Agorà del giovani del Mediterraneo

Storia e carità

La carità è orfana di storia, della storia scritta ovviamente non di quella reale, che in verità ha coinvolto giornalmente, per secoli e secoli, piccoli e grandi, umili e potenti, borghi e città con la sua energia sconvolgente. Sì, la forza della carità, è quel che mi è saltato agli occhi mentre scrivevo “La storia dei poveri” nei due ultimi millenni. E mi apparivano sempre più evidenti le parole di Riccardo di S.Vittore: “Grande è la forza dell’amore, piena di meraviglie la virtù della carità… vi trovi l’amore per l’uomo, quello per l’amico, il compagno, il parente, il fratello e molti altri ancora. Ma in alto, all’ultimo gradino dell’amore, c’è l’amore che brucia e riscalda, che accarezza il cuore e incendia i sensi e trafigge l’anima fino al midollo sì che veramente essa può dire: sono malata d’amore”. E poi aggiungeva: “La carità ferisce. La carità incatena. La carità sfibra. La carità consuma; è incontenibile e invincibile, esclusiva e insaziabile”(Riccardo di San Vittore, I quattro gradi della violenta carità, Roma 1990).
Qual è la fonte dell’amore? E’ il piccolo libro del Vangelo. E’ il Vangelo la sorgente della carità. E, all’inizio del primo millennio, su quelle strade di Galilea, fu una novità assoluta, tanto che gli autori del Nuovo Testamento per parlarne dovettero usare un termine quasi ignoto alla cultura greca: “agape”. I greci, infatti, preferivano usare i termini “eros” e “philia”. Con la parola “agape”, il cristianesimo si introduce una nuova e impensata concezione dell’amore: un amore che non si nutre della mancanza dell’altro (“eros”) e nemmeno semplicemente si rallegra della sua presenza (“philia”), ma, appena concepibile dagli uomini, trova il suo modello culminante nella croce di Cristo: amore disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire – ed è il meno che si possa dire – al di fuori di ogni reciprocità. E’ l’amore stesso di Dio. E sta al di sopra di tutto: della profezia, della lingua degli angeli, della speranza e della stessa conoscenza. L’agape è superiore persino alla fede. Tutto passerà, tranne l’amore.


Il primo millennio


I suoi primi passi li muove con Gesù di Nazareth (in verità bisognerebbe andare molti secoli addietro, quando Dio scese a liberare il suo popolo schiavo in Egitto)…..  Essi restano la fonte ispiratrice per ogni generazione cristiana. L’immagine della Comunità cristiana descritta dagli Atti degli Apostoli resta normativa: vivevano assieme nella preghiera, nell’ascolto degli Apostoli, nella frazione del pane, e nessuno tra loro era bisognoso perché quel che avevano lo mettevano in comune. Il primo scandalo, la prima divisione nella comunità cristiana non è nel campo dottrinale ma in quello della carità, quando a Gerusalemme venivano aiutate solo le vedove della città e non quelle degli stranieri.
Già nella metà del primo secolo, la carità trova le sue forme organizzative, le sue strutture e i suoi protagonisti. Nei secoli IV e V, con i Padri Cappadoci (Basilio, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazanzio, cui è da aggiungere il Crisostomo), raggiunge la sua prima grande sintesi, teorica e pratica. Basilio crea la prima città dei poveri; Gregorio di Nissa stigmatizza il “mio” e il “tuo” come “parole funeste che non esistevano all’inizio”; Gregorio di Nazanzio afferma che la carità è il culto unico dei cristiani e Giovanni Crisostomo, riempiendo di poveri la cattedrale di Antiochia, indica da che parte sta (deve stare) la Chiesa. Con loro il vescovo divenne “defensor civitatis et pater pauperum”. Su questa scia seguirono i vari Ambrogio, Gregorio Magno, Leone, Cesario, Agostino, e tanti altri ancora. Ben presto però ai vescovi si aggiunsero i monaci che divennero l’altro polo della carità, come prescrive la Regola: “Si ponga la massima cura e sollecitudine nell’accogliere i poveri e gli stranieri, perché Cristo si riceve di più nella loro persona, essendo i ricchi già onorati per il timore che incutono”. E in questi secoli nascono i primi ospizi che presto diventano ospedali. Ed è bello quell’episodio che narra di uno straniero che appena entrato in città chiede dov’è la casa del vescovo. Gli viene risposto: “Segui la fila dei poveri, e troverai la casa del vescovo”. Nel primo millennio carità e Comunità cristiana erano inseparabili, Chiesa e poveri erano inscindibili.


