Domenica in Albis – Amelia

Domenica in Albis - Amelia

Care sorelle e cari fratelli,


è divenuta per me una piccola, e credo bella, tradizione venire qui in duomo nella Domenica in albis. Mi ricorda il primo ingresso ad Amelia. E conservo gelosamente, e uso, le chiavi della città – quelle del cuore – che quel giorno mi consegnaste. Sono passati due anni e, tornando, rivivo la stessa emozione di quel mattino di aprile. Tante volte in verità sono tornato in città, e molte altre volte ancora sono passato recandomi in visita alle altre parrocchie dell’amerino: ringrazio il Signore per avermi condotto in questa terra, per avermi dato in sorte di servire questa chiesa antica e veneranda. Sono davanti ai miei occhi, e nel mio cuore, tutte le comunità cristiane di Amelia. Desidero, da questo duomo, salutarle una ad una: San Francesco, santa Maria a Foce, San Giuseppe da Leonessa, San Pietro a Forcole e a Montecampano, Santa Maria dei Ponticelli, Sant’Agostino, San Matteo a Sambucetole, San Nicola a Macchie, San Massimiliano Kolbe, San Giovanni a Collicello, Santa Maria a Frattoccia, E poi le parrocchie di Santa Maria a Penna in Teverina, a Giove, a Lugnano, ad Alviano, San Simeone a Torchiano e Santi Pietro e Cesareo a Guardea. Sono diciotto comunità che come una rete d’amore che in questa terra testimonia la risurrezione di Gesù. Faccio pertanto mie, e con commozione, le parole di Paolo ai Tessalonicesi: “Chi, se non voi…la nostra gioia e la corona di cui possiamo vantarci davanti al Signore? Sì, voi siete la nostra gloria e la nostra gioia”. L’apostolo si riferiva alla comunità fatta di persone, non certo ai luoghi, o agli edifici. La gioia del Signore è la sua comunità che testimonia l’amore del Signore, che vive la sua ansia di comunicare la gioia del Vangelo a tutti, di dire a tutti quelle stesse parole che Gesù disse ai discepoli il giorno di Pasqua: “Pace a voi!” Sono le prime parole del risorto: “Pace a voi!”. E Dio sa se abbiamo bisogno di pace. Sì, ne abbiamo bisogno noi di Amelia; noi personalmente, anzitutto, e poi le nostre famiglie e l’intera comunità amerina. Ma non è di questo che oggi voglio parlarvi.


Desidero questa mattina che tutti ci uniamo all’intera Chiesa sparsa nel mondo per pregare per la pace in Terra Santa. E’ un invito pressante del Papa, direi come un grido disperato che invita a far salire a Dio una preghiera dall’intero pianeta, una preghiera universale che unisca tutti i credenti al suo sdegno per la guerra e alla sua preghiera per la pace. Sì, questa non sia solo l’ora delle armi! Sia piuttosto l’ora della preghiera! E lo scrive convinto: “Di fronte alla caparbia determinazione con cui, da una parte e dall’altra, si continua ad avanzare sulla strada della ritorsione e della vendetta, si apre di fronte all’animo angosciato dei credenti la prospettiva del ricorso della preghiera accorata a quel Dio che, solo, può cambiare i cuori degli uomini, anche dei più ostinati”. Noi oggi siamo uniti, a Nord come a Sud, in Occidente come in Oriente, come in una sola voce per chiedere a Dio la pace.


Questa notte sono stato ad assisi, nella Basilica di San Francesco, come per iniziare questa giornata di preghiera, convinto anche che la pace di quella terra è la nostra pace. Così come la guerra diventa guerra nel mondo intero. Quel che sta accadendo della terra di Gesù, nella terra di Maria, nella terra degli apostoli ci tocca nel cuore. Non solo per quei luoghi santi che tutti veneriamo e visitiamo, ma ancor più profondamente e riguardano la comprensione stessa di Gesù. Sì, perché Gesù è assieme ebreo e palestinese, è assieme giovane dell’uno e dell’altro popolo. Indivisibilmente. E’ Gesù, perciò, che continua ad essere lacerato in quei giovani israeliani uccisi o feriti dagli attentati kamikaze. Gesù, il vero martire. Lui che è morto non per uccidere, ma per salvare la vita di tutti, a cominciare da quella del buon ladrone. Ed è ancora lo stesso Gesù che continua ad essere ucciso in quei palestinesi che, da anni cercano un giusta patria, e che la violenza dei carri armati schiaccia ed elimina, lasciando insepolti i loro cadaveri. E’ vero purtroppo, e sono ormai settimane ed anni, che ciascuna parte piange i “suoi” morti e, mentre piange, medita e mette in atto la vendetta contro l’altra parte, andando così verso una catena infinita di morte. Ma, fratelli e sorelle, se alziamo un poco lo sguardo vediamo che più in alto, c’è un Padre, sì, quello del cielo il quale li piange tutti questi morti, perché tutti sono “suoi” morti; ambedue sono figli “suoi”. Di fronte al calvario, al Venerdì Santo che ancora continua in quella terra, dove Gesù, ebreo e palestinese, è ancora crocifisso noi preghiamo Dio che disarmi i cuori dei violenti perché l’ora smisurata delle armi, dell’una e dell’altra parte, non porterà mai all’ora della pace. Noi, care sorelle e cari fratelli, preghiamo perché la Pasqua di risurrezione arrivi presto nella terra da dove essa è iniziata. Il salmista diceva: “Si attacchi la lingua al mio palato, se mi dimentico di te, Gerusalemme”.


Oggi noi invochiamo il Signore perché mandi il suo angelo a rotolare via la pietra pesante della guerra che fa di quel paese come un sepolcro di morte. C’è bisogno che si senta forte il saluto di Gesù: “Pace a voi!”. C’è bisogno che lo sentano tutti, compresi i tanti Tommaso che non sono presenti o che non vogliono ascoltare. Gesù chiede a tutti, oggi, di toccare questa ferita ancora presente nel suo corpo perché quella pace che è venuto a portare sulla terra torni nella sua patria terrena. Vorrei dire che la nostra pace non è nel rinchiuderci e nel trascorrere le nostre giornate come sempre; la nostra pace non sta nel preoccuparsi solo di ciò che tocchiamo e vediamo, come credeva Tommaso. La pace è accogliere il fuoco della risurrezione nel cuore, è dire a tutti che l’amore vince su ogni cosa, anche sulla morte. Dopo aver visto Gesù risorto, i discepoli sentirono una nuova energia entrare nel loro cuore. Non erano più come prima. Erano divenuti uomini capaci di amare e di donare pace.