Chi era Oscar Romero, il monsignore assassinato per aver provato a fermare la violenza

«Soldati, vi supplico, vi prego, vi ordino: non uccidete i vostri fratelli». Sono le parole che il 23 marzo del 1980 mons. Oscar Arnulfo Romero pronunciò dall’altare della cattedrale di San Salvador. Il giorno dopo venne ucciso mentre celebrava la Messa. Sono passati esattamente 42 anni da quel giorno. E oggi siamo a un mese di guerra in Ucraina. Quelle parole sembrano lontane un’epoca. Mi è tornata in mente l’inizio di una poesia di Davide Maria Turoldo

Chi ti ricorda ancora
Fratello Romero?
Ucciso infinite volte
Dal loro piombo e dal nostro silenzio.

Ucciso per tutti gli uccisi;
neppure uomo,
sacerdozio che tutte le vittime
riassumi e consacri.

Sono le prime due strofe della bella poesia che Turoldo scrisse in memoria di Romero anni prima della canonizzazione. C’era in quegli anni una memoria viva di questo testimone della fede e dell’amore sino al martirio. Allora la causa di beatificazione era praticamente bloccata (di qui il lamento di Turoldo). Era viva invece la sua memoria presso i cristiani di tutte le denominazioni. La Chiesa anglicana lo aveva scelto tra i dieci testimoni della fede del Novecento che campeggiano nella facciata della cattedrale di Westmister. Persino l’Onu ne onorò la memoria proclamando il 24 marzo, giorno del suo martirio, “International Day for the right to the Truth Concerning Gross Human Rights and for the Dignity of Victims”. Turoldo si riferiva soprattutto ai confratelli di Romero. Oggi penso, invece, alla grande maggioranza. Con amarezza, con grande amarezza purtroppo, dobbiamo rilevare un pesantissimo silenzio su Romero e sulla sua testimonianza martiriale.

Romero sembra dimenticato. Anche nelle fila dei cristiani. La sua memoria non è più sentita come uno scandalo per le violenze e le guerre di questi anni e dei nostri giorni. Sento vero per questi tempi il lamento di Turoldo: “Chi ti ricorda ancora, fratello Romero?” Perché la sua memoria non è più dirompente? Sembra essersi attutita. Mi chiedo: si è forse annebbiata la testimonianza dei martiri, anche tra le comunità cristiane? È da mesi che questo interrogativo mi risuona nella mente. E ne trovo conferma nella freddezza con cui è stata celebrata la beatificazione di Rutilio Grande lo scorso gennaio. C’è stato come un grande silenzio nelle comunità cristiane come nelle società civili. Eppure ricordo che esattamente 9 anni fa, il 19 marzo del 2013, incontrando papa Francesco alla fine della Messa d’inizio di pontificato, parlammo di Romero e della necessità di promuovere la beatificazione di Rutilio Grande. Mi disse che il miracolo Padre Rutilio lo aveva già compiuto facendo cambiare vita a Romero. Come ricordano tutti coloro che conoscono anche solo poco di Mons. Romero. Mi sorprende il silenzio su questi due martiri. Eppure la loro memoria sarebbe molto utile. Anche in questo tempo nel quale si è come indebolita la forza di un cristianesimo martiriale. C’è nel Vangelo una dimensione di “eroismo” – inteso non in senso mondano ma, appunto, evangelico – che spinge il credente a dare la propria vita per gli altri più che a conservarla per se stessi. E ancor meno a colpirla a morte. Quell’istinto cristiano – un istinto originario fin dalle prime pagine della Bibbia che vede in ogni omicidio un fratricidio e in ogni guerra una uccisione tra fratelli – che spinge a ritenere che nessuna guerra è giusta, è come superato dalla voglia di trovare una morale che giustifichi. In questo tempo sento più che mai forte l’urgenza della dimensione “martiriale” del cristianesimo.

Ripeto: non si è attutita? Romero, predicando al funerale di un prete ucciso dagli squadroni della morte, affermò: «Non tutti, dice il Concilio Vaticano II, avranno l’onore di dare il loro sangue fisico, di essere uccisi per la fede, però Dio chiede a tutti coloro che credono in lui lo “spirito del martirio”», cioè tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore; noi, sì, siamo disponibili, in modo che, quando arriva la nostra ora di render conto, possiamo dire «Signore, io ero disposto a dare la mia vita per te. E l’ho data. Non dimentichiamo che dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera» e, aggiungo io, nel testimoniare la non violenza del Vangelo della pace. In questo orizzonte evangelico come non vedere Romero negli uccisi durante le guerre, tutte le guerre? Riprendo i versi di padre Davide Turoldo: «Tutti uccisi infinite volte dal loro piombo e dal nostro silenzio. Ucciso per tutti gli uccisi; neppure uomo, sacerdozio che tutte le vittime riassumi e consacri». È questo il senso della memoria di Oscar Arnulfo Romero in questo 24 marzo 2022. E ricordare anche quella di padre Rutilio Grande. Era docente nella Università Cattolica di San Salvador, ma aveva scelto di vivere in un villaggio della periferia, Aguilares, con i contadini.

Un mese prima di essere ucciso (13 febbraio 1977), durante una sua predica diceva: «Sono convinto che presto la Bibbia e il Vangelo non potranno più attraversare i nostri confini. Ci lasceranno solo le copertine, perché ogni loro pagina è sovversiva. E credo che lo stesso Gesù, se volesse attraversare il confine di Chalatenango, non lo lascerebbero entrare. Accuserebbero l’Uomo-Dio, il prototipo dell’uomo, di essere un sobillatore, uno straniero ebreo, che confonde il popolo con idee strane ed esotiche contro la democrazia, cioè contro la minoranza dei ricchi, il clan dei Caini. Fratelli, senza dubbio, lo inchioderebbero nuovamente alla croce. E Dio mi proibisce di essere anch’io uno dei crocifissori». Il Vangelo della pace, dunque, deve essere predicato a voce alta dalla Chiesa di oggi. Lo ribadisce papa Francesco denunciando ancora una volta la disumanità della guerra: «Va contro la sacralità della vita umana, soprattutto contro la vita umana indifesa, che va rispettata e protetta, non eliminata, e che viene prima di qualsiasi strategia! Non dimentichiamo: è una crudeltà, disumana e sacrilega!». E domenica scorsa ha continuato: la guerra è “ripugnante”; di più, è “sacrilega” perché va contro la santità della vita umana, specie quella indifesa. E aggiungeva: «Siamo di fronte ad un massacro insensato dove ogni giorno si ripetono scempi e atrocità». E chiede a “tutti gli attori della comunità internazionale” l’impegno indefesso per cessare il conflitto e avviare i passi per la pace.

La guerra non è mai giusta. Nel Savador di mons. Romero la guerra civile era ingiusta, sempre. Era guerra di interessi mascherati da “ideali”. Sempre guerra, sempre ingiusta. Come lo sono tutte le guerre, a maggior ragione quando la sofferenza colpisce le popolazioni civili. La Chiesa ha il compito di predicare il Vangelo della pace: è il senso della predicazione di un Regno che sia di Dio e non del “diavolo” annuncia un disegno di Dio più alto, nobile e ambizioso per la Storia umana: realizzare la libertà, l’uguaglianza, la fraternità. È la profezia strettamente connaturata all’Antico e al Nuovo Testamento. E saldamente ancorata alle aspirazioni di ognuno di noi a vivere sereni, in pace, lasciando un mondo migliore ai nostri figli. Non un mondo distrutto o avvelenato dal rancore.