Un mese dalla morte di don Andrea Santoro

Un mese dalla morte di don Andrea Santoro

 


Un mese veniva ucciso a Trebisonda, in Turchia, don Andrea Santoro, mio compagno di classe sin dalle scuole medie, amico nell’impegno pastorale verso i poveri, i bisognosi e gli emarginati. Era un uomo appassionato, degli uomini e di Dio, un uomo che voleva che la testimonianza evangelica fosse verace e che incidesse sempre più nel cuore della gente. Ricordo la passione che avevamo nel comunicare il vangelo in una Roma travagliata da problemi enormi. Entrambi lavoravamo in parrocchie di periferia, nelle borgate, e ci scambiavamo spesso le nostre esperienze, coscienti che la Chiesa di oggi deve mostrare il volto umano di Dio o rischia di non trasmettere quell’amore che pure la sostiene. Oggi non posso non ricordarlo come un fervente cristiano, animato dall’ansia della missione, che ha dato la vita per il Vangelo e per rendere questo nostro mondo meno disumano. Il suo martirio, la sua testimonianza di amore sino alla effusione del sangue, resta per tutti un esempio di come seguire il Vangelo, di come vivere l’amore, di come spendere l’esistenza. Abbiamo bisogno di testimoni come questi, come lo fu Francesco d’Assisi, come lo è stato mons. Romero e come lo sono tanti preti e laici che spendono la loro vita per amore. Abbiamo bisogno di questi testimoni perché l’amore, non è scontato; soprattutto l’amore come quello di Gesù. L’amore cristiano non nasce per carattere o per abitudine, si riceve dall’alto, si domanda in ginocchio e per viverlo richiede impegno, lotta, sacrificio, esercizio, fedeltà, creatività, forza. Mi ha colpito una frase che don Andrea ha scritto poco tempo fa mentre attorno a lui cresceva un clima di violenza che voleva attizzare anche i cristiani: “Noi siamo uomini della croce, non della spada”. Uomini così rendono il mondo meno crudele facendo capire che l’amore è più forte della morte, perché davvero non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici. E tutti quelli che vivono in Turchia – musulmani, ortodossi ed ebrei –  erano suoi amici. Don Andrea ripeteva che l’unica via che abbiamo è quella dell’audacia dell’incontro, del dialogo fermo e sereno, da percorrere fino in fondo, anche a costo della vita.


Un dialogo minacciato però dalla violenza, da attacchi assurdi, dalla difesa del proprio recinto. Ma la libertà non è un randello che va usato come a ciascuno pare.  E’ un impegno a promuovere in questo mondo la convivenza, che è difficile, perché non è naturale, non è spontanea. Spesso, poi, si prende a pretesto la religione per battaglie  che religiose non sono.


La libertà oggi vuole dire dialogare fra diversità cercando di comprendersi per il rispetto reciproco, per una stabilità della convivenza, per un progresso soprattutto della comprensione. In Turchia don Andrea aveva cercato di mostrare quell’attitudine al dialogo che è cercare di cogliere le motivazioni interiori dell’altro e testimoniare come sia possibile una coesistenza in cui la fede insegna a promuovere la dignità umana. In Turchia don Andrea testimoniava il cristianesimo, parlava dell’amore di Dio e della solidarietà. Parlava di quel Vangelo che non conosce frontiere, ed è la sola testimonianza che potrà salvare il mondo dalla barbarie.


 


(da La Voce)