Intervista di Vatican Insider

di Domenico Agasso jr

«Per le famiglie problematiche c’è bisogno di un’accoglienza larga, generosa, piena da parte di quelle sane. Un tema che “scalda” molto è quello dei divorziati risposati: va guardato con gli occhi della misericordia». A un  anno dall’elezione del primo papa latinoamericano e gesuita che ha scelto il nome del Santo “poverello” di Assisi, e pochi giorni dopo la Lettera di Francesco alle famiglie di tutto il mondo, Vatican Insider ha intervistato monsignor Vincenzo Paglia,  presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia.

Eccellenza, quali passaggi sottolinea della Lettera alle Famiglie scritta dal Pontefice in occasione del Sinodo dei Vescovi?

«Due prospettive. Una è quella del Papa che subito dopo avere celebrato il primo Concistoro sulla famiglia ha sentito il bisogno di rivolgersi alle famiglie direttamente, per suggerire e rafforzare la consapevolezza che non sono un oggetto di attenzione: esse stesse devono diventare il soggetto di una nuova primavera nella Chiesa e nel mondo. C’è bisogno di uno “scatto”, di una ripresa di tensione per testimoniare visivamente quel bisogno di famiglia che tutti sentiamo. La Lettera è stata distribuita particolarmente bene: abbiamo preparato una traduzione in sette lingue diffusa ovunque. Ed è bello che alcune diocesi l’abbiano chiesta per poterla offrire in Quaresima alle famiglie. La seconda prospettiva è rivolta soprattutto alle famiglie cristiane: sentire questo cammino sinodale comune attraverso la preghiera. È l’immagine di un popolo raccolto in preghiera – e quando dico popolo intendo, come il Papa sottolinea spesso, vescovi, preti e gente comune – perché la preghiera è il primo modo per comprendere fino in fondo il pensiero di Dio. Ed è il modo nel quale tutti, sani e malati, famiglie che stanno bene e male, possono sentirsi uniti, perché nessuno è escluso dalla preghiera. E il Papa ha voluto chiudere la Lettera con l’icona della presentazione di Gesù Bambino al tempio, affinché tutti possiamo comprendere che la famiglia è composta da nonni, genitori, figli e nipoti, appunto come avvenuto quel giorno al tempio quando i due giovani genitori presentarono il Bambino e ad accoglierlo c’erano i due anziani Simeone e Anna».

Quanto è stato incisivo il Pontefice in questo suo primo anno di pontificato per la famiglia?

«Credo che il primo “servizio” che il Papa ha reso alla Chiesa e al mondo è stato quello di presentarsi e di farsi comprendere come un padre, e questo fino da quel primo “Buonasera” dalla loggia di San Pietro. In una società come la nostra orfana di sogni e figure di riferimento di alta attrazione, in una Chiesa talora anonima e individualista, il Pontefice si presenta come un padre evangelico, un padre buono. Ha ridato uno spirito di familiarità alla Chiesa, ai popoli, affinché si comprendano di più come fratelli – pensiamo alla preghiera per evitare l’aggravarsi del conflitto in Siria – e questo rende ragione di quella misericordia che il Papa predica e pratica nei confronti delle famiglie anche più problematiche. Queste ultime lo sentono davvero vicino, sanno che hanno trovato uno in cui confidare».

Perché è importante rafforzare e aiutare le famiglie?

«In una società che esalta in maniera esponenziale l’individualismo, che è confacente a una cultura del mercato (tanto che l’amico sociologo De Rita parla di “egolatria”, culto dell’io, e alcuni filosofi francesi parlano di una “seconda rivoluzione individualista”), la famiglia è la prima pietra d’inciampo che impedisce la dittatura dell’individuo. In questo senso va sostenuta perché è la prima realizzazione del “noi”. Diceva cicerone: la famiglia è l’inizio, il seme della città, della scuola, della cittadinanza. In questo senso aiutare la famiglia non vuol dire solo aiutare le singole famiglie, significa dare respiro alla società come anche alla Chiesa. Ovviamente il rischio che noi stiamo correndo adesso è che l’individualismo pieghi a se stesso anche la famiglia, cioè che renda la famiglia a servizio dell’”io”, e non del bene comune. In questo senso non basta dire “va aiutata la famiglia”, bensì va aiutato il “noi”, per cui dal sostegno del “noi” dobbiamo arrivare al sostegno della famiglia dei popoli».

