Convegno sul martirio nelle religioni

Convegno sul maritrio nelle religioni

 



Per una teologia del martirio di ieri e di oggi

 
 
Premessa

 


Esprimo anzitutto la mia gratitudine a tutti coloro che in occasione della festa di San Valentino, vescovo e martire, hanno organizzato questa giornata di studio sul martirio. IL tema è davvero vasto e complesso e traversa la storia e la teologia, la politica e la pietà. E ognuno di questi campi meriterebbe più di un convegno. Ma è già non poco significativo farci gustare almeno un poco la preziosità di questo tema toccandone le diverse dimensioni, da quella cristiana a quella ebraica e islamica compresi gli aspetti più legati all’attualità. Il tema assegnatomi, come si può ben comprendere, è talmente vasto che richiederebbe da solo un intero convegno. Per parte mia cercherò di offrire qualche spunto che evidenzi lo sviluppo del concetto di martirio per giungere a qualche riflessione che agita l’odierno dibattito teologico in questo versante. Le questioni implicate sono molteplici, a partire dalla definizione canonica del martirio inteso come morte in odium fidei e non quindi per motivi legati alla carità o alla giustizia. Ha però mosso le acque il caso di Massimiliano Kolbe il quale, a rigor di canone non è stato ucciso in odium fidei, ma per essersi offerto al posto di un altro. Un caso analogo è quello di mons. Romero per il quale è stata introdotta la causa per martirio, nonostante alcuni dicano che sia stato ucciso per motivi politici e non appunto in odium fidei. Un altra questione che andrebbe sviluppata è il rapporto tra santità e martirio, sebbene è ormai accolta la posizione che non si è martiri perché santi, ma il contrario: si è santi perché martiri. E questo fa entrare in gioco la questione dei milioni di cristiani uccisi nei campi di sterminio, unitamente al domanda sulla tragedia della Shoà. Si aggiungono poi gli interrogativi circa le vittime della giustizia, della pace, e anche la morte violenta dei giusti. Insomma, le questioni che si aprono attorno al tema del martirio sono molteplici e complesse.


Per questa breve riflessione vorrei partire dai termini greci màrtys e martyria da cui provengono martire e martirio. Questo gruppo terminologico è legato originariamente al contesto giuridico: testimoniare significa certificare solennemente la verità delle proprie asserzioni riguardo a eventi o persone davanti a un giudice in un tribunale. Tuttavia veniva impiegato anche nel senso più largo, ossia di offrire pubblica attestazione su credenze e convinzioni personali. La confluenza dei due contesti, pubblico e forense, diede origine al fatto che il termine greco màrtys, oltre al suo senso stretto di testimone, acquisisse il significato più specifico di “martire”, ossia di colui che si prepara a morire per le proprie convinzioni riconoscendole pubblicamente se insidiate e senza temerne le conseguenze. E questo avvenne soprattutto quando il movimento cristiano iniziò a destare l’attenzione delle autorità civili romane e fu sempre più ritenuto sovversivo poiché i suoi membri spesso si rifiutavano di riconoscere la divinità dell’imperatore, anche quando venivano sottoposti ai più atroci tormenti. E quel che meravigliava era il fatto che molti accoglievano la morte volentieri e con gioia, giungendo persino a desiderarla, convinti che avrebbero condiviso la corona di vittoria con Gesù, il loro salvatore crocifisso, il quale aveva anche lui subito una morte ingiusta ad opera delle autorità romane.


