Con i poveri e contro i predatori: la politica ignora la politica di Gesù

Copio alcune righe, celeberrime, del Vangelo di Matteo. «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4 Beati gli afflitti, perché saranno consolati. 5 Beati i miti, perché erediteranno la terra. 6 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7 Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8 Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9 Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10 Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli». Ma scusa, Monsignore, questo non è un ragionamento religioso. A me pare un manifesto politico. Ho torto?

Piero Sansonetti

Caro Direttore, non c’è dubbio che questa pagina può ispirare prospettive politiche, ma va ben oltre: sa di eternità, come l’altra parola biblica “àgape” di cui l’apostolo Paolo scrive, appunto, che non tramonterà mai.  Gesù nelle “beatitudini” propone un concetto di felicità capovolto. Affermare: “Beati i poveri!”, significa scardinare la convinzione che la felicità sia legata alla ricchezza o comunque ai beni. Ma attenzione. Gesù non intende affermare che i poveri sono beati (felici) perché poveri. No, sono beati perché gli imbecilli che li disprezzano e i prepotenti che li umiliano non sono nessuno. Finalmente arrivano i segni della tenerezza e della potenza amorevole di Dio (“guarigioni”, “assoluzioni”, “risurrezioni” …), e sono destinati proprio a loro. Dio ha scelto di venire sulla terra stando con loro, non abitando nei palazzi dei potenti: anzi considera un fallimento i loro eccessi. E manda i suoi discepoli, in tutto il mondo, per fare questo: restituendo speranza di riscatto e di beatitudine innanzitutto per loro. Insomma è un concetto di felicità capovolto.

L’accoglienza di questo cambio di prospettiva, in realtà, è una salvezza per tutti. Il godimento della vita indifferente ai poveri, ai miti, agli assetati di giustizia, rende ottusi, imbolsiti, impasticcati e parassiti. La lotta per il possesso e l’accumulo non risparmia nessuno: esalta la competizione e devasta famiglie, comunità e popoli. La società del risentimento è il frutto della selezione del benessere: genera individui predatori, paranoici, insoddisfatti di una voracità che non basta mai. Questa provocatoria “dislocazione” della benedizione di Dio e della beatitudine del povero riapre la storia umana – in questo senso vi entra anche la politica – per una felicità condivisa, che rende la terra abitabile. Le beatitudini evangeliche non sono un programma politico per un partito di opposizione o una versione religiosa della lotta di classe. Sono una provocazione radicale alla diffusione del seme della partecipazione di Dio al progetto di un’umanità inclusiva, degna di questo nome.

In questo senso, le beatitudini evangeliche sono una sorgente da cui zampillano idee, prospettive, entusiasmi e persino “follie” che realizzano nuove e impensate relazioni e rapporti illuminati, appunto, dallo sguardo di Dio sulla storia del mondo e sull’umanità. L’emarginazione dei poveri non assicura affatto un’umanità migliore per i selezionati del benessere: basterà un virus ad affondarci. Le beatitudini indicano una scelta chiara: i “raccomandati” di Dio sono quelli che Gesù mette in cima alla lista delle passioni di Dio: quelli che la logica del godimento disprezza come “scarti”, come “perdenti”, come “illusi” (inclusi i puri di cuore, gli affamati di giustizia, i dispensatori di benevolenza). Gesù li proclama “beati”. Se stiamo con loro c’è speranza per tutti: se li lasciamo abbandonati, Dio li troverà e noi ci troveremo persi. Questo vangelo non è un vangelo di classe: esiste sempre il rischio che anch’essi, una volta che sono stati riscattati dall’amore di Dio e scampato il pericolo, si comportino con i loro simili proprio con la logica perversa dalla quale sono stati liberati: il Vangelo lo ricorda con una parabola durissima a questo riguardo (Mt 18, 21-35). La purezza impressionante del Vangelo di Gesù si lascia ammirare proprio nella chiarezza – persino tagliente – di questo ammonimento.

