AGAPE

Intervento al Festival della Filosofia di Modena – settembre 2013


Un mondo senza amore

Vorrei partire da una affermazione di Madre Teresa di Calcutta: “La peggiore malattia dell’Occidente oggi non è la tubercolosi o la lebbra, ma il non sentirsi amati e desiderati, il sentirsi abbandonati. La medicina può guarire le malattie del corpo, ma l’unica cura per la solitudine, la disperazione e la mancanza di prospettive, è l’amore. Vi sono numerose persone  al mondo che muoiono perché non hanno neppure un pezzo di pane, ma un numero ancora maggiore muore per mancanza di amore”.

Per mancanza d’amore si muore e si arriva anche a programmare la morte (non è forse questo il senso dell’eutanasia? E non è questo il motivo per cui in alcuni paesi del Nord Europa il suicidio è la prima causa delle morti dei giovani?). La persona umana, quando è sola, sta sul baratro della morte. La sua vocazione infatti non è la solitudine, ma l’amore con l’altro, con l’altra, con gli altri. Quando Dio stesso, dopo aver creato Adamo, che pure era il vertice della sua opera, afferma: “non è bene che l’uomo sia solo”, tocca un nodo fondamentale dell’intera esistenza umana. Senza l’altro, quindi senza l’amore, la vita diviene un inferno. Lo sanno bene i milioni di bambini che sono preda della malattia, della fame, della crudeltà di chi li ingaggia persino nelle guerre; lo sanno i giovani privi di ideali e di futuro; lo sanno le donne che vengono eliminate dalla violenza degli uomini che magari dicono pure di amarle; lo sanno gli adulti, uomini e donne, costretti a una durissima concorrenza per sopravvivere e non essere schiacciati dal clima competitivo che si insinua ovunque; lo sanno gli anziani scartati e messi nei cronicari dopo una vita di lavoro (è incredibile: si allunga l’esistenza ma si approfondisce l’abbandono!); lo sanno popoli interi esclusi dallo sviluppo e sempre dipendenti. La lista potrebbe continuare ancora, basti pensare all’incalcolabile numero di poveri e di disperati che riempiono le strade del Nord e del Sud del mondo.

La globalizzazione, senza una forte visione solidaristica della vita, ha acuito ancor più il senso di solitudine e di spaesamento dell’uomo contemporaneo di fronte ad un mondo che appare troppo grande. Ci troviamo di fronte ad un incredibile paradosso: siamo nello stesso tempo più vicini gli uni agli altri, ma tutti ugualmente più soli, più insicuri, più preoccupati, più ansiosi per i pericoli che l’oggi o il domani può riservare.

Ripartire dall’amore

In un mondo segnato così profondamente dalla paura e dalla solitudine, e lacerato da conflitti bellici o di civiltà, l’amore resta l’unica via per immaginare un nuovo futuro. Si potrebbe dire: è il tempo dell’ “agàpe”, il tempo dell’amore per gli altri e non solo per se stessi. Appunto, un amore “agapico”. Agàpe, una parola greca, fu scelta dagli autori del Nuovo Testamento per descrivere l’amore di Gesù. In quel tempo non era quasi per nulla usata poiché la cultura greca per dire l’amore preferiva i termini eros e philia. Gli autori sacri con il termine agape introducevano una nuova e impensata concezione dell’amore: un amore che non si nutre della mancanza dell’altro (eros) e che nemmeno semplicemente si rallegra della presenza dell’altro (philia), ma un amore, appena concepibile dalla ragione umana, che trova il suo modello culminante in Gesù: un amore per gli altri totalmente disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire – ed è il meno che si possa dire – al di fuori d’ogni reciprocità. E’ davvero un amore fuori regola, fuori norma. L’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani afferma: “A stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore per noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”(Rm 5, 7-8).

Con il termine agàpe si esprime quindi un amore impensabile per la ragione se Dio stesso non lo avesse rivelato. L’agàpe è infatti l’essere stesso di Dio. Quindi è l’essere stesso Dio a spingerlo ad uscire da sé per scendere in mezzo agli uomini. L’incarnazione è un mistero centrale nella fede cristiana. Essa si differenzia da tutte le altre fedi perché, più che una religione che divinizza l’uomo, è la religione di un Dio che per amore si fa uomo. Non solo, quest’uomo accetta anche di essere crocifisso, e per amore. Nella “croce” appare il culmine dell’amore con la sua vittoria definitiva sull’egoismo. Semiòn Frank, un filoso russo, scrive: “L’idea di un Dio disceso nel mondo, che soffre volontariamente e prende parte alle sofferenze umane e cosmiche, l’idea di un Dio-uomo che soffre, è la sola teodicea possibile, la sola ‘giustificazione’ convincente di Dio”. Qui vi è tutta l’originalità dell’agàpe, tutta la sua paradossalità, e soprattutto la sua forza irresistibile: l’agàpe è la risorsa più forte per edificare un mondo nuovo liberato dalla legge inesorabile dell’amore per sé.