 


Il  “martire”( testimone) nei vangeli


 


Una breve indagine terminologica dei quattro vangeli ci aiuta a cogliere l’evoluzione del termine martys da testimone in un tribunale a martire per la causa di Cristo. In Marco l’uso linguistico di testimone e testimoniare è confinato all’ambito giuridico. Così anche in Matteo. Ecco perché nel processo di Gesù non vi è necessità di testimoni, poiché Gesù si è condannato da sé (cfr. Mc 14,63; Mt 26,65); oppure i discepoli saranno trascinati davanti a governatori e re «per rendere testimonianza davanti a loro» (Mc 13,9; Mt 10,18). Il significato di tale espressione è solitamente inteso come “avere l’opportunità di offrire testimonianza” specialmente nel racconto di Matteo, dove si aggiunge «e ai pagani», suggerendo così un orizzonte più vasto di quello squisitamente forense. Negli scritti lucani questo passaggio ad un significato più generale è molto chiaro . Alla fine del vangelo Gesù dice ai Dodici: «Di questo voi siete testimoni»(Lc 24,48). In tal modo è già delineata la loro missione futura: testimoniare il mistero stesso Gesù. Gli Atti riprendono tale comando con Gesù che dice ai discepoli: «Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8).


Successivamente, nella elezione del sostituto di Giuda all’interno del collegio dei Dodici, Luca enuncia le condizioni per la nomina: bisogna essere stati con Gesù dall’inizio ed essere testimoni della risurrezione (At l,21s; cfr. 10,39; 13,31). Il termine “testimone” però non viene applicato solo ai Dodici. Lo troviamo impiegato anche per altri, come per Paolo, il quale, nella narrazione degli Atti, è l’unico a rendere testimonianza ai pagani (At 22,15; 26,16), e per Stefano, considerato abitualmente il primo martire cristiano nel senso più ristretto del versare il sangue per Cristo. Nel quarto vangelo la terminologia della testimonianza è la più appropriata per descrivere la missione di Gesù e dei primi cristiani. Il verbo martyréo, “rendere testimonianza”, ricorre 33 volte, in gran parte dei casi come descrizione dell’attività di Gesù. Le sue parole e i suoi gesti “rendono testimonianza” al fatto che egli è venuto da Dio e che la sua parola è vera. La dichiarazione: «per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità» è la proclamazione del Gesù giovanneo quando è posto a giudizio davanti a Pilato (Gv 18,37). Tale dichiarazione riguardo allo scopo della sua vita in ambiente squisitamente forense acquista particolare risonanza, poiché per l’evangelista l’intero ministero di Gesù rappresenta la grande battaglia nei confronti del mondo, come in precedenza Gesù stesso aveva detto: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare (o “come oggetto di giudizio”)» (Gv 9,39). La venuta di Gesù costituisce la grande crisi del mondo, poiché ora gli uomini sono invitati ad accogliere la luce piuttosto che le tenebre; chiamati a decidere per la luce e la verità e non per la falsità e le tenebre, riconoscendo Gesù come luce del mondo come via della verità e della vita (cfr. Gv 8,16; 12,31; 16,8.11).


 


Gesù, il martire


 


Nonostante questa ampia comprensione della nozione di testimone nel Nuovo Testamento, Gesù però non è mai chiamato martys. Tale assenza sembra alquanto strana in riferimento alla morte di Gesù che comunque costituì il modello per i martiri seguenti, a partire da Stefano. Ma la lacuna è solo apparente. La morte di Gesù sollevò una importante questione per i suoi primi seguaci. Paolo l’affronta direttamente: fu una pietra d’inciampo per i Giudei che potevano riconoscere come messia solo colui che avrebbe inaugurato un regno di Dio glorioso, non uno che aveva subito la morte come un criminale. Per i pagani, invece, specialmente per le élite della società romana (a Corinto e altrove), la pretesa che una persona così vilipesa e disonorevole potesse ricevere tributi divini o umani era impensabile e perfino ridicolo.


