“La pandemia insegna: soli non si sopravvive e siamo tutti più fragili”

di Alain Elknann

L’Arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita è responsabile del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli studi del matrimonio e della famiglia.

Eccellenza, durante la pandemia lei ha scritto ben due libri: «L’arte della preghiera» e «Pandemia e Fraternità».

«Sì, stavo a casa e dovevo rispettare le regole di clausura in una Roma surreale, in particolare a Trastevere, svuotata di tutto, delle urla, delle folle, dei tavolini per strada, degli ambulanti, svuotata dei colori del mondo».

A Trastevere ci sono la Comunità di Sant’Egidio e la Chiesa di Santa Maria in Trastevere, che sono molto vicine al suo cuore.

«Sì, io sono dentro il cuore, dal settembre del 1973, con la Comunità di Sant’Egidio. Abbiamo stabilito lì la nostra sede».

Qual è il vostro compito?

«Mettere in pratica il Vangelo alla lettera e, se potessi usare un’immagine, è quella dell’albergo del buon samaritano. Vivere in amicizia con Gesù e con i poveri e quindi tra noi. Questo è il segreto di Sant’Egidio».

Durante questa pandemia cosa facevate?

«Ci ha sostenuto la forza della preghiera che facevamo in silenzio nella Basilica, rispettando tutte le distanze richieste. I più poveri spesso erano gli unici che giravano per Trastevere e, per molti di loro, la strada era la loro casa».

Ha paura che stia arrivando molta povertà?

«Abbiamo visto crescere il numero dei poveri. La pandemia non è stata vissuta da tutti allo stesso modo: gli anziani hanno avuto la peggio. E il dopo rischia di essere molto triste se non apprendiamo la lezione di una fraternità più larga. Credo che il virus ci abbia fatto scoprire che siamo tutti più fragili e sconfitto tutte le barriere, ma ci ha anche insegnato che nessuno può vivere e sopravvivere da solo».

Di questo parla Pandemia e fraternità?

«Sì, in questo senso credo che sia indispensabile una rivoluzione della fraternità, che è stata purtroppo la promessa mancante della modernità».

Celebrare messa senza la gente cosa significava per lei e per gli altri sacerdoti? «È stato un sacrificio enorme, perché la messa, per definizione, è una festa assieme e quindi, celebrare da solo, aveva il sapore di un digiuno che aspettava il ripristino di una convivialità forzatamente interrotta».

La mancanza delle chiese ha indebolito la religione?

«Dobbiamo dire grazie alla nuova tecnologia mediatica che, supplendo alla presenza fisica, ha consentito e reso possibile un legame spirituale. Ma per il cristianesimo è indispensabile il corpo: i gesti, gli sguardi, gli abbracci e anche l’odore e il gusto. La religione, come la vita,non può essere virtuale».

Le immagini atroci che giungono dall’America, per lei che è in contatto permanente con la miseria e con i diseredati, che impressione le fanno?

«Non è solo un terribile scandalo in sé. Gli Stati Uniti hanno una responsabilità e un’esemplarità nella democrazia, nella libertà e nella solidarietà in un mondo che vede indebolirsi i legami sociali, fino ad intaccare la stessa struttura democratica della società. I sovranismi mettono a rischio la stessa convivenza pacifica mondiale».

Teme che la violenza, come il virus, diventi contagiosa?

«La violenza accompagna l’umanità da sempre, e, se non viene contrastata da un’azione religiosa per la convivenza pacifica, provoca gli stessi danni di un virus».

Il razzismo è un male senza vaccini?

«I vaccini ci sono eccome, ma il razzismo è della stessa famiglia dei virus. Guai a lasciare che si trasmetta da uomo a uomo. Può sfociare in pandemia e purtroppo, sotto il nazismo e il fascismo, ne abbiamo visto il culmine. Miguel de Unamuno diceva che il cristianesimo è sempre“agonico”, cioè  lotta anche contro il proprio egoismo e contro l’individualismo imperante: ed è indispensabile non cedere mai alla rassegnazione».

Che cos’è L’arte della preghiera cui lei ha dedicato un libro? «Sono 3000 anni che milioni di persone hanno trovato le parole per dialogare con Dio. Sono l’espressione di un confronto diretto con Dio, talvolta anche aspro, ma nella convinzione che Dio non èmai sordo alle nostre grida».

Quelli che non credono vivono peggio?

«Per me sarebbe molto difficile vivere senza preghiere, ma credo che i salmi raccolgano anche il grido di chi non crede. Le preghiere hanno nutrito anche persone non credenti. Il primo salmo parla della beatitudine dell’uomo che ascolta, “E’ beato chi, pur non credente, ascolta. È lo stolto che non è beato”».

Nel momento più pericoloso della pandemia, la gente pregava?

«Io ho scoperto uomini e donne che hanno sentito il bisogno di pregare e di rivolgersi a Dio, come ho sentito lo scandalo drammatico delle migliaia di morti senza ricevere il conforto né dei famigliari né della religione. Per questo sarò favorevole a una giornata che onori la loro memoria».

Come si affronta la povertà?

«Purtroppo oggi viviamo nell’assenza di un sogno comune. Il corona virus ci ha svegliati, dato un pugno nello stomaco ad un narcisismo imperante. C’è bisogno di una nuova visione dello sviluppo che abbracci tutti gli esseri umani, perché si riscopra l’indispensabile solidarietà e si respinga una società che non si cura assolutamente degli scarti».

L’immagine di Papa Francesco che prega da solo, in una Piazza San Pietro deserta, che cosa ha significato per lei?

«È stata per me un’immagine tra le più forti di questo tempo. Mi ha richiamato alla memoria l’immagine di Mosè sul Monte Sinai che si confronta con Dio per costringerlo a intervenire in favore del popolo. Quelle parole “Non ti importa che moriamo” sono tra le più drammatiche e le più forti risuonate nel cielo. In quel momento il Papa pregava per l’intera umanità».

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