Sono significative a tale proposito le parole che don Andrea Santoro, prete italiano – mio compagno di studi e di sacerdozio – ucciso a Trebisonda, in Turchia, scrisse nella sua ultima lettera (scritta il 22 gennaio 2006) pochi giorni prima che venisse ucciso. Ragionando sulla fede islamica e sui tratti di violenza che talora mostra, don Andrea rivendicava il “vantaggio” della fede cristiana: “Il vantaggio di noi cristiani nel credere in un Dio inerme, in un Cristo che invita ad amare i nemici, a servire per essere “signori” della casa, a farsi ultimo per risultare il primo, in un vangelo che proibisce l’odio, l’ira, il giudizio, il dominio, in un Dio che si fa agnello e si lascia colpire per uccidere in sé l’orgoglio e l’odio, in un Dio che attira con l’amore e non domina con il potere, è un vantaggio da non perdere. È un “vantaggio” che può sembrare “svantaggioso” e perdente e lo è, agli occhi del mondo, ma è vittorioso agli occhi di Dio e capace di conquistare il cuore del mondo. Diceva san Giovanni Crisostomo: Cristo pasce agnelli, non lupi. Se ci faremo agnelli vinceremo, se diventeremo lupi perderemo. Non è facile, come non è facile la croce di Cristo sempre tentata dal fascino della spada… Ci sarà chi voglia essere presente in questo mondo mediorientale semplicemente come “cristiano”, “sale” nella minestra, “lievito nella pasta, “luce” nella stanza, “finestra” tra muri innalzati, “ponte” tra rive opposte, “offerta” di riconciliazione?” Don Andrea ci richiama alla realtà dell’amore evangelico che è per sua natura eroico. L’eroicità è connaturale a questo amore. Se la si attenua, se si sbiadisce l’ “eccesso di amore”, si intacca lo stesso Vangelo.

Ecco perché l’agàpe è superiore a tutte le virtù. Non c’è nulla al disopra: né la profezia della tradizione ebraico-cristiana; né l’ineffabile lingua degli angeli; e nemmeno la speranza; e neppure la conoscenza, la quale in questo mondo è così misera sì che conosciamo Dio solo confusamente, come attraverso uno specchio, dentro “enigmi”, come afferma l’apostolo Paolo. Il bellissimo “canto all’agàpe” della prima Lettera ai Corinzi è tra le pagine più alte della letteratura cristiana. L’agàpe – canta l’apostolo – è superiore persino alla fede. Se nel Vangelo di Matteo, Gesù dice: “Se avrete fede quanto un granellino di senape potrete dire a questo monte spostati da qui a lì, ed esso si sposterà. Niente vi sarà impossibile” (Mt 17,20), l’apostolo Paolo, con un incredibile capovolgimento, afferma: “Se avessi tutta la fede tanto da poter trasportare i monti, ma non avessi l’amore, non sarei nulla” (1Cor 13, 1).

L’agàpe e gli amori umani eros e philia

L’agàpe, culmine dell’amore, non elimina l’eros e la philia, non le accantona, se così posso dire, semmai le purifica dalle ambiguità e le esalta per una loro dinamica positiva. Nella cultura greca, eros era concepito come un dio senza volto, una sorta di divinità originaria, un principio di vita potente che strappa dalla vita quotidiana producendo una discontinuità inimmaginata nella vita di chi ne viene coinvolto. La discontinuità si presenta improvvisa, non è né progettata, né voluta, e spinge con prepotenza l’amante ad annullarsi nell’amato, sia nella prospettiva esaltante della luce che nell’altra, anch’essa ugualmente esaltante, della morte. In ogni caso, al di là degli esiti, eros è una energia originaria che strappa via dalla casa abituale, dalla vita ordinaria. Non a caso Platone, nel Simposio, lo definisce a-oikos, senza casa. Il grande pericolo che eros fa correre è perciò quello di essere strappati via da ogni sede, da ogni dimora, da ogni casa, senza un approdo che sia stabile. Da un punto di vista non teologico cristiano, eros è pura avventura, come lo rappresentano le grandi figure, i grandi miti della contemporaneità: l’Ulisse dantesco, il Faust, il Don Giovanni, sono tutte figure che mollano gli ormeggi, perché che nessuna casa può contenerli. Ma eros da solo, senza un orizzonte, non basta. In sintesi, potremmo dire, che tutti abbiamo pulsioni d’amore, tutti sentiamo spinte ad amare o sentimenti d’amore che ci muovono, ma – è papa Ratzinger a scriverlo nella enciclica Deus caritas est – “i sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell’amore”.