I primi cristiani ricorrevano alle Scritture ebraiche, le quali permettevano loro di cogliere la morte di Gesù in una prospettiva diversa da quella della comune cultura ellenistica. La formula di Paolo «egli morì per (a causa dei) nostri peccati» e l’affermazione che Marco pone sulle labbra di Gesù, per cui egli desidera essere il servo la cui vita sarà offerta in riscatto, o come sacrificio, per il peccato di molti, evocano chiaramente il noto brano di Isaia sul servo sofferente (Is 53). In ogni caso era ben nota in Israele la figura del profeta e dell’uomo pio che – l’uno per la sua missione, l’altro per la sua religiosità – subiscono oltraggi, persecuzione e persino la morte. Basti pensare ad Elia e ai profeti trucidati da Gezabele, al “martirio” del profeta Uria (1Re 19,10; Ger 26,20). Il profeta autentico, secondo la tradizione ebraica, non parla in modo da lusingare l’orecchio del popolo. Il profeta non può essere che un predicatore di penitenza. E la reazione che incontra è sempre la stessa in tutti i tempi: “perché metti sottosopra Israele?”(1Re 18,17), e deve in un modo o nell’altro portarne le conseguenze. Potremmo dire che Geremia, il quale osò sfidare l’aristocrazia gerosolimitana dei suoi tempi rischiando la morte, fu come il prototipo tra i profeti. In lui sono intimamente legati gli oracoli e la vicenda di perseguitato per quel che diceva. Ebbene i primi cristiani lessero quel che accadde ai profeti come una figura di quel che accadde a Gesù.


L’evangelista Luca, tra gli autori evangelici, è forse quello che descrive con più chiarezza Gesù come profeta perseguitato a causa della giustizia: lo ritrae come sostenitore dei poveri, come colui che sfida i ricchi e che alla fine è condannato con l’esplicita accusa politica di “sobillare il popolo” impedendo di dare tributi a Cesare, ed è accusato di agitare la gente «dopo aver cominciato dalla Galilea fino a qui» (Lc 23,2-5). Nel racconto lucano, Gesù, autoproclamatosi profeta di una giustizia per tutti in accordo con la tradizione giubilare (Lc 4,18-20), respinge le intimidazioni dei suoi avversari. Come altri profeti prima di lui, sente l’urgenza di recarsi a Gerusalemme, anche a costo della morte. Ed anzi, pur avvisato del pericolo dai farisei, ignora l’ammonimento di sottrarsi alla probabile minaccia rappresentata da Erode Antipa (Le 13,31-35). E, in ogni caso, pur sapendo che andava incontro alla morte con la sua predicazione, non solo non smise ma neppure fuggì da Gerusalemme. Disse anzi ai suoi discepoli: “Non è possibile che un profeta muoia fuori da Gerusalemme”(Lc 13,33).


Quindi sebbene Gesù non sia indicato con il termine martys, salvo che nell’Apocalisse (1,5): “Gesù Cristo , il testimone (martys) fedele”, di fatto viene indicato con tutti significati che esso ha, appunto di una testimonianza d’amore che giunge sino all’effusione del sangue. La scena della croce, come descritta da Giovanni, è emblematica del martirio: Gesù, dopo aver detto “tutto è compiuto!”, emette lo Spirito e dal suo cuore squarciato esce sangue ed acqua. E Giovanni aggiunge: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”(Gv 19, 37). Gesù è il martire a cui i credenti debbono guardare. L’autore dell’Apocalisse, chiamando Gesù “martys fedele” voleva incoraggiare i cristiani dell’Asia Minore che, nel 90 d.C., soffrivano a causa dell’imperatore romano Domiziano, facendoli volgere verso il crocifisso. E coloro che hanno pagato con la morte il prezzo supremo della loro fedeltà hanno “lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’agnello”(7,14). E così hanno potuto partecipare alla celebrazione celeste trionfante. La caduta di Roma è imminente –dice l’autore dell’Apocalisse ai cristiani – e sarà sostituita dalla nuova Gerusalemme che scenderà dal cielo, inaugurando i mille anni del regno di Cristo e dei suoi eletti. In questa opera densa di immagini, la memoria e la celebrazione della sorte toccata  a Gesù per mano dei romani era il modo più chiaro per incoraggiare i cristiani perseguitati. Gesù, il testimone (martire), è il primo dei credenti, il primo dei risorti. Con questo ideale i cristiani resistevano al persecutore.


