi che va estesa anche alla famiglia l’affermazione di papa Francesco: “una Chiesa povera per i poveri”; quindi, anche “una famiglia povera per i poveri”. E mi riferisco certo alle famiglie cristiane, ma non solo. Lo dico perché, nella situazione nella quale ci troviamo, mi pare indispensabile acquisire uno sguardo spirituale per leggere, per comprendere, il “mistero” presente nei poveri che per i credenti ha il volto di Cristo e per chi non crede il volto dell’ “altro” da amare, da accogliere, da aiutare.

Prendo in prestito le parole di Padre Davide Maria Turoldo, il quale già negli anni Ottanta del secolo scorso, notava: “Oggi, in questo tempo così balordo e diseguale; in un tempo nel quale sempre più si concentrano ricchezze nella mani di pochi, e sempre più dilaga la miseria e la fame nel mondo… Con la prospettiva che sarà sempre peggio. Vorrei che fossimo tutti convinti di quanto sia giusta la tesi, condivisa oggi anche da scienziati, di rifarci alla povertà quale valore ispirante la stessa economia. Diversamente è sempre più certo che non ci sono soluzioni” (Profezia della povertà, p. 29). E aggiungeva: “La disgrazia – quindi la perdita della grazia – sta nel negare la povertà, invece di accoglierla, sta nel volerne uscire da soli o nel pretendere di non appartenervi o di esserne usciti. Insomma la povertà è una dimensione essenziale all’uomo. E i poveri ce la ricordano”. Di qui la forza profetica dei poveri! E se vengono emarginati è perché non vogliamo vederli e soprattutto non vogliamo  ascoltarli.

Il mistero dei poveri svela che tutti siamo poveri e che la povertà non riguarda perciò solo qualcuno o un gruppo, i cosiddetti esclusi, ma tutti, famiglie comprese. La beatitudine evangelica, “Beati, i poveri!”, traversa come un lampo che rischiara l’intera storia, anche se abbaglia e subito scompare alla vista. La beatitudine fa intuire che se è vero che tutti siamo poveri, beati però sono solo coloro che lo riconoscono, solo coloro che non negano questa verità del loro essere, solo coloro che non sono disperatamente alla ricerca e al possesso della ricchezza, del denaro, dell’autosufficienza. In questa luce, la povertà non è una disgrazia di qualcuno, è piuttosto la grazia per tutti. E’ in tale contesto che vorrei porre come un alto valore spirituale ed umanistico la considerazione della povertà intesa come sobrietà ma soprattutto come libertà dalla schiavitù del consumo.

Turoldo, in questa lunghezza d’onda, chiarisce: “Qui, per povertà, prima di tutto si intende libertà dalle cose; sconfitta delle cupidigie; si intende superamento del diritto di proprietà, almeno come è stato concepito e gestito fino ad ora; s’intende giustizia che sia finalmente, veramente distributiva e comunitaria. Per povertà non si intende certo miseria, e meno ancora miserabilità: si intende che l’uomo sia preso nel suo assoluto valore e non per quello che possiede”(Ivi, p.32). Purtroppo oggi più che i beni – ce ne sono per tutti – manca il senso universale del diritto di ogni uomo ad avere almeno il necessario. Per questo la povertà e i poveri sono una profezia da ascoltare. E questo “è vero anche nel senso negativo della profezia; che cioè, ad esempio, non ci può essere pace sulla terra finché ci sarà un solo uomo umiliato e offeso nel mondo. Ma per questo bisognerebbe che la Chiesa – almeno la chiesa – fosse Chiesa dei poveri, essa stessa Chiesa povera; non bastando neppure che sia Chiesa dei poveri. O è o non è. E infatti non è. O almeno così com’è, non convince, non persuade nessuno” (Ivi, p.33).

Padre Turoldo canterebbe la forza delle seguenti parole che Papa Francesco ha come inciso con ilo fuoco nella Evangelii Gaudium: “L’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale. Sociologica, politica o filosofica. Questa preferenza divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere ‘gli stessi sentimenti di Gesù’ (Fil 2,5)… Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci… E’ necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro della Chiesa”(EG 198).