Quali sono le urgenze?

«Mi collego alla precedente risposta: è scritto “Non è bene che l’uomo sia solo”. Purtroppo oggi si sta affermando una cultura opposta: “È bene che ciascuno pensi a se stesso”. Quindi c’è un’urgenza culturale. È importante che si aiutino le persone a capire che l’amore per gli altri viene prima dell’amore per sé, a comprendere che la felicità non è soddisfare se stessi ma costruire un futuro comune, che la pace non è salvaguardare solamente i propri diritti ma sostenere i diritti di tutti. Assieme a questa enorme opera culturale, è necessario anche un impegno a ridare vigore alla spiritualità. Per spiritualità intendo dire la dimensione profonda verso l’”oltre”, l’”altro”, e, per chi crede, verso Dio. È uno “scatto spirituale” da fare. Non basta solo la ragione, c’è bisogno anche dello spirito».

Chi in particolare ha il dovere di sostenere le famiglie?

«Credo che Francesco dia un esempio a tutti, in particolare alle grandi istituzioni: appena diventato Papa ha chiesto a tutta la Chiesa – vescovi e fedeli – di porre al centro della loro attenzione la famiglia, tanto da predisporre due Sinodi, oltre al Concistoro. Questo vuole dire che tutte le istituzioni pubbliche – politica, economia, diritto, cultura, società – devono riporre al centro delle loro attenzioni e preoccupazioni la famiglia. La politica deve affrontare il futuro della società partendo dalla famiglia. Ma anche l’economia: se non mette al centro la famiglia percorre sentieri disastrosi pure per se stessa. Non dimentichiamo il primo seminario che come presidente ho realizzato: “La famiglia, prima impresa”. Se ci si ferma solo a se stessi, non si risparmia per l’oltre se stessi, si brucia tutto subito. Diceva un antico proverbio arabo: “Il contadino quando getta il seme della palma, sa bene che i suoi frutti li mangerà suo figlio e suo nipote. Se non avesse questo pensiero non ci sarebbero palme”. E questa è una grande sfida. Del resto, questi momenti di crisi che stiamo vivendo mostrano che se non ci fossero le famiglie tradizionali saremmo già nel disastro. Lo sanno bene i giovani senza lavoro, i bambini, i malati, gli anziani, e anche quelli che divorziano: se non hanno dietro le spalle una casa che li accoglie, quella dei genitori, li vediamo alle mense per i poveri».

Che cosa si aspetta dai due Sinodi in programma nel 2014 e 2015?

«Mi auguro che davvero si mettano sul tavolo tutte le istanze e tutte le angosce. Vorrei che fossero mostrate e sollevate le speranza delle famiglie, quelle di un futuro più sereno che le vede protagoniste nelle Chiese del mondo, quello in cui le donne non devono subire umiliazioni. Ma tutto questo sarà possibile se il Sinodo susciterà una “marea di misericordia”: perché nessuno, in qualsiasi situazione si trovi, venga abbandonato. Mi permetto di enumerare alcune delle angosce, perché c’è anche una gerarchia delle angosce. Innanzitutto mi auguro che le famiglie povere possano essere al centro dei pensieri, aiuto e solidarietà dei Paesi ricchi. La seconda è uno scatto di cultura per aiutare gli anziani, perché non avvenga che una società che fa il miracolo di allungare la vita approfondisca la solitudine. La terza è quella dei malati che sono senza affetto e compagnia. La quarta: le famiglie problematiche: c’è bisogno di un’accoglienza larga, generosa, piena da parte delle famiglie sane. Un tema che “scalda” molto è anche quello dei divorziati risposati: questo argomento, come il Papa chiede, va guardato con gli occhi della misericordia, la quale non è cieca, non si contrappone alla verità; la misericordia è la “suprema lex”»