 


Il martirio nella prima Chiesa

 


Gesù appare perciò fin dall’inizio come il prototipo del martire. Ma è con il II secolo il termine martys inizia a fissarsi nel significato di chi muore per testimoniare la fede. E questo accade a causa della persecuzione abbattutasi sui cristiani. Continuava ovviamente l’uso del termine in rapporto a chi aveva il particolare incarico di rendere testimonianza missionaria, ma veniva applicato sempre più a coloro che davano testimonianza affrontando anche la minaccia di morte. Con la morte la testimonianza era piena. La prima volta che appare ben chiaro questo nuovo senso è nella narrazione del martirio di Policarpo. Subito dopo la sua morte, avvenuta probabilmente nel 155, nella lettera della comunità di Smirne a quella di Filomelio si legge: “Policarpo che fu il dodicesimo a subire il martirio in Smirne con quelli di Filadelfia…non solo fu maestro insigne, ma anche martire eccelso, il cui martirio tutti aspirano a imitare, avvenuto com’è a somiglianza di quello di Cristo narrato dal Vangelo”. Nella comunità di Smirne quindi alla metà del II secolo si era ormai stabilito un uso tecnico del termine “martirio”. Questa nuova terminologia si diffonde ovunque. La si trova ad esempio negli Atti di Giustino: “i santi martiri diedero appieno la loro testimonianza (morirono), professando la fede nel salvatore nostro”. E comunque d’ora in avanti saranno chiamati martiri solo coloro che vengono uccisi a causa della fede, ad imitazione di Gesù. Indicare Stefano come il martire perfetto è un chiaro riferimento per intendere la martyria come una testimonianza suggellata dalla morte. Accanto a questo significato si trovano i primi cenni relativi a coloro che subiscono la persecuzione ma poi sono liberati. Testimone (martire) in questo caso significa “confessore”, ossia colui che ha confessato, che ha detto pubblicamente, la sua fede cristiana. La differenza tra il “martire” e il “confessore” è chiara: nel primo c’è il sigillo della morte che non è presente invece nel secondo. Attorno ad ambedue si crea una piccola teologia. Per quanto riguarda i confessori il testo più chiaro è quello di Ippolito, il quale sostiene che sui confessori non si debbono imporre le mani per il diaconato e il presbiterato poiché essi già possiedono la dignità presbiterale grazie alla loro testimonianza. Erano considerati come dei carismatici, ossia come credenti che avevano parlato nei tribunali in forza dello Spirito. Mentre la testimonianza dei martiri era uno dei cardini sui quali le diverse comunità cristiane si edificavano, e non solo per la nota affermazione di Tertulliano: “Seme per i cristiani è il sangue dei martiri”. Sulle loro tombe si edificavano le Basiliche e attorno a loro i cristiani volevano essere sepolti per poter risorgere immediatamente assieme ad essi che erano i primi tra tutti. Essi sono la corona di Cristo e la vera immagine della Chiesa. Insomma l’ecclesia martyrum, come dirà la teologia medievale, non è solo un dato accidentale relativo alle contingenze della persecuzione, ma una dimensione centrale nella vita della Chiesa.