La philia – che traduciamo normalmente con “amicizia” –esprime un’altra dimensione ancora dell’amore. Ordinariamente viene pensata come una forma attenuata dell’amore, un sentimento più debole, meno impegnativo, meno esigente, casto per di più, segno di una innegabile limitatezza! Molto meno cantata dell’amore, la philia è tuttavia non meno protagonista nella vicenda umana. Un bell’esempio di philia lo rileviamo nella triplice domanda d’amore di Gesù a Pietro dopo la risurrezione, quando lo interroga sull’amore. Gesù chiede al discepolo: “mi ami?” (phileis me?). Qui non è l’eros che parla, ma un sentimento che chiede una compartecipazione stretta, duratura, perenne. E’ come se gli chiedesse: “sei veramente mio, mi appartieni, ci co-apparteniamo?” Nella philia i due – e questa è la differenza fondamentale con eros – rimangono tali, non vi è una dinamica identitaria, non si risolvono in uno. I philoi sono inseparabili, ma tale appartenenza non impedisce loro di sussistere come tali nella propria identità. Anzi, sussistono perché “stanno bene insieme”. Semmai, il rischio in tale dinamica è l’appagamento nella coappartenenza, una sorta di piacevole ma rischiosa chiusura.

Ed ecco l’agàpe che supera ambedue, senza tuttavia escluderle. In effetti, con la parola agàpe si entra nella logica di stampo trinitario ove non c’è l’annullamento nell’altro e neppure la coappartenenza. C’è di più: la generazione di un altro nel circolo dell’amore. La raffigurazione emblematica dell’agàpe è l’icona della Trinità di Rublev, con i tre angeli attorno alla mensa. Agàpe è la relazione Padre-Figlio, così come Gesù la testimonia, che implica come terzo elemento quella relatio non adventitia di cui parla Agostino. La relazione tra le prime due persone, infatti, distinte e tuttavia filoi nel modo più profondo ed essenziale, obbliga a pensare la Relazione stessa come una terza figura. L’agàpe comporta una trascendenza tra i due che è appunto la “Relazione” stessa nella sua eternità, nella sua necessità. L’agape è interna a questa dialettica dei due e insieme li trascende entrambi. Amante e amato si trascendono in un terzo: che è la loro “relazione”. Questa è agape nel linguaggio neotestamentario e nella teologia cristiana. Il suo nome è Spirito Santo e la sua azione è sconvolgente.

Un monaco medioevale, Riccardo, in un piccolo trattato sull’amore, scrive: “La carità ferisce, la carità lega, la carità rende languidi, la carità fa venir meno… Grande, meravigliosa è la potenza della carità. In essa vi sono molti gradi e tra questi stessi grandi differenze. E chi è in grado di distinguerli in modo conveniente o anche solo enumerarli? E certamente nella carità vi sono sentimenti di umanità, di amicizia, di parentela, di consanguineità, di fraternità e similmente molti altri, ma sopra a tutti questi gradi di benevolenza c’è quell’amore ardente e impetuoso che penetra nel cuore e infiamma il sentimento e trapassa la stessa anima fino alle midolla al punto che possa dire in modo veritiero: ‘Sono stata ferita dalla carità’ (Ct 4,9)” (I quattro gradi della violenta carità).

L’agàpe e la kenosi

L’agàpe, come prima ho accennato, spinge a dare la propria vita per gli altri, senza porsi alcun limite, neppure quello della morte. E questo a partire da Dio stesso con la sua kenosi, l’abbassamento, lo svuotamento. Dio non si limita a scendere tra gli uomini, si è fatto uomo, anzi schiavo sino a morire sulla croce e a scendere negli inferi di questo mondo perché nessuno, a partire da Adamo ed Eva, come mostrano le icone d’Oriente, resti nelle spire della morte. Il poeta Davide Maria Turoldo amava ripetere che la storia di Dio è tutta in discesa: giunto tra gli uomini si dirige verso coloro che sono colpiti, verso quelli che stanno negli abissi della storia, nel fondo del Mediterraneo, negli inferni delle guerre e delle ingiustizie. Dio è là. Non per semplice compassione, ma per identificazione. L’agàpe porta Dio ad identificarsi con i poveri e gli esclusi, come appare nella pagina di Matteo 25 a proposito del giudizio finale.