Il secondo millennio


All’inizio del secondo millennio, quando Diocesi, parrocchie e monasteri divennero più sordi al Vangelo, fu proprio la carità a ridare vigore ad un cristianesimo infiacchito. I vescovi della regione di Reims lamentavano: “Il paese è ridotto a un deserto. Come i primi uomini, così adesso ciascuno fa ciò che gli piace…Il potente opprime il debole, il paese non conosce che la violenza contro il povero”. Tuttavia, né i vescovi né i monaci mostravano adeguata attenzione al crescente numero dei poveri che talora morivano di fame persino nei pressi delle porte dei monasteri. E un concilio in Francia gridava: “Vergogna! I cani dei vescovi sono più nutriti dei poveri!” Crebbe, anzi, il disprezzo verso di loro, giustificato con l’antica concezione della miseria come castigo di Dio per le colpe commesse. Ma un fremito di riforma traversò la Chiesa in tutta l’Europa con l’apparire dei nuovi ordini monastici, degli eremiti, dei preti di vita comune, e di molti laici che abbracciavano l’ideale della povertà, rifiutando possedimenti e privilegi. Tutti costoro i poveri e i diseredati come loro compagni di vita. Roberto d’Arbrissel, addirittura, viveva con loro. In quell’epoca il povero ricevette il titolo di “vicarius Christi” (solo successivamente fu dato anche al papa). Francesco d’Assisi resta l’esempio più alto di questo nuovo volto del cristianesimo d’inizio millennio. Di fronte al mutismo di una Chiesa che non parlava più, si mise lui, laico, a dire in volgare il Vangelo, e scelse i “minores”, gli emarginati del tempo, come suoi fratelli. Analogamente si mosse il francese Valdo e i suoi compagni. La carità, unitasi strettamente alla povertà, fu all’origine della riforma della Chiesa d’inizio millennio.
La crescita costante del numero dei poveri, che nelle città raggiunse livelli molto alti, sino al sei-dieci per cento della popolazione, fece cambiare l’attitudine nei loro confronti. Il povero non è più il “vicarius Christi”, ma un possibile delinquente e facilmente un malfattore; ormai dissacrato, è sospettato e pericoloso. Al massimo si distingueva tra poveri “buoni” (vecchi, vedove, orfani) e “cattivi” (oziosi, parassiti, vagabondi). La carità, stretta tra il dibattito contro l’idealizzazione della povertà e l’urgenza di controllare l’afflusso dei poveri, cercò il suo spazio e lo trovò nel farsi “misericordia”: le strade e le città dell’Europa si riempirono di ospizi, di ospedali e di lebbrosari e un numero crescente di uomini e di donne, appartenenti ai ceti della nuova borghesia, si organizzarono per portare aiuto ai malati, agli, ai condannati a morte, agli abbandonati, ai pellegrini, ai carcerati, ai poveri vergognosi, e così via. E’ l’epoca delle confraternite. Non c’è paese o città in Europa che non ne abbia una o più per far fronte ai bisogni dei poveri, compresa la prevenzione alla povertà con la creazione dei Monte di Pietà. L’iniziale opposizione dei banchieri e dei teologi fu vinta da un decreto del concilio Lateranense V che prosciolse i Monti dall’accusa di usura.
La povertà, comunque, aveva perso l’aura sacrale e divenne soprattutto una questione di ordine pubblico. Se gli umanisti, come Erasmo, Tommaso Moro e Bartolomeo La Casas, cercarono di immaginare un nuovo ordine sociale ove la carità era legata alla giustizia, gli amministratori pubblici iniziarono per lo più a emanare leggi per regolare e controllare la mendicità. L’assistenza si municipalizzò e il controllo cittadino sugli ospedali e sulle strutture di assistenza si diffuse rapidamente. La costruzione di grandi “case di lavoro” – simbolo di una nuova epoca nell’assistenza – sanciva la reclusione dei poveri e l’impegno della società a rieducarli al lavoro. La gestione dell’assistenza passò quasi totalmente alle autorità civili, mentre al sacerdote si affidava la “cappellania” spirituale. Vincenzo de’ Paoli fu il primo a distaccarsene rifiutando di mandare i preti della Missione all’ospedale generale di Parigi per l’assistenza spirituale: “Non so bene – disse – se il buon Dio lo vuole”. Scelse, invece, per sé e per i suoi di occuparsi dei poveri andando direttamente nelle loro case. La carità tornava per strada e i poveri erano nuovamente visti come “membra di Cristo” da soccorrere. 