E questo appare con chiarezza con la mutazione avvenuta con Costantino, allorché il cristianesimo diventa con lui religio licita e più tardi religione ufficiale dell’Impero. I cristiani non sono più perseguitati e quindi potranno testimoniare la loro fede senza ovviamente venire messi a morte. Ma non per questo deve finire l’ecclesia martyrum. La Chiesa, potremmo dire, non può non essere perseguitata; non può non essere in contrasto con il mondo. E nella nuova condizione in cui viene a trovarsi il cristianesimo il martirio non viene più dalla persecuzione esterna perché ci si oppone all’imperatore, ma dalla scelta di opporsi ai nuovi idoli di una società, divenuta sì cristiana, ma che non vive più la radicalità evangelica. La Chiesa non poteva vivere senza mostrare la radicalità del vangelo. Il nuovo martirio pertanto non era più quello causato dalla persecuzione ma quello scelto da quei cristiani che rifiutavano di seguire i nuovi idoli mondani. Costoro “morivano” al mondo e alla sua logica per abbracciare Gesù solo. È la nascita del monachesimo, inteso appunto come un nuovo martirio. Uomini e donne lasciavano la vita ordinaria e si rifugiavano nel deserto. Il monachesimo era la nuova forma di martirio, ossia di testimonianza radicale, in un tempo in cui il cristianesimo era divenuto religione ufficiale dell’impero. Ma qui si apre un altro capitolo sul senso spirituale del martirio.


Nei secoli successivi, e precisamente dal V al XIX secolo, non sono mancati mai cristiani uccisi per la fede. Certo però non sono stati così numerosi come nei primi quattrocento anni dell’era cristiana. E sarebbe certo utile percorrerne l’itinerario. Qualche riflessione ascolteremo anche oggi. Per uno sguardo di sintesi si potrebbe vedere il volume The new enciclopedia of Christian Martyrs curato da Mark Water, anche se lui pone tra i martiri tutti coloro che sono stati uccisi, ad esempio, dall’inquisizione e dalle lotte di religione in Europa e così via. Non è questa la sede né per esaminare questo volume né per trattare il martirio nei secoli successivi alla prima era cristiana. Una cosa tuttavia è chiara: i martiri della prima Chiesa conservavano un notevole influsso nella vita cristiana. Basti pensare alla elaborazione dei martirologi, all’edificazione di basiliche sulle loro tombe e alla devozione alle reliquie. Il martirio restava comunque l’ideale più alto della sequela di Cristo. E non pochi cristiani, durante il medioevo, lo ricercavano come una sorta di vocazione. Penso, ad esempio, ai cinque protomartiri francescani, tutti della valle terzana. Il loro ideale era andare in Marocco e morire per Cristo per le mani dei musulmani. Una idea che li fece muovere di qui sino in Portogallo da dove salparono per il Marocco. E al ritorno delle loro spoglie, Sant’Antonio, che era rimasto colpito dalla loro povertà a Coimbra, quando vide i loro corpi tornare lasciò l’ordine agostiniano per seguire Francesco di Assisi. E anche lui scelse di salpare verso il Marocco per ricevere il martirio. Una tempesta lo portò in Italia e venne anche qui a Narni per vedere la terra che aveva dato i natali ai primi cinque martiri francescani.


 


I “nuovi martiri” nelle Chiese del Novecento

        


È nel Novecento che la Chiesa torna ad essere la Chiesa dei martiri. Il XX secolo infatti è stato il secolo del martirio. Mai nella storia cristiana i “martiri” sono stati così numerosi. Ed è per questo che può essere  collegato direttamente ai primi secoli della cristianità. In ambedue i casi la Chiesa ha vissuto un martirio di massa, se così si può dire. Ed è ovvio che, come accadde allora, il senso del martirio venga nuovamente messo in questione. Il bagaglio teologico fin qui pervenuto è piuttosto stretto per accogliere questo nuovo fenomeno che la Chiesa ha vissuto e continua a vivere. È stato decisivo l’intervento di Giovanni Paolo II. A parte l’alto numero di martiri che ha beatificato come tali, più di 400, un numero notevole vista la rarità con cui si facevano prima, Giovanni Paolo II ha allargato il senso del martirio rispetto alla comprensione che si aveva fino ad oggi, soprattutto portando all’attenzione dei credenti i milioni di cristiani uccisi dal comunismo, dal nazismo, e da altri poteri dittatoriali. Il volume di Andrea Riccardi che esamina l’intera documentazione giunta in Vaticano dalle varie conferenze episcopali relativamente ai “martiri” del Novecento mostra un impressionante affresco di uomini e donne, di adulti e bambini, di vescovi, preti, religiosi, religiose, semplici laici, cattolici, ortodossi, anglicani, protestanti, tutti uccisi violentemente dalla ferocia dittatoriale. Era una realtà, sconosciuta dall’Occidente. L’incredibile numero e l’inimmaginabile ampiezza ha portato a riflettere nuovamente sul concetto di martirio inteso come odium fidei.