Tutti gli uomini, credenti e non, si presentano davanti al trono di Dio. In quel momento solenne e definitivo conta solo l’amore. La fede, tutte le fedi e le diverse appartenenze, sembrano passare in secondo piano. Quel che conta è aver compiuto un gesto d’amore verso un povero, un malato, un carcerato, un immigrato. E chi l’ha fatto si sentirà dire: “quello che hai fatto ad uno di questi miei fratelli più piccoli l’hai fatto a me”. E alla sua insistenza che non ne sapeva nulla si sentirà ribadire che quel piccolo gesto vale un’eternità. Insomma, alla fine della storia, quando tutto avrà termine, non ci sarà più nessuna virtù umana, neppure la giustizia. Resterà solo l’amore. Non è una sorta di mania divina, il “privilegium pauperum”. Come sappiamo il titolo di “vicarius Christi”, prima che fosse attribuito al Papa era attribuito ai poveri. Essi erano anzitutto i rappresentanti di Gesù sulla terra. Ed è dall’attenzione ai poveri, agli esclusi della terra, che si caratterizza la fede cristiana. E, a mio avviso, non solo. Le società contemporanee potranno guardare verso un nuovo umanesimo nella misura in cui comprenderanno che il tessuto dell’umanità può essere riparato se si prende in considerazione proprio questa enorme massa di esclusi dal tavolo della vita.

Ovviamente, l’attenzione ai poveri, non cancella l’impegno per la giustizia. Ma l’amore è indispensabile e ineliminabile anche nell’orizzonte della giustizia. Alcuni – erroneamente – hanno ritenuto che la carità sia stata persino pericolosa perché avrebbe evitato la lotta alle ingiustizie, soprattutto quelle strutturali. In verità, le due dimensioni della giustizia e della carità vanno tenute assieme e mai l’una può fare a meno dell’altra. Ma la carità rende umana la giustizia. Pietro Citati, ricordando i disastri compiuti in nome di una giustizia che non conosce l’amore, annota: “La giustizia non basta mai: non conosce gli individui; non cerca di esplorare l’ombra. Perfino nel più perfetto stato del mondo, resteranno sempre gli infelici, gli offesi, gli esclusi e, soprattutto, coloro che non sopportano la vita ed il tempo, perché non sono adatti alla vita e al tempo. Solo chi coltiva la caritas può fare qualcosa per loro. Egli ha occhi acutissimi per ogni individuo; ne conosce i sentimenti, ne condivide le sensazioni, ne ascolta le vibrazioni, e cerca di penetrare nella loro ombra. Come diceva Dostoevskji, chi conosce la caritas si spinge negli estremi territori della pietà e della compassione: disposto a perdersi, pur di salvare una sola scintilla umana dalla rovina”. Farsi prossimo agli uomini mezzi morti del mondo contemporaneo significa scardinare quella egolatria che sta portando all’imbarbarimento della vita dei singoli e delle società.

L’agàpe e la rivoluzione individualista

C’è una nuova frontiera con cui l’agàpe deve confrontarsi. E’ quella che Gilles Lipovetsky, filosofo francese contemporaneo, chiama la “seconda rivoluzione individualista”. Essa è contraddistinta dal culto dell’edonismo e della psicologia, dalla privatizzazione della vita e dall’acquisizione di autonomia da parte dei soggetti nei confronti delle istituzioni collettive. Todorov gli fa eco rilevando l’affermarsi di una «tirannia degli individui»(I nemici intimi della democrazia, 2012), che sta guadagnando sempre più spazio. Il sacrosanto processo di valorizzazione del soggetto – che ha aiutato il Novecento a liberarsi dai collettivismi ideologici, come mostra bene Adorno, per fare un solo esempio –, privato della sensibilità verso l’altro, sta portando verso una seconda “individualizzazione”. E’ a dire che non si irrobustisce solo quella congenita attenzione a se stessi, propria della natura umana, ma che l’intera società e le sue istituzioni sono piegate all’ “io”, all’individuo, al proprio particolare. L’ “io” è l’unico assiso sul trono più alto a cui tutti debbono rendere omaggio. E’ per questo che l’individuo è condotto a guadagnare sempre più spazio. Intorno a questa esigenza di realizzazione personale, molto mediatizzata, si sono moltiplicate le tecniche, si sono mobilitati gli esperti, sono proliferati i mercanti. La stessa psicoterapia, più che un metodo, è diventata una concezione del mondo. Si è così costituito un immenso ed eterogeneo mercato dell’equilibrio interiore, che ha mobilitato numerosi corpi professionali e utilizzato le più svariate forme di terapia o di presa in carica.

