La riconciliazione oggi

Seminario delal fondazione

E’ ancora viva davanti ai nostri occhi l’immagine dei diversi leaders religiosi radunatisi il 24 gennaio scorso qui ad Assisi, accanto alla tomba di San Francesco, divenuto ormai il testimone universale più autorevole dell’incontro tra i credenti, una sorta di nuovo titolo dell’assisiate. Giovanni Paolo II, scegliendo ancora una volta Assisi per tali eventi, ha posto anche la città di Francesco come un luogo significativo per l’umanità intera. Si potrebbe pensare Assisi come l’opposto della tragedia delle due torri abbattute 1’11 settembre. Questo nostro stesso incontro odierno si colloca su questa scia che viene ormai indicata come lo “spirito di Assisi”.

C’è però un aspetto tra i tanti che vorrei sottolineare, ed è l’incontro attorno allo stesso tavolo di laici e di credenti. Questo aspetto mancava il 24 gennaio. Ed è anche questo un momento urgente. Posso testimoniarne l’utilità anche a partire dall’esperienza, certamente parziale ma significativa, degli incontri promossi, anno dopo anno, dalla Comunità di Sant’Egidio a seguito del primo raduno interreligioso di Assisi del 1986.

Nel corso delle diverse manifestazioni ci rendemmo conto che era necessario un dialogo non solo tra i rappresentanti delle religioni ma anche tra quest’ultimi e uomini e donne del mondo laico. Ci trovavamo, in ogni caso, all’interno di quell’ispirazione, semplice e profonda, indicata da Giovanni XXIII: cercare anzitutto quel che unisce e mettere da parte quel che divide. Questo atteggiamento, ancor prima che una questione di contenuti, significava anzitutto uno stile di vita, un metodo di rapportarsi che, senza sopprimere le differenze, faceva però evitare lo scontro. La discordia non significava inimicizia; la differenza non equivaleva a disastro; e l’altro non era il nemico da sconfiggere e abbattere. Al contrario. il dialogo ha significato un’opportunità per accomunare laici e credenti nella comune battaglia per la pace, per la giustizia, per la difesa dell’uomo e la costruzione di un mondo nuovo. Chi ha seguito l’itinerario di questi incontri ha potuto constatare che si sono toccate corde profonde, direi spirituali, e non si sono fermati nelle secche di una politica di corto respiro. Fin dall’inizio, infatti, è parso necessario andare al fondo delle nostre ragioni e del nostro impegno.
Non è questa la sede per ripercorrerne l’itinerario. Potrei parlare di Norberto Bobbio, il quale non solo ha superato la vecchia controversia che opponeva la religione allo stato, per giungere a sostenere la necessità della “religione” per la stessa democrazia: “A meno che non esista un’altra forza capace di toccare le motivazioni interiori all’azione, bisogna accettare l’idea della necessità della religione”. E coglieva nella dimensione del mistero il punto di congiunzione tra fede laica e fede religiosa: “Se fede laica vuol dire fede nell’uomo, mi domando se questa non sia altrettanto soggetta al dubbio quanto quella religiosa. Adora non resta che il senso, che può anche essere angoscioso, ma è l’ultimo termine cui giunge la nostra ragione, del mistero. Non è forse questo senso del mistero che unisce profondamente e indissolubilmente gli uomini della fede laica e quelli della fede religiosa?”
Potrei parlare ancora del compianto Claudio Napoleoni. per il quale: “L’etica non basta più quando amare l’altro significa trovare in lui il segno del mistero o, se si vuole, del divino. Diversamente l’etica non è più nulla, si trasforma di volta in volta in politica o in diritto, perdendo la sua cifra caritativa”. E ancora potrei dire di Scalfari che chiedeva a Martini se non fosse necessario un sussulto etico per porre un argine alla marea montante dell’egoismo che rischia di travolgere la convivenza tra gli uomini; o di Arrigo Levi, con il suo volume “Le due fedi”, quella religiosa e quella laica. E, per fare almeno un cenno alla Francia, il filosofo Luc Ferry che ipotizza, per salvare il mondo dalla catastrofe, la riscoperta dì una religiosità immanente che cambi gli uomini e le donne dal di dentro.