All’interno di questo orizzonte credo sia utile fare almeno qualche cenno sulla nozione del martirio inteso come “odio verso la fede”. Tale dizione viene dal trattato sulle canonizzazioni di Benedetto XIV (1737), che ebbe il grande merito di fare ordine in questa materia eliminando molta mitologia presente nelle narrazioni martiriali. Oggi, lo ripeto, questo assioma viene però riconsiderato da non pochi teologi. Esaminandolo nel corso degli ultimi secoli si rileva che in origine l’accento dell’espressione in odium fidei cadeva più sulla parola “odio” che sulla parola “fede”. Colui che moriva per odio si contrapponeva a chi era morto non in modo passivo ma nella lotta per la fede, o «difendendo la rem publicam dall’attacco di nemici che manovrano per la distruzione della fede», come scrive ad esempio san Tommaso. E l’Aquinate si chiede se questi soldati non siano da considerare martiri. Ebbene, anche se il suggerimento non ebbe seguito, è tuttavia importante il motivo che Tommaso adduce per la sua tesi: «Essi – scrive san Tommaso – hanno messo il bene comune al di sopra del proprio bene personale»4.


Le cose acquistano una luce diversa nel tempo della Controriforma. Il clima polemico portò a spostare l’accento dal termine odio alla parola “fede”, intendendola però in maniera nozionista e come sganciata dalla vita concreta del credente. Nel clima polemico, che portava a difendere la dottrina, il martire diveniva colui che moriva per difendere appunto il bagaglio delle verità cristiane. In tal senso la morte in odium fidei comportava che l’intenzione dell’uccisore fosse diretta contro le verità di fede. Ma tale spostamento di accento portava a conseguenze di questa natura: solo un non credente può provocare martiri. Un cristiano, per quanto crudele sia, se si professa cristiano, non può uccidere odiando la fede. Se uccide qualcuno non è in odium fidei ma, ad esempio, per motivi politici, o altro ancora. Questa conseguenza crea ad esempio non poche difficoltà nell’interpretazione di molte drammatiche vicende contemporanee, come ad esempio le uccisioni di cristiani avvenute in America Latina per mano di politici cristiani.


Quel che a me pare decisivo è l’approfondimento del termine “fede”, anche perché San Tommaso stesso aveva questo problema. Quando infatti si chiede se la causa del martirio sia «solo la fede»,7 risponde negativamente, affermando che il martire non dà testimonianza di una verità qualunque, ma di una verità che è «secundum pietatem», ossia una fede vissuta nella propria vita; e porta ad esempio il Battista, il quale fu ucciso da Erode perché condannava il suo comportamento. E poi aggiunge: poiché «la causa del martirio è un bene divino…qualunque bene umano può essere causa del martirio se viene riferito a Dio». Il martirio quindi è un bene divino perché è un dono di Dio e non perché riguarda una verità astrattamente considerata. Ed ecco perché san Tommaso  definisce  il  martire: «testimone della perfezione dell’amore»8. E di questa perfezione dell’amore fa parte la giustizia, la carità e le altre virtù. Nel  martirio, spiega san Tommaso, l’uomo «non abbandona la fede e la giustizia neppure dinanzi al pericolo di morte imminente». San Tommaso sottolinea altrove che «soffre per Cristo non solo chi soffre per la fede di Cristo, ma per qualunque opera di giustizia per amore di Cristo»9. L’espressione “qualunque opera” frena ogni tentativo di ridurre la giustizia ad una semplice fedeltà a verità di fede astratte. Questa posizione di San Tommaso entra pienamente nella Costituzione del Vaticano II sulla Chiesa, la Lumen Gentium. Scrivono i padri conciliari: «Il martirio, mediante il quale il discepolo è reso simile al Maestro, che liberamente ha accettato la morte per la salvezza del mondo, conformandosi a lui nella effusione del sangue, è stimato dalla chiesa come il dono eccezionale e la suprema prova della carità»(LG 42).