La prima vittima di questa “egolatria”, di questa adorazione dell’io, è la famiglia. Essa, in effetti, si trova a essere il primo ostacolo a un individualismo senza freni, ad un “io” assoluto, ab-solutus, ossia sciolto da qualsiasi altro legame. La famiglia, piegata al primato del sentimento e del desiderio del singolo, è mal compresa e quindi soggetta alla destrutturazione. L’ “io” piega gli altri componenti della famiglia a se stesso, ai suoi umori, ai suoi sentimenti. Ovviamente questo non significa non riconoscere i problemi e le difficoltà che possono sopraggiungere. Ma oggi vi è un problema paradossale. Da una parte la famiglia è al culmine dei desideri di tutti, dall’altra viene calpestata senza ritegno.

La vertigine dell’individualismo sta portando verso un crollo generalizzato non solo della prospettiva familiare ma della stessa socialità, come nota lo stesso Zigmund Bauman: «Non lo stare insieme, ma l’evitarsi e lo star separati sono diventate le principali strategie per sopravvivere nelle megalopoli contemporanee…». È la crisi di tante forme comunitarie, dagli storici partiti di massa, alla città, alla famiglia stessa intesa come dimensione dell’esistenza.

Un “nuovo inizio”

C’è bisogno di un nuovo inizio, di un nuovo sogno. L’uomo contemporaneo, ormai padrone dei meccanismi che lo costituiscono, crede di possedere tutti gli strumenti per plasmare da sé la propria “natura” e riformulare il quadro di riferimento simbolico della propria “cultura”. Si tratta di un carico pesantissimo che tutti facciamo fatica a portare e sopportare. Infatti, se è vero che siamo tutti più liberi, dobbiamo però constatare che siamo anche tutti più soli, più curvi su noi stessi, privi della speranza di un nuovo futuro. Posti di fronte alla necessità di un autoriferimento interiorizzato, ci troviamo costretti a dover scegliere, a decidere, a volere e a reinventare noi stessi e il nostro futuro, senza però avere visioni ampie ed energie morali e spirituali adeguate. L’apertura al grande mondo che doveva esaltare l’uomo contemporaneo, lo trova invece spaesato e indebolito. Nonostante si cerchino anestetici, l’uomo-individuo si scopre vuoto e sente che il vuoto pesa. Senza il sostegno di una cultura, è un peso insostenibile. Questo spiega, tra l’altro, perché la depressione è diventata il disturbo funzionale più diffuso della postmodernità. C’è bisogno di aiutarci a non finire rinchiusi nel proprio io e ad alzare lo sguardo per riprendere a sognare un mondo nuovo. È in questo orizzonte che l’agàpe – ossia quell’amore che porta a pensare agli altri prima che a se stessi – deve essere vissuta e testimoniata e magari colorata anche di eros e di philia. E’ in questo orizzonte che anche il cristianesimo deve riposizionarsi. Papa Francesco ci sta davanti.

E’ urgente delineare una nuova sintesi antropologica in cui libertà, relazione con gli altri e responsabilità concorrano a ridefinire la verità dell’“io”, mostrando la perversità dell’affermazione di un “io” senza il “tu”. L’uomo contemporaneo va aiutato a riconoscere che la forma buona della propria esistenza o, se si vuole, la vera realizzazione dell’io, sta nell’attuazione responsabile di un tessuto di relazioni che aspirano all’amore. È questa la via più efficace e preziosa per ridare un’anima all’attuale condizione dell’uomo globalizzato. Il processo della globalizzazione, se lasciato in balia della hybris dell’individuo, porta inesorabilmente a una società sempre più frammentata e violenta. Al contrario, l’amore per gli altri, quell’agàpe, di cui i cristiani sono amministratori ma non esclusivi, possono offrire un’anima ad una globalizzazione spesso soggiogata dalla logica del mercato e di una competizione selvaggia. Solo l’amore, nella sua variegata potenzialità, potrà disegnare un futuro di giustizia e di pace per tutti i popoli della terra.