Il Settecento cambiò profondamente lo scenario. Di fronte alla persistenza della povertà, nonostante il grande impegno delle autorità civili per debellarla, si intensificò la riflessione per aggiornare la legislazione. Il Muratori con il volume “Della carità cristiana come amore del prossimo”, cercò di riproporre al centro dell’assistenza la carità evangelica, ma il termine era ormai ritenuto troppo connotato religiosamente, sebbene Voltaire, annotasse: “Là dove manca la carità, la legge è sempre crudele”; e non intendeva tanto l’elemosina o le opere di carità. Si iniziò, in ogni caso, a parlare di “beneficenza” e di “solidarietà”, basandoli sul principio laico della filantropia. Restò famoso il detto: “Al povero che domanda l’elemosina, don Giovanni dona un luigi d’oro non per l’amore di Dio ma per amore dell’umanità”. E Charles Gide chiariva: “Non veniamo a fare il lavoro della carità, ma della solidarietà; la carità degrada, la solidarietà eleva”. La rivoluzione francese proclamò l’inviolabile diritto del cittadino all’assistenza da parte dello Stato e il corrispettivo dovere della società di gestirla con mezzi opportuni. Tuttavia, con l’andare degli anni, l’inefficacia delle istituzioni di beneficenza pubblica fece riemergere la carità cristiana come “la sola diga potente all’invasione del pauperismo” (Armand de Melun). Il dibattito sulla beneficenza e sulla carità si estese ovunque; si pubblicarono 10.000 volumi, nella sola Francia. Frédéric Ozanam fu tra i primi a “riabilitare la carità” come il modo più efficace per risanare la società malata: “Noi, poveri samaritani…osiamo accostarci a questo grande malato (la società)…per ridargli la speranza di un mondo migliore”. “Il nostro aiuto principale – disse ricordando gli inizi dell’opera – non fu quello di soccorrere il povero. No! Questo fu il mezzo soltanto. Il nostro fine fu quello di mantenerci puri nella fede cattolica, e di propagarla negli altri mediante la carità”. Per questo poteva parlare anche del ruolo pacificatore della carità nelle lotte sociali.
L’Ottocento, con la depressione salariale, gli orari di lavoro sfibranti, l’impiego massiccio di manodopera femminile e infantile, le migrazioni interne, la diffusione accentuata delle malattie professionali, la disoccupazione, l’assenza di un valido sistema previdenziale, vide modificarsi profondamente i volti della povertà e della miseria, sino a identificare il povero con l’operaio. La carità divenne “sociale”: si concentrò sul mondo operaio ma senza dimenticare quei poveri che operai non erano. Quattrocento istituti di suore, con più di 200.000 religiose, nacquero nell’Ottocento per soccorrere quest’ultimi. Eppoi vennero i vari don Bosco, Cottolengo, Murialdo, Orione, Calabria, Scalabrini, Balbo. Con loro la “carità” si specializza; all’assistenza generica (pane e vestititi) si aggiunge quella specifica per i nuovi poveri: ex carcerati, prostitute, alcolizzati, minorati psichici, sordomuti, malati cronici, ragazzi orfani, anziani, emigrati, accattoni.
La carità, entrata nel Novecento con un eccezionale dinamismo, allarga immediatamente i suoi confini. Il primo conflitto mondiale se da una parte vede i cristiani, per la prima volta in modo così ampio, stare sui due fronti opposti, dall’altra trova nella carità quell’energia che fa superare i confini per tessere un reticolo di assistenza tra chiunque sia colpito. Iniziano in quest’epoca i primi organismi nazionali eppoi internazionali della carità. Essa, nei modi più diversi, forse fu l’unico fronte ad opporsi alla crescita abnorme dell’anti-carità o quantomeno ad alleviare i drammi provocati dall’affermarsi dei totalitarismi. Una creativa e rischiosa solidarietà unì uomini e donne nei campi di sterminio, nei gulag, e ovunque ci fosse persecuzione. Milioni di martiri e di testimoni, noti e ignoti, sostenuti dalla carità hanno opposto resistenza oppostisi alle degradazioni del nazismo e del comunismo. Nelle innumerevoli tragedie del Novecento, la carità ha scritto, e continua a scrivere, la sua pagina più bella. Simone Weil, a proposito della fonte di questa carità, scrive: “L’amore per il prossimo è l’amore che scende da Dio verso l’uomo. E’ anteriore di quello che sale dall’uomo verso Dio. Dio è ansioso di scendere verso gli sventurati. Non appena un’anima, fosse anche l’ultima, la più miserabile, la più deforme, è disposta ad acconsentire, Dio si precipita in lei per poter guardare e ascoltare gli sventurati tramite suo. Solo col tempo l’anima si accorge di questa presenza. Ma, anche se non trovasse la parola per esprimerla, Dio è presente ovunque gli sventurati sono amati per se stessi” (Simone Weil, L’amore di Dio, Borla, Roma 1979).


