Celebrazione per il Congresso Eucaristico Nazionale

Cattedrale di Jesi

Il “sacramento dell’altare” e il “sacramento del povero”

Il Vangelo che abbiamo ascoltato pone con estrema chiarezza l’identificazione di Gesù con i poveri, con i deboli. E’ un brano che illumina anche il mistero dell’Eucarestia. E’ a dire che sia nell’Eucarestia sia nei poveri vi è la presenza “reale” di Cristo. Certo in maniera analoga ma comunque “reale”. Mi ha fatto sempre pensare la decisione di Blaise Pascal, quando sentì avvicinarsi il giorno della morte senza poter ricevere la comunione, di essere portato accanto al letto di un povero del vicino ospizio: “voglio morire vicino a Cristo”, disse. È un singolare esempio di quella fede evangelica che ha traversato tutti i secoli del cristianesimo. Molte volte il legame tra l’Eucarestia e i poveri è ricordato nei testi cristiani. Alcuni teologi ortodossi, come Olivier Clément, parlano di “sacramento del fratello” collegandolo al “sacramento dell’altare”. Il cardinale Congar diceva: “I poveri sono cosa della Chiesa. Non sono soltanto sua clientela o beneficiari delle sue sostanze: la Chiesa non vive appieno il suo mistero se ne sono assenti i poveri. Il sacerdozio è incaricato di essi… La cura dei poveri, degli sradicati, dei deboli, degli umili, degli oppressi, è un obbligo che ha le sue radici nel cuore stesso del cristianesimo inteso come comunione. Non può esistere comunità cristiana senza diaconia, cioè servizio di carità che, a sua volta, non può esistere senza celebrazione dell’Eucarestia. Le tre realtà sono legate tra di loro: comunità, Eucarestia, diaconia dei poveri e degli umili. L’esperienza dimostra che esse vivono o languono insieme…”.
E’ in tale orizzonte che si colloca l’ammonimento della Didascalia degli Apostoli: “Vescovi e diaconi, abbiate cura dell’altare di Cristo, ossia delle vedove e degli orfani”. Giovanni Crisostomo raccoglieva lo stesso insegnamento e diceva ai suoi fedeli: «Se volete onorare il corpo di Cristo, non disdegnatelo quando è ignudo; non onorate il Cristo eucaristico con paramenti di seta, mentre fuori del tempio trascurate quest’altro Cristo che è afflitto dal freddo e dalla nudità». Benedetto XVI, come a raccogliere questa sapienza spirituale, sottolinea: “Un’Eucarestia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata”(n 14), ossia depauperata, divisa. Del resto, è facile richiamarsi al testo di Paolo ai Corinzi: “Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno, infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente?” (1Cor 11, 21-22).
Il Vangelo afferma chiaramente che la vita del discepolo non si può svolgere lontano dai poveri. E il cristiano non può sentire i poveri semplicemente come un problema sociale: essi sono per lui una questione di famiglia. Per i cristiani, i poveri sono come dei parenti. Ed hanno quindi il diritto ad essere amati, e ad avere fratelli e sorelle come tutti noi abbiamo. Il rapporto con loro pertanto non può essere ridotto ad un’attività o ad un ufficio. Ogni cristiano deve avere una relazione personale con essi, magari anche con uno solo. Non dobbiamo dimenticare che al termine della vita – così ci assicura il Vangelo di Matteo – saremo tutti interrogati su questo amore diretto, personale, ai poveri. L’incontro con i poveri deve divenire un’esperienza personale da parte di ogni credente. Questo comporta il coinvolgimento del cuore proprio perché nasce dall’amore di Dio. Potremmo dire pertanto che i poveri, ancor prima del pane, hanno bisogno della nostra considerazione, della nostra amicizia, del nostro amore. Per questo vanno chiamati per nome come ciascuno di noi giustamente desidera per sé, ed hanno bisogno che il Vangelo sia loro annunciato, anzi deve essere comunicato a tutti a partire da loro. Tale atteggiamento non è affatto scontato e spesso non è neppure tenuto in considerazione presso le comunità cristiane.
C’è bisogno di una vera e propria “conversione pastorale” nello scoprire i poveri come fratelli, come familiari, come sacramento di Cristo. Potremmo dire che una delle qualifiche più chiare che i cristiani debbono mostrare oggi è quella di essere gli amici dei poveri. L’esperienza mostra che chiunque inizia ad aprire il cuore al Vangelo lo apre anche ai poveri. L’esempio dei santi è eloquente. Basti ricordare la conversione di Francesco d’Assisi. Nel suo Testamento Francesco presenta come gesto di conversione il suo incontro con i lebbrosi; solo dopo questo incontro avviene l’altro, quello con il Crocifisso di San Damiano di cui in questo anno ricordiamo lottavo centenario. L’amore è davvero nel cuore della fede, anzi è prima di essa e dopo di essa.