Povertà e famiglia: una sfida ancora da vincere

Una prima riflessione riguarda gli squilibri generati nelle famiglie dall’aggravarsi delle situazioni di povertà. Chiunque di noi sa bene che sono mo9lteplici i volti con cui si manifesta la povertà in rapporto alle famiglie. C’è da dire anzitutto che la relazione “famiglia-povertà” fa i conti con i rapidi cambiamenti di entrambi i due poli: da un lato sono evidenti i significativi mutamenti delle forme familiari, la crescente fragilità dei legami di coppia e genitoriali, le trasformazioni dei valori e degli stili di vita ed affettivi; dall’altro, vi è una crescente disuguaglianza socio-economica che sembra caratterizzare vaste aree del pianeta che pone sfide prima del tutto inedite. In particolare la povertà è ancora saldamente determinata da una “scambio iniquo” tra nazioni e parti del mondo (la tradizionale contrapposizione tra Nord e Sud del pianeta), ma essa si manifesta in modo pervasivo ormai in quasi tutti gli aggregati nazionali. Nessun Paese può ritenere di non avere forti fenomeni di povertà al proprio interno, e l’accrescersi delle disuguaglianze sociali ed economiche sembra una cifra ineliminabile dei processi di globalizzazione, anche all’interno dei Paesi che sembrano guadagnare da tali processi. In tutte le città e in tutti i Pesi ormai la povertà traversa l’intera società e crea squilibri al proprio interno. Il demone del “profitto a qualsiasi costo” e del “consumismo senza freni” devasta sia il Nord ricco che il Sud povero.

Questa dinamica si percepisce bene nei cosiddetti “Paesi emergenti” (dai BRICS ad altre nazioni, meno importanti ma al centro di forti incrementi del PIL pro-capite, come il Vietnam o Singapore, o la Polonia, in ambito europeo), dove il maggior benessere a livello complessivo riesce solo marginalmente ad impedire l’accrescersi delle disuguaglianze. In altre parole, a livello aggregato il Paese diventa più ricco, ma questo non significa che tutti diventino più ricchi; anzi, è più facile che i ricchi divengano ancora più ricchi, e i poveri vengano lasciati ancora più indietro. E’ ormai un costatazione comune l’allargarsi della forbice tra povertà e ricchezza.

Di fronte a questi trend macroeconomici, le reti familiari, spesso ultima risorsa di protezione per tanti emarginati, spesso fanno fatica, vengono messe alla prova e a volte sfilacciate dalla povertà economica, dall’emarginazione sociale, dalla vulnerabilità complessiva che il sistema sociale ed economico scarica su di esse. A volte poi sono i legami familiari a non durare, generando spesso ulteriore vulnerabilità sociale, domanda di assistenza, fragilità educativa e povertà economica. Nella stragrande maggioranza dei casi, ad esempio, la separazione dei coniugi, oltre alle ferite e difficoltà relazionali, genera un deciso impoverimento economico per entrambi i partner, e per i loro figli ove presenti.

Famiglia e povertà, in altre parole, si fronteggiano, e a volte combattono, con esiti alterni: in alcuni casi le famiglie resistono, non solo per la propria capacità di adattamento e di reazione, ma anche per il possibile sostegno del sistema sociale (politiche sociali ed assistenziali pubbliche e private, ma anche solidarietà informali, reti di auto-aiuto, presenza di volontariato). In altri casi, invece, le stesse fragilità familiari generano, potenziano e rendono ancora più drammatiche le sfide di un sistema economico che sempre più frequentemente espone un numero crescente di persone al rischio della povertà, emarginazione, isolamento e miseria.