Beati anche noi se lo riconosciamo! Quel grande credente e poeta che era Padre David Maria Turoldo già negli anni Ottanta notava: «La disgrazia sta nel negare la povertà, invece di accoglierla, sta nel volerne uscire da soli o nel pretendere di non appartenervi o di esserne usciti. La povertà è una dimensione essenziale all’uomo». Per questo i poveri e la povertà dovrebbero rappresentare il punto di partenza per una giusta impostazione dell’esistenza umana, compresa l’economia. «Poveri e povertà», è sempre Turoldo che scrive, «sono essenziali al piano della salvezza. Sono i poveri che ci salvano, anzi la povertà è la stessa salvezza. Il mondo non può risolvere i suoi problemi, se non sceglie la povertà come regola della sua economia».

Purtroppo oggi più che i beni — ce ne sarebbero per tutti — manca il senso del diritto di ogni uomo ad avere almeno il necessario. Per questo la povertà e i poveri sono una profezia da ascoltare. E va ascoltata ancor più in questo tempo di pandemia che si è abbattuta su tutti ma, come sempre, sui poveri si raddoppia. E quando Papa Francesco afferma di volere «una Chiesa povera e per i poveri» si lega al Vangelo che il Vaticano II ha riproposto per l’oggi.

È significativa la scelta di un gruppo di vescovi al termine del Concilio: «Cercheremo di vivere secondo il livello di vita ordinario delle nostre popolazioni per quel che riguarda l’abitazione, il cibo, i mezzi di comunicazione e tutto ciò che vi è connesso… Rinunziamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente nelle vesti e nelle insegne… Non avremo proprietà né di immobili né di beni mobili né conti in banca o cose del genere a titolo personale… Rifiutiamo di lasciarci chiamare oralmente o per iscritto con nomi e titoli che esprimano concetti di grandezza o di potenza… Dedicheremo tutto il tempo necessario al servizio apostolico e pastorale delle persone o dei gruppi di lavoratori che sono in condizione economica debole o sottosviluppata».

Per completare il discorso accenno a quel che Gesù disse ai discepoli subito dopo la proclamazione delle Beatitudini: voi siete il sale della terra e luce del mondo. E continua: «Se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato?» Siamo appena agli inizi della predicazione evangelica ed è difficile pensare che i discepoli siano pienamente “uomini delle beatitudini”. In queste parole di Gesù c’è come una domanda di responsabilità, quasi a dire: non ho altro che voi per l’annuncio del Vangelo o, detto in altri termini: se la vostra funzione viene meno, se il vostro comportamento è insipido e senza gusto, non ho altro rimedio per l’annuncio evangelico. Potremmo dire che noi, poveri uomini e povere donne, siamo sale e luce non da noi stessi, ma solo perché portiamo nelle nostre mani e nel nostro cuore il Vangelo ch’è la vera luce che viene nel mondo come scrive Giovanni: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo».

Noi siamo il candelabro. La luce è la luce. A noi il compito di farla brillare, persino aldilà della nostra miseria di cui siamo impastati. La nostra piccolezza non attenta alla potenza di quella fiamma, non la spegne, semmai la esalta se facciamo di tutto per tenerla in vita. Dobbiamo essere consapevoli che «abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2Cor 4,7). Il primo a non vergognarsi della nostra debolezza è proprio il Signore. La sua luce non è smorzata dalle nostre tenebre. Non c’è alcun disprezzo per l’uomo da parte del Vangelo e non c’è alcuna antipatia da parte del Signore, che a ragione viene chiamato «l’amico degli uomini». La vicinanza ai poveri fa risplendere la luce del Vangelo! Sceglierli come amici significa far brillare la beatitudine evangelica.

Per questo il Vangelo delle Beatitudini può “illuminare”, “salare” in modo avvincente anche le prospettive della politica. Ma soprattutto può sostanziare un programma profondamente umano, un invito alla vicinanza, a superare le divisioni create non da Dio ma dagli stessi esseri umani quando si inorgogliscono per il potere e i beni materiali, al punto da dimenticare che la vita e il mondo vanno protetti, custoditi, conservati, perché vengono da Dio e sono destinati alla comunità umana nella sua interezza.

La condivisione rende possibile la fraternità, l’esclusione genera assuefazione alla sopraffazione. Le beatitudini non sono un programma politico, però sono una benedizione che giudica la politica. Lasciarsi provocare dalla sua proclamazione a opera di Dio, non rende il governo della polis più facile: lo rende più decente. Umano, insomma.