Messa a Sant’Ignazio per il Convegno di Teologia morale

Oggi la Chiesa fa memoria dell’apostolo Mattia, che significa “dono del Signore”, eletto subito dopo l’ascensione di Gesù al cielo per ricomporre il gruppo dei Dodici. Per Luca, i Dodici hanno un posto particolare sia all’inizio del suo Vangelo con Gesù che li costituisce dopo aver passato la notte in preghiera (capitolo 6, 12-16) e all’inizio degli Atti nel brano che abbiamo ascoltato. Si doveva ricostituire il gruppo dei Dodici dopo la ferita provocata dal tradimento di Giuda. Era il simbolo dell’unità e dell’integrità del popolo di Dio (le dodici tribù di Israele). C’era, insomma, un’ansia di completezza della Chiesa così come Gesù l’aveva voluta, proprio mentre si accingeva a fare i primi passi. Andava colmato il vuoto lasciato da Giuda. Non era una questione organizzativa, non mancava una casella nella organizzazione della Chiesa, non c’era da fare la riforma. Il problema toccava il cuore stesso della Chiesa e della sua missione: l’intero popolo di Dio doveva comunicare il Vangelo ai popoli della terra.

Il criterio della scelta prevedeva che l’eletto avesse vissuto con Gesù per tutto il tempo dal battesimo sino alla risurrezione. Insomma, scrive Luca, un “testimone”. Nel linguaggio lucano questo termine è usato molte volte negli Atti (39 volte) e nel significato coincide il termine “apostolo”. L’apostolo, per Luca, non solo deve aver vissuto con Gesù, ma deve anche averlo compreso perché ne sia testimone. Il testimone ha un duplice legame, quello con il Signore e quello con coloro ai quali ci si rivolge. Mattia viene scelto, perché è stato con il Signore, ma deve ricevere lo Spirito perché la sua testimonianza sia efficace per coloro che lo ascolteranno. E’ bella questa parte del prefazio della liturgia ambrosiana per la festa di oggi: «Perché il numero degli apostoli fosse compiuto, rivolgesti un singolare sguardo d’amore su Mattia, iniziato alla sequela e ai misteri del tuo Cristo. La sua voce si aggiunse a quella degli altri undici testimoni del Signore e recò al mondo l’annunzio che Gesù di Nazaret era veramente risorto e agli uomini si era dischiuso il Regno dei cieli».

Care sorelle e cari fratelli, in Mattia – che appare solo in questo passaggio degli Atti – possiamo scorgere il nome dei discepoli di ogni tempo, anche il nostro nome. C’è bisogno nella Chiesa di ognuno di noi, ma non in vista di una testimonianza individuale, slegata dal resto del corpo della Chiesa. Il Vangelo è dato ai Dodici perché sia comunicato da tutti a tutti i popoli della terra. Questa tensione universale – che la Chiesa cattolica ha sentito in maniera straordinaria nel Concilio Vaticano II – va riscoperta con maggiore audacia e creatività in questo mondo globalizzato che purtroppo è preda di un nuovo e più insidioso individualismo che ha contagiato anche i cristiani sino a indebolirne colpevolmente la testimonianza. Potremmo dire che c’è ancora un vuoto nella Chiesa, che manca ancora Mattia nella compagine ecclesiale. E questo vuoto di testimonianza rende complici anche i cristiani delle guerre, delle ingiustizie, delle lacerazioni che stanno distruggendo la convivenza umana.

Questa festa di Mattia ci interroga sulla urgenza di una nuova creatività apostolica, di un nuovo slancio missionario, compresa una nuova responsabilità dei teologi. Mattia non è solo una persona. Oggi Mattia è il compito della Chiesa, di tutti i credenti, noi compresi, di una testimonianza più efficace, che fermenti il mondo evangelicamente, che aiuti i popoli a dirigersi verso un mondo di pace, di giustizia e di amore. La divisione tra le Chiesa è congeniale alla divisione tra i popoli. E la guerra in Ucraina, ma non solo, ne è una tragica conferma. Sono più che attuali le parole che il patriarca Atenagora – il patriarca dell’abbraccio con Paolo VI a Gerusalemme e poi a Roma – diceva agli albori della globalizzazione. Egli con lungimiranza denunciava il rischio di una globalizzazione che avveniva con le Chiese ancora divise. E ripeteva: “Chiese sorelle, popoli fratelli”. Se oggi i popoli non sono fratelli, non lo si deve anche alla mancata unità tra le chiese?

Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci porta nell’intimità dell’ultima cena, di Gesù con i Dodici. Gesù guarda il futuro della Chiesa. E non ha altro che quei Dodici. Non solo non dispera, anzi confida in loro. E affida loro la sua stessa missione esortandoli però a rimanere nel suo amore, quello che lui ha per il Padre. E’ questo l’amore che dona loro affidandolo alla loro testimonianza. E’ questo amore, l’agape che unisce il Padre e il Figlio, che deve unire i discepoli tra loro. Li chiama amici, non servi. E spiega: “Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. E’ di questo amore – non di un altro – che il mondo ha bisogno, oggi in maniera particolare. Sono i poveri, gli sconfitti, i profughi, gli anziani abbandonati che lo invocano. Oggi possiamo chiederci se Mattia, se il “dodicesimo apostolo”, non dobbiamo essere anche noi e tanti altri uomini e donne credenti che scelgono, che scegliamo, di spendere con maggiore generosità la nostra vita per il bene di tutte e di tutti, per l’unità tra i popoli, per l’avvento della desideratissima pace. E’ la Chiesa apostolica che deve muovere i suoi passi all’inizio di questo terzo millennio. Chiediamo al Signore che lo Spirito scenda su di noi, come scese su Mattia, perché possiamo trasmettere al mondo l’amore con cui siamo stati amati dal Signore perché il mondo trovi la via della pace.