Non vado oltre. Ma volendo cogliere il filo rosso di questi dialoghi direi che emerge l’urgenza di un sussulto morale, o meglio spirituale, richiesto sia ai credenti che ai laici. Se già il mondo globalizzato lo richiedeva, gli attentati dell’11 settembre con tutto ciò che sta seguendo, ne mostrano l’indispensabilità. La stessa inedita (e imprescindibile) alleanza contro il terrorismo – e con i terroristi non c’è dialogo – non può prescindere dall’impegno per la costruzione di un futuro comune, che ovviamente potrà realizzarsi unicamente sulla via della convivenza fra i popoli, tra le culture, tra le civiltà, fra le religioni. Ne emerge la domanda che forse è tra le più complesse che dobbiamo affrontare, ma è inevitabile: ossia, come convivere tra persone, tra fedi e tra popoli diversi? E’ una questione che traversa la geopolitica e la politica nazionale, i comportamenti civili e quelli religiosi, la cultura e l’educazione. E riguarda anzitutto il cambiamento interiore delle persone, sia della coscienza che dei valori di riferimento. Ma si badi bene; non si tratta di perdere la propria identità scivolando verso una improbabile, e neppure auspicabile, omogeneizzazione. Semmai, il problema è come conservare le diverse identità senza che si esse pongano l’una contro l’altra, l’una nemica dell’altra. E’ ciò che possiamo chiamare l’arte del convivere tra diversi, che appare, peraltro, una sfida obbligata. La globalizzazione del mercato, della tecnica, delle comunicazioni rende impossibile ogni separazione. In passato si poteva vivere separati (si pensi all’Europa del “cuius regio eius religio”; si trattava allora della separazione tra cattolici e protestanti). Oggi questo è impossibile. I fedeli di tutte le religioni vivono insieme ovunque, in tante città e in tanti paesi: si incontrano, lavorano insieme, collaborano. E’ finito il mondo in cui si vivevano solo con i propri correligionari: oggi molti vivono insieme a gente diversa. E’ importante, allora, imparare a vivere insieme. Non resta altro che incamminarci verso un mondo in cui i diversi sappiano convivere. Ed è qui che bisogna concentrare i nostri sforzi:
ri-apprendere e ri-praticare l’arte del convivere (per secoli è stata possibile). E come ogni arte, anche questa richiede disciplina interiore, conoscenza e comprensione reciproca, superamento di pregiudizi e ricerca di valori condivisi.

C’è bisogno di un lavoro più approfondito per la pace, per una pace che scenda nelle pieghe della società, che educhi al rispetto dell’altro, che sani le radici di ira, che guarisca dalle tentazioni di violenza. Il messaggio che Giovanni Paolo II ha inviato per il primo gennaio del 2002 e che ha ripetuto ad Assisi, esprime a chiare lettere il legame strettissimo tra pace, giustizia e perdono. I nuovi scenari e le temibili minacce che si affacciano all’orizzonte, chiedono a tutti noi, laici e credenti, nuove e più audaci responsabilità. Le religioni, ad esempio, debbono promuovere una maggiore sensibilità verso gli esclusi del mondo. Un grande papa, saggio osservatore delle cose umane, Paolo VI, ebbe accenti profetici, quando notò che la miseria poteva essere un facile terreno di cultura per la violenza: ma – osservò anche – la violenza “introduce nuovi squilibri e provoca nuove rovine”. E concluse affermando che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. “La pace – egli disse – non si riduce a un’assenza di guerra, frutto dell’equilibrio sempre precario delle forze. Essa si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini.”
E’ urgente, pertanto, inventare nuove “vie di senso”, interrogarsi sulle prospettive della salvezza, combattere superstizioni e idolatrie, sincretismi ingannatori e fondamentalismi devastanti, praticare la vita interiore e riscoprire l’utopia. Ci siamo tutti accorti quanto la pace sia fragile, quanto la sicurezza dei cittadini sia aleatoria, quanto il mondo contemporaneo riservi dolorose incognite. C’è stato come uno stordimento che ha preso l’opinione pubblica di fronte a eventi rivelatori della forza del male, quali quelli dell’11 settembre. Tanti interrogativi sono sorti sul presente e sul comune futuro. Forse a causa dello sbandamento del momento, alcune voci si sono alzate interpretando quei terribili avvenimenti come il segno di uno scontro di civiltà e di religione. Si è aggiunto che la religione è un terreno, dove si sviluppano pericolose visioni dell’uomo e del mondo, capaci di giustificare la violenza e il male.