Questo passaggio si trova nel numero della costituzione che comincia con la citazione di 1Gv 4,16: «Dio è amore e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio in lui». È evidente la volontà del Concilio di definire il martirio come una assimilazione alla morte di Gesù. È questa la definizione più chiara del martirio: essere assimilati “alla morte di Cristo”. Il martirio che è un eccezionale dono, come scrive il Concilio, è anzitutto prova della carità. Il martire potrebbe essere chiamato testis charitatis. È per questo che Giovanni Paolo II ha voluto che M. Kolbe fosse chiamato martire. In verità, già il Concilio di Trento insegna che la fede «se non è informata dall’amore» non merita il nome di fede, perché è una fede «morta e oziosa» (DS 1571). In questo modo la definizione del martirio si incentra soprattutto sulle ragioni di chi muore e non esclusivamente sulle ragioni di chi uccide. Nell’interessarsi delle vittime piuttosto che del carnefice si recupera la terminologia della chiesa primitiva, per la quale il martire è principalmente “testimone”. Testimone della verità di Dio che è l’amore, in un mondo retto dal disamore e dall’egoismo. Testimone di questa verità con la testimonianza della propria vita, e non con un semplice insegnamento astratto. E testimone supremo, perché il dono della vita è l’espressione suprema dell’amore.


In tale contesto il termine “fede” viene allargato sino a comprendere l’intera vita del credente e quindi la stessa comunità cristiana, la Chiesa. La Chiesa e la sua vita fa parte della verità della fede, come del resto si diceva in antico lex orandi, lex credendi. In questo senso, essere uccisi per l’opposizione a una Chiesa evangelicamente ispirata, rientra nella morte in odium fidei. È la tesi che sosteniamo nella causa di beatificazione di mons.Romero. Nella documentazione presentata si sottolinea appunto il clima di persecuzione perpetrato dalle autorità politiche salvadoregne contro una Chiesa che voleva seguire i dettami del Vaticano II e che aveva fatto la scelta dei poveri. È vero che gli oppositori erano cristiani, ma essi uccisero Romero ed altri perché con la loro vita e le loro scelte indicavano una Chiesa che seguiva tenacemente le riformi conciliari e le scelte decise nelle conferenze dei vescovi dell’America Latina. I motivi potevano essere politici, ossia di conservazione del loro potere, ma come erano politici i motivi portati contro Gesù che sobillava il popolo. Furono uccisi preti e suore, catechisti e gente comune. L’arcivescovo, divenuto unica voce, fu ucciso perché non parlasse più. Romero ha imitato Gesù soprattutto alla fine, nel momento della morte avvenuta sull’altare al momento dell’offertorio. 