Se poi guardiamo le società più avanzate vediamo già da ora le conseguenze tragiche della crisi della famiglia sia in termini umani e sociali che economici e demografici. La famiglia è il luogo della vita, dove si perpetua l’esperienza della procreazione generosa e responsabile di nuovi esseri umani, unici ed irripetibili. Il venir meno del naturale ricambio generazionale sta portando il mondo occidentale ad un rapido invecchiamento della popolazione con tragiche conseguenze politiche, sociali, economiche e culturali. L’inverno demografico nei paesi occidentali già impegna pesantemente il sistema di welfare, penalizza le opportunità di sviluppo, condiziona paesi con fenomeni di iniquità intergenerazionale, di blocco della mobilità sociale, di democrazia incompiuta e di gerontocrazia tutti ancora da sconfiggere. E queste dinamiche sembrano interessare diversi Paesi delle cosiddette “economie avanzate”.

Le responsabilità di bene comune delle famiglie

Di fronte a questa situazione credo sia utile richiamare le famiglie ad una nuova consapevolezza e a una nuova responsabilità. Prendo in prestito le parole del profetico appello di Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio: “il compito sociale delle famiglie è chiamato ad esprimersi anche in forma di intervento politico: le famiglie, cioè, devono per prime adoperarsi affinché le leggi e le istituzioni dello Stato non solo non offendano, ma sostengano e difendano positivamente i diritti e i doveri della famiglia. In tal senso le famiglie devono crescere nella coscienza di essere «protagoniste» della cosiddetta «politica familiare» ed assumersi la responsabilità di trasformare la società: diversamente le famiglie saranno le prime vittime di quei mali, che si sono limitate ad osservare con indifferenza”(n. 44).

È indispensabile perciò la costruzione di soggetti sociali aggregativi (associazionismo, famiglie insieme…). Le famiglie possono cioè mettersi insieme ad altre famiglie sia per fare meglio al proprio interno che per “fare più famiglia nella società”, potremmo dire. Le famiglie associate possono diventare soggetti sociali collettivi sia per aiutarsi vicendevolmente (servizi, relazioni, esperienze di condivisione e di auto mutuo aiuto, gruppi di acquisto solidale) sia per avere più voce e più peso per edificare una società appunto più a misura di famiglia.

La famiglia, come luogo di educazione al bene comune, edifica la società: è il primo luogo dell’accoglienza dell’altro, della valorizzazione e del riconoscimento delle differenze individuali, e in particolare delle distinzioni di genere (maschile e femminile) e delle relazioni tra le diverse generazioni (genitori, figli, generazioni precedenti…). La famiglia è il luogo privilegiato dove apprendere una “diversità buona”, perché in essa esiste e si sperimenta in modo unico il rapporto fra le diversità radicali dell’umano: la differenza sessuale e la differenza tra le generazioni.

La vera sfida dell’accoglienza, in questa prospettiva, è quindi amare l’altro in quanto diverso da sé, anzi, “proprio perché” è diverso da sé. Intendiamoci, le diversità non generano automaticamente legami buoni. Al contrario, il diverso, l’altro da sé, genera spesso estraneità, senso di minaccia, paura del nemico: anche tra uomo e donna può inserirsi la violenza, la sopraffazione, lo sfruttamento, così come tra le generazioni può spesso regnare la legge del più forte. In questo senso, la famiglia può essere definita lo strumento naturale più efficace – una sorta di “laboratorio culturale” – per poter riconciliare queste differenze radicali dell’umano. Nella famiglia la diversità viene trattata, diventa buona, è riconciliata, perché e in quanto sa costruire un legame, una connessione tra le persone. Ovviamente tutto ciò suppone che il cuore di chiunque sia educato, ammaestrato, corretto se necessario.