Dobbiamo essere coscienti che le grandi risorse religiose non possono essere bruciate nella prospettiva di una lotta di civiltà o di una guerra di religione, Non c’è dubbio che le religioni hanno un compito delicatissimo di fronte all’uomo e alla donna contemporanei, spesso spaesati e incerti, preoccupati del futuro, tentati di vivere una vita piccola e alla ricerca del proprio esclusivo benessere. Per le religioni la pace non è solo l’assenza di guerra, ma un valore spirituale che tocca l’intimo dell’uomo, riguarda i suoi rapporti sociali, si fonda nel cuore e abbraccia la vita dei popoli. Il momento che stiamo vivendo è carico, non solo di preoccupazioni, ma pure di interrogativi: che fare di più per evitare la cultura dell’odio? Come la predicazione religiosa, l’esempio, la testimonianza possono aiutare i credenti delle religioni a essere artigiani di pace sulle vie del mondo e dentro la vita quotidiana? Sono domande da sempre rivolte ai santi e ai credenti delle religioni; ma oggi si fanno più intense o forse più drammatiche. E credo che siano domande che non possono non coinvolgere anche il mondo laico.
Oserei dire che emerge con chiarezza quanto ci sia bisogno di più fede e di più ragione. In altri termini, i credenti debbono essere più credenti e i laici più laici. Questo comporta anche un processo di approfondimento, un ritorno alle proprie sorgenti spirituali. Le Chiese conoscono bene quanto sia facile tradire il Vangelo. Giovanni Paolo II, con sapiente intuizione, ha chiesto perdono per i tradimenti avvenuti nel corso della storia. Il senso era rimettere la Chiesa sul nastro di partenza, ossia ripartire dal Vangelo, da quella energia di misericordia e di fraternità che non è stata ancora manifestata. Per i laici non so bene cosa voglia dire scendere nel profondo della loro tradizione, o anche cosa possa significare, ad esempio, chiedere perdono. Ma anche i laici debbono chiedersi come essere più laici. L’amico Jean Daniel, qualche tempo addietro, si chiedeva: come essere santi laici? Oppure, si può essere santi senza Dio? Era lo stesso interrogativo di Camus: “Si può essere santi senza Dio?” E lo scrittore aggiungeva: “E’ il solo problema concreto che oggi io conosca”.

Questa specie di dialogo tra uomini di religioni diverse e tra credenti e laici è una frontiera indispensabile all’inizio di questo millennio. E’ la via per prenderci tutti sul serio e per evitare la banalizzazione e l’autoreferenzialità. Per ambedue è facile restare chiusi nei propri recinti, religiosi o laici. Al contrario, bisogna praticare quella che Paul Ricoeur chiama la “ospitalità delle convinzioni”. Ne guadagneremo tutti. E’ quanto anche oggi stiamo facendo. Se si scende al fondo delle proprie fedi, o delle proprie convinzioni, è più facile incontrarsi perché si coglie quella che chiamerei la “via amoris”, la via dell’amore, della solidarietà e dell’uguaglianza. E’ la via di Francesco.

Il Vangelo richiama i credenti a globalizzare l’amore. Questa via non
passa lontano, ad esempio, dalla difesa dei Diritti dell’uomo, che Jean Daniel ha immaginato come una sorta di religione dei non credenti. Cari amici credenti, cari amici laici, il mondo non è in crisi perché siamo debolmente d’accordo, perché non vediamo le radici profonde che ci alimentano e ci accomunano. La via dell’incontro rafforza comunque l’accordo e rende il disaccordo motivo di ricchezza e non di lotta.

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