Nel contesto dei nuovi martiri del Novecento si aggiunge una dimensione ancor più sorprendente che già Paolo VI aveva intuito. Nella omelia per la canonizzazione dei martiri ugandesi disse che: “la testimonianza resa a Cristo sino allo spargimento del sangue è divenuta patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti”. Giovanni Paolo II ne ha rilevato l’incredibile valenza ecumenica. Egli afferma che nei nuovi martiri del Novecento, che appartengono a tutte le Chiese cristiane, la Chiesa ha già trovato la sua unità, sottolineando che l’amore martiriale racchiude l’intera professione di fede. E torna ancora una volta in tutta la sua ricchezza l’espressione antica della ecclesia martyrum come la sostanza della sua stessa esistenza. Il martirio nasce dall’amore di Dio riversato nel cuore dei martiri. E per questo il martirio è anzitutto un dono di Dio al martire. E il martire è un regalo di Dio per il popolo di Dio. Perché è testimone della fede essendo testimone dell’amore supremo. Proprio per questo, dimenticare i martiri non è solo una negligenza. Dimenticarli è non ascoltare un insegnamento, è chiudere i propri occhi e indurire il cuore perché la loro lezione non entri in noi. Ed è per questo che ho voluto porre al centro della cattedrale di Terni una croce: con il crocifisso e il risorto. Gesù, primo martire e primo risorto, e accanto a lui nella facciata di fronte i tre martiri della nostra Diocesi: Valentino, Giovenale e Firmina; e dietro, i tre nuovi martiri del Novecento: Thykon, patriarca di Mosca, Bonoheffer, teologo protestane e Romero, arcivescovo di San Salvador. Il loro martirio, la loro testimonianza è un dono da accogliere, da custodire e da trasmettere.


 


NOTE 


  


‘K. RAHNER, Dimensioni del martirio. Per una dilatazione del concetto classico, in Concilium 3/1983, 28.


2Come tante altre volte, Rahner si mostrava in questo caso più autenticamente tradizionalista dei suoi oppositori. Anche san Tommaso ritiene martire chi muore in difesa della propria verginità; e altrove argomenta che la chiesa celebra il martirio di san Giovanni Battista che pure non è stato ucciso allo scopo di negare la fede, ma perché aveva riprovato un adulterio (Summa theologiae IIa- IIae, q. 124, a. 5c).


3Ho martys ho pistós: Ap 1,5.


4 Cf. TOMMASO D’AQUINO, In IV Sent., dis. 49, q. 5, a. 3, quaestiunculae 2 e 3.


5 Non voglio parlare della guerra civile spagnola, rispetto a cui si è dato per scontato che potevano essere beatificati solo coloro che era morti in una fazione. Mai coloro che sono morti nell’altra, anche se erano stati cristiani o presbiteri che morivano per il proprio modo di concepire la fede. E ce ne furono.


6 J.  HERNÀNDEZ  Fico,  II  martirio  oggi  in  America  Latina:  scandalo   follia e forza di Dio, in Concilium 3/1983, 82.


7 Summa theologiae, IIa-IIae, q. 124, a. 5.


8«Maxime demonstrat perfectionem charitatis».


9Commento Ad romanos, cap. 8, lect. 7.


10Ancor prima del concilio, Sebastian Tromp nel suo De revelatione chrinstiana definisce il martirio come «l’accettazione volontaria di una morte inflitta ex odio fidei vel legis divinae»  (p.  348).  Ho concluso  la  citazione  in latino perché sia chiaro che la “fede” viene identificata con la “legge divina” (il testo non dice aut, ma vel) e questa è una maniera di alludere alla prassi umana in opposizione a una concezione meramente nozionistica della fede.


11Vale la pena notare che nei vangeli quasi tutte le volte che Gesù si mostra conflittuale, poco prima ci era stato detto che «gli si erano commosse le viscere».


 12ORIGENE,  Contra  Celsum,   VIII,  68  (in  PG  11,   1619).   Cf.  pure  ibid.,  VIII,  73 (in PG 11, 1627) sulla divinizzazione degli imperatori e il servizio nell’esercito.


13 «Possono uccidermi, ma non possono arrecarmi nocumento»: frase di Socrate citata in GIUSTINO, Apologià I, 24.


14  P.   CASALDÀLIGA,  Gli   indios    “crocifissi”.    Un   caso   di   martirio   anonimo collettivo, in Concilium 3/1983, 97.