Se poi si estende questa riflessione ai rapporti esterni alla famiglia, ci si rende conto che l’accoglienza della diversità, tema oggi socialmente molto complesso e controverso, esige anch’esso un percorso di educazione e di riconoscimento all’interno delle famiglie. Solo famiglie capaci di riconoscere e valorizzare la diversità delle persone al proprio interno sapranno educare cittadini capaci di apprezzare ad accogliere la diversità come valore da promuovere, e non come minaccia da cui difendersi. Questo vale per la multiculturalità, per l’accoglienza dei disabili, per l’inserimento sociale degli emarginati, per l’accoglienza dei bambini abbandonati attraverso affido e adozione, e per tutte quelle diversità che oggi vengono spesso escluse, anziché integrate.

La famiglia rafforza la sua capacità di avere “buone relazioni” aprendole ad altre persone, pensandosi come un ambito di “buona vita” da poter condividere con gli altri. Non mancano esperienze in tal senso. Ci sono famiglie ad esempio che vivono tale dimensione attraverso l’adozione nazionale e internazionale accogliendo bambini, facendosi carico dei propri parenti in difficoltà, dei propri genitori anziani, ma anche, più semplicemente e quotidianamente, accogliendo a casa propria, nel pomeriggio, più bambini per fare i compiti, o mantenendo relazioni di aiuto e di vicinato capaci di sostegno reciproco. Tutto ciò si radica nella consapevolezza, anche se spesso non riflessa, che la capacità solidaristica di una famiglia cresce mentre la si pratica. E si sperimenta così quanto Gesù dice: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”(At 20,35).

Nel complesso e spesso controverso versante dell’accoglienza, probabilmente solo famiglie capaci di riconoscere e valorizzare la diversità delle persone al proprio interno sapranno educare cittadini capaci di apprezzare ad accogliere la diversità come valore da promuovere, e non come minaccia da cui difendersi. Questo vale per la multiculturalità, per l’accoglienza dei disabili, per l’inserimento sociale degli emarginati, e per tutte quelle diversità che oggi vengono spesso escluse, anziché integrate. La famiglia può essere, ad esempio, un operatore culturale virtuoso di mediazione e reciprocità interculturale, rispetto alla presenza degli immigrati:

 Oltre la crisi, la responsabilità della testimonianza

C’è poi un’altra dimensione da sottolineare che si lega strettamente alla precedente. Se la prima aveva un carattere più spiccatamente politico, questa seconda possiamo porla sul piano della carità consapevoli che ha un’altrettanto forza politica di trasformazione. Anzi direi che la prima sarà tanto più efficace se questa seconda appare nella sua chiarezza. Potremmo richiamare qui il tradizionale binomio di “giustizia e carità”. Per parte mia credo che simul stabunt, simul cadent, in maniera sintetica credo che i due termini sono inseparabili, non sarà mai possibile edificare una società che non contempli le due dimensioni.

Ogni famiglia deve riscoprire il primato dell’amore per i poveri. Gesù ha messo sull’avviso coloro che si rinchiudono nei legami famigliari in una sorta di familismo egoista. Dicevamo all’inizio “una famiglia povera per i poveri”. Credo che in una società iperindividualista e consumista come quella nella quale viviamo, le famiglie sono chiamate a riscoprire l’amore privilegiato che tutti dobbiamo avere per i poveri. Papa ha raccontato questo episodio: “Una volta una mamma mi raccontava – nell’altra diocesi – che voleva insegnare questo ai suoi figli e diceva loro di aiutare e dare da mangiare a chi ha fame; ne aveva tre. E un giorno a pranzo – il papà era fuori al lavoro, c’era lei con i tre figli, piccolini, 7, 5, 4 anni più o meno – e bussano alla porta: c’era un signore che chiedeva da mangiare. E la mamma gli ha detto: “Aspetta un attimo”. E’ rientrata e ha detto ai figli: “C’è un signore lì che chiede da mangiare, cosa facciamo?” “Gliene diamo, mamma, gliene diamo!”. Ognuno aveva sul piatto una bistecca con le patate fritte. “Benissimo – dice la mamma -, prendiamo la metà di ciascuno di voi, e gli diamo la metà della bistecca di ognuno di voi”. “Ah no, mamma, così non va bene!”. “E’ così, tu devi dare del tuo”. E così questa mamma ha insegnato ai figli a dare da mangiare del proprio. Questo è un bell’esempio che mi ha aiutato tanto. “Ma non mi avanza niente…”. “Da’ del tuo!”. Così ci insegna la madre Chiesa. E voi, tante mamme che siete qui, sapete cosa dovete fare per insegnare ai vostri figli perché condividano le loro cose con chi ha bisogno. La madre Chiesa insegna a stare vicino a chi è malato. Quanti santi e sante hanno servito Gesù in questo modo! E quanti semplici uomini e donne, ogni giorno, mettono in pratica quest’opera di misericordia in una stanza di ospedale, o di una casa di riposo, o nella propria casa, assistendo una persona malata”(mercoledì 10 settembre 2014).