All’inizio del terzo millennio


I cristiani, spinti da questo fuoco d’amore, sono andati ovunque, anche a costo della vita. I poveri del Terzo Mondo sono ormai nel cuore delle Chiese. Giovanni XXIII, affermando che “la Chiesa è di tutti ma particolarmente dei poveri” mostra qual è la scelta preferenziale della comunità cristiana. Paolo VI e Giovanni Paolo II, su questa linea, divengono i difensori più forti dei poveri e dei loro diritti. La scelta dei poveri si realizza attraverso un esteso reticolo di carità che si estende in ogni parte del mondo. Forse è stata la prima vera globalizzazione. Sì, la globalizzazione della carità. E’ questa la riserva più fresca di energie che l’umanità può accampare all’inizio del nuovo millennio, per contrastare la crescita smisurata degli egoismi e dei particolarismi che continuano a creare violenze e conflitti. La carità, forza che travalica il cristianesimo stesso, come anche le religioni e persino la non credenza, obbliga ad uscire da se, a scavalcare qualsiasi muro, per andare dove nessuno va e per vivere dove non si vive. Diceva Madre Teresa: “La peggiore malattia dell’Occidente oggi non è la tubercolosi e la lebbra, ma il non sentirsi amati e desiderati, il sentirsi abbandonati. La medicina può guarire le malattie del corpo, ma l’unica che cura la solitudine, la disperazione e la mancanza di prospettive è l’amore. Vi sono numerose persone al mondo che muoiono per un pezzo di pane, ma un numero ancora maggiore muore per mancanza d’amore”. La carità non divide i buoni dai cattivi, ma chi vede da chi non vede; chi decide di fermarsi da chi sceglie di continuare sulla propria strada. La “via amoris” è stretta perché non è scontata e va scelta, ma è larga, anzi larghissima, perché può accogliere tutti. Per i cristiani essa ha un nome: Gesù di Nazareth; per altri forse non ha nome, o meglio, ha il nome dei tanti “Lazzaro” di questo mondo. Solo il ricco, della parabola evangelica, che banchetta lautamente è senza nome, perché è senza amore. Solo l’amore è storia che resta.


L’Agorà dei giovani del Mediterraneo a Loreto