E, in un mondo senza cuore, come il nostro, il Vangelo dell’amore continua a restare una grande garanzia e una grande difesa per i poveri. Certo essi non sono attraenti, anzi spesso imbarazzano. Ma non era così anche per il servo sofferente di cui parla Isaia? Scrive il profeta: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevano alcuna stima” (Is 53, 2-3). Sono parole che possono applicarsi ai milioni di poveri che ancora oggi sono sparsi ovunque nel pianeta e che si ritrovano per il loro dolore ad essere compagni di Gesù; solo lui, infatti, “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini… umiliò se stesso facendosi obbediente sino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 6-7). L’identificazione di Gesù con gli ultimi è tra quelle dimensioni proprie del cristianesimo che debbono essere “esaltate” con maggiore audacia. Proprio questa convinzione faceva dire ai Padri della Chiesa: “Hai visto il fratello? Hai visto Dio!”.
In verità, la cultura dominante spinge al divorzio dai poveri, a non ritenerli degni di attenzione. Per questo è ancora più facile comportarsi come quel sacerdote e quel levita della parabola evangelica. Ma i discepoli di Gesù sono invitati a compiere un’altra scelta. Le parole finali della parabola evangelica: “Và e anche tu fa lo stesso” (Lc 10, 17) sono un comando che un cristiano sente risuonare ogni giorno. Nella parabola Gesù chiede al discepolo di farsi “prossimo” all’uomo mezzo morto; “prossimo”, ossia “il più vicino” (prossimo è superlativo del latino “proper” ossia più vicino). Il credente, la Chiesa, è “il più vicino” ai deboli e ai poveri. E i poveri sono i poveri; non i ricchi che sono poveri di spirito. No, i ricchi, come tutti noi, semmai siamo presi dal nostro egoismo, ma non certo poveri. Il problema per noi ricchi (come era per il prete, il levita e il samaritano della parabola, tutti e tre ricchi) è piegarci sui poveri, sui malati, sui bisognosi. L’amore per i poveri riguarda la nostra stessa conversione, il nostro modo di seguire Gesù, di essere uomini e donne spirituali, ossia secondo il Vangelo.
Gregorio Magno, mentre l’impero romano crollava sotto la pressione dei barbari, ammoniva i cristiani di Roma: “Ogni giorno troviamo Lazzaro se lo cerchiamo, e anche senza cercarlo, ogni giorno ci imbattiamo in lui. I poveri si presentano a noi, anche importunandoci, chiedono, ma potranno intercedere per noi nell’ultimo giorno… Non sciupate dunque il tempo della misericordia e non disprezzate i rimedi che vi offrono”. Gregorio esortava i cristiani a “non sciupare il tempo della misericordia”, ossia il tempo dell’aiuto ai più deboli. E, senza timore, affrontava i pregiudizi che si avevano verso i poveri, come quello dell’accusa di essere loro stessi colpevoli della loro indigenza: “Quando vedete i poveri compiere qualcosa di riprovevole, non disprezzateli, né disperate per loro, perché forse le fiamme della povertà purificano le lievissime colpe di cui si sono macchiati”. Dio – ricorda il vescovo ai suoi fedeli – li conosce in maniera particolare, per nome, come si vede dalla parabola del ricco epulone: “Perché dunque – si chiede Gregorio – il Signore narrando di un povero e di un ricco, dice il nome del primo e tace quello dell’altro, se non per dimostrare che Dio conosce gli umili ed è vicino a loro, mentre non riconosce i superbi?” E ribadisce: “i poveri hanno bisogno della parola e non solo di aiuto: date col pane la vostra parola… Il povero dunque, quando sbaglia, va ammonito, non disprezzato, e se in lui non riscontriamo difetto alcuno, deve essere venerato”.
Se, per un verso, i poveri sono sostenuti da noi, per altro verso anche noi siamo sostenuti da loro. È una verità straordinaria e sconvolgente della tradizione cristiana. Ed in effetti si attua un punto di svolta quando, nell’amicizia con i poveri, ci si rende conto che sono loro ad evangelizzarci. In che senso? I poveri, con la loro stessa condizione, ci ricordano la nostra debolezza. L’anziano, con la fragilità del suo corpo, ci ricorda la nostra anche se noi cerchiamo in ogni modo di nasconderla sotto il benessere o il ben vestire. I poveri ci ricordano inoltre la vanità di quell’orgoglio aggressivo che noi sentiamo come una naturale difesa di fronte alla durezza della vita. Essi, insomma, ci parlano della nostra fragilità e della vanità di una vita chiusa negli ambienti protetti e sicuri. Ancora Gregorio Magno ammonisce: “Nessuno dunque si creda al sicuro perché può dire: io non derubo gli altri, soltanto sfrutto