Le famiglie sono chiamate a mostrare a se stesse e all’intera società il primato dell’amore gratuito. E questo avviene appunto attraverso l’attenzione ai deboli che, peraltro, si apprende già – o si dovrebbe apprendere – nelle famiglie. E questo è ancor più importante se ci troviamo di fronte a società in cui sembrano sempre più forti quelle “strutture di peccato” che sostengono meccanismi apparentemente indiscutibili ed invincibili. Ogni persona, e quindi ogni famiglia, ha in sé una forza, una potenzialità che nessuna tirannia saprà estirpare o mettere a tacere, nemmeno riducendolo al silenzio della povertà, dell’esclusione sociale, della miseria. Il “potere dei poveri”, ossia di chi non fa del guadagno e de consumo la sua idolatria, ma crede nell’amore, è incredibile. E lo dimostrano le tante famiglie che cercano di vivere l’amore come una forza che cambia i cuori e che rende più umana la vita di chi è più debole. Nelle parole e nelle azioni di tante famiglie divenute testimoni dell’amore si manifesta la forza di cambiamento anche della società stessa.

Si può correre il rischio, in questo tempo di crisi, di cedere alla tentazione di rinchiudersi in se stesse, magari dicendo che si hanno già tanti problemi interni. Ed è certamente vero. Ma attenzione – l’ho accennato già prima – nessuna famiglia è mai talmente povera da non poter essere di aiuto a qualcun altro. E’ indispensabile mettere in atto una più audace pratica di carità verso i poveri. Certo, questo nuovo dinamismo di amore richiesto alle famiglie esige una conversione del cuore ed anche un cambiamento degli stili di vita, quindi  la ricerca di sobrietà, di apertura, di solidarietà, di testimonianza e soprattutto di amore gratuito verso i più deboli. E’ inevitabile, davanti alla parola povertà, interrogarsi (e agire) dovendo misurarsi con (e dovendo contemperare) due accezioni opposte: con la povertà da sradicare, grande e condivisibile obiettivo dei governi e degli organismi internazionali (a volte forse più retorico che concreto), e la “povertà” come presentata dal Vangelo. L’esempio di Francesco di Assisi e di Francesco di Roma, sono davanti ai nostri occhi. E’ una grande sfida per ogni famiglia, particolarmente per ogni famiglia cristiana. Lo era agli inizi del cristianesimo – e non dobbiamo dimenticare che all’inizio la predicazione cristiana si è appoggiata alla rete delle famiglie – deve tornare ad esserlo ancora oggi.

Scrive papa Francesco: “Quando San Paolo si recò dagli apostoli a Gerusalemme per discernere se stava correndo o aveva corso invano (cfr Gal 2,2) il criterio-chiave di autenticità che gli indicarono fu che non si dimenticasse dei poveri (cfr Gal 2,10). Questo grande criterio, affinché le comunità paoline non si lasciassero trascinare dallo stile di vita individualista dei pagani, ha una notevole attualità nel contesto presente, dove tende a svilupparsi un nuovo paganesimo individualista. La bellezza stessa del Vangelo non sempre può essere adeguatamente manifestata da noi, ma c’è un segno che non deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via […] Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica” (Evangelii Gaudium, nn. 195,198).