Dall’emergenza all’accoglienza
La storia del nostro paese è segnata dal fenomeno immigratorio, anche se non sempre ce ne ricordiamo. Basti pensare che dal 1876 al 1976 ben 24 milioni di italiani sono emigrati all’estero, mentre alcuni milioni sono emigrati all’interno del paese. Oggi l’Italia è diventata paese di immigrazione. Ma affronta questo fenomeno in maniera del tutto smemorata e non poco acritica. Lo vive come un pericolo più che come una opportunità. Intendiamoci, non che manchino i problemi nell’affrontare tale fenomeno. L’impatto con lo straniero, è sempre un’esperienza complessa. La presenza di gente diversa, con abitudini differenti, poveri, gruppi maschili, rappresenta un fatto scomodo, minaccioso. C’è chi ha paura che l’immigrazione segni la fine del nostro mondo. In verità, se non ci sono gli immigrati davvero è la fine dell’Italia che conosciamo. L’Italia ha bisogno di immigrati, se intendiamo rimanere ancora domani il paese che siamo. La popolazione cresce al 90% per la loro presenza: il saldo naturale positivo si deve all’incremento degli stranieri. Senza di loro la popolazione sarebbe diminuita di 650.000 unità dal 1993 al 2006. La loro età media è di 30,9 anni, a fronte dei 43,5 degli italiani. Gli stranieri fanno più giovane e dinamico il paese. Oltre ai disagi, e ai problemi di convivenza, ci sono molti elementi positivi. Nel 2004, secondo l’Agenzia delle entrate, l’81% degli stranieri (2.259.000) ha fatto la dichiarazione dei redditi, versando 1,87 miliardi di euro e denunciando redditi per 23,8 miliardi. L’INPS ha dichiarato che gli stranieri versano 5 miliardi di euro nelle sue casse. Gli stranieri operano nel mercato immobiliare, con le banche e le poste (circa 3.000.000), contribuiscono al PIL, che, senza il loro apporto sarebbe diminuito. Si potrebbe continuare…
Eppure è la paura il modo con si affronta il tema dell’immigrazione. E il discorso pubblico ha una grande responsabilità di questa devianza. Non poche sono le menzogne a tale riguardo. Si sottolineano i problemi in maniera volutamente eccessiva e si tacciono i numerosi vantaggi. Un esempio. Quanti italiani fanno l’esperienza positiva di quasi un milione di badanti e colf, essenziali alla sopravvivenza familiare? Il CENSIS parla di una famiglia ogni dieci. Eppure non si dice. Purtroppo il discorso pubblico spesso stride con l’esperienza di tanti. E’ urgente invece aggiornare il discorso pubblico sull’immigrazione. Non solo. C’è bisogno di una cultura “alta” dell’immigrazione. Innanzi tutto si deve dire agli italiani che abbiamo bisogno di stranieri. Non sono essi a far finire il nostro mondo. E’ vero esattamente il contrario: senza gli stranieri il nostro mondo finisce. Dobbiamo avere il coraggio di dirlo.
Accade, invece, il contrario: il discorso pubblico scarica sugli immigrati il sentimento di paura e di insicurezza degli italiani. E questo perché è pagante in termini di consenso. In verità, tale discorso rischia di sfuggire al controllo. La predicazione dell’antagonismo sociale è il veicolo attraverso cui transitano aggressività e violenza. E’ bene essere avvertiti che l’odio sociale circola al di là dell’obbiettivo per cui è sorto, seguendo percorsi imprevedibili. Ce lo ricorda il profeta Osea: “Poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta”(8,8). L’insicurezza c’è, eccome. Ma le sue ragioni – come oggi appare chiaro – non poggiano sul fenomeno degli immigrati, se non per poca cosa. L’insicurezza trova le sue cause nella crisi che stiamo attraversando, nell’assenza di futuro per i nostri giovani, in una globalizzazione che spaventa, in una violenza che sempre più si diffonde nelle pieghe della società, e così oltre. E’ troppo facile e pericoloso scaricare tutto sugli immigrati. Certo è che la nostra società è piena di aggressività, come si vede anche dai delitti commessi all’interno delle famiglie.
Non c’è dubbio comunque che l’immigrazione è una delle grandi questioni nazionali. Ed è una tema che infiamma. Ma è necessario affrontarlo con uno sguardo sereno e un largo accordo. Dobbiamo riscoprire il senso e il valore dell’accoglienza. Accoglienza, una parola poco amata, e magari considerata buonista o cattolica, eppure esprime bene la responsabilità di chi ha una casa con una sua identità, le sue leggi, la sua tradizione, la sua cultura. Chi ha una casa ben salda non teme di intaccarla se accoglie altri. Chi sente con forza la propria identità non teme che sia intaccata da altri diversi da lui. Se abbiamo paura che gli immigrati insidiano la nostra identità, dobbiamo chiederci se già non l’abbiamo indebolita se non addirittura persa. L’identità infatti non è un monoblocco, ma un organismo vivente che è capace di accogliere e di mutare.
L’Italia del 1961, quella del centenario nell’Unità, credeva nella sua capacità di crescita economica e civile. E l’Italia 2011, quella dei 150 anni di Unità? Crediamo nel nostro mondo italiano o abbiamo solo paura che finisca? Non è indifferente che si scelga l’una o l’altra opzione. Crediamo nel nostro Stato-nazione che ci fa italiani e investiamo sul suo futuro o siamo solo spaventati? Qui c’è la grande responsabilità del discorso pubblico, che aiuti singoli e famiglie a guardare al proprio futuro in una casa nazionale. C’è una responsabilità dei cristiani in questo campo. E se molto si è fatto sulla via dell’integrazione lo si deve al sentire cristiano che sostiene l’uguaglianza tra tutti gli uomini al di là della razza, della fede e della cultura. Questo sentire profondo segnato dal cristianesimo è una vera e propria risorsa nazionale, anche se non sempre è stata assecondata dalle istituzioni e dal discorso pubblico. E’ incredibile: l’Italia ha bisogno degli stranieri, eppure si fomenta in tanti modi la paura.
E’ necessario promuovere uno sguardo positivo e costruttivo su questo fenomeno storico che segna la vita del paese. C’è bisogno di uno stile che sia all’altezza di una politica di accoglienza che ne vuol fare degli stranieri lavoratori integrati o cittadini. C’è bisogno di politica. E di un approccio globale. L’invasione non si ferma alle frontiere (dove approdano tutti, anche i rifugiati che hanno diritto all’asilo), ma nei paesi di provenienza con una sapiente politica di cooperazione, che in Italia è però agonizzante. Ci vuole una politica internazionale nel Sud del mondo. Il rafforzamento della cooperazione, intesa in modo da suscitare una rinnovata iniziativa delle società del Sud del mondo, è un fatto prioritario se si vuole governare l’immigrazione. Dobbiamo imparare la civiltà del convivere! Convivere vuol dire avere una casa che si allarga, non tante casette poste una accanto all’altra. E l’immigrazione ci ricorda che i popoli del mondo globalizzato hanno un destino che ci lega in modo molto più intimo che mezzo secolo fa. L’integrazione, comunque, non è un fatto scontato o naturale. E’ una impresa plurima che richiede l’impegno di tutti. Ovviamente a partire da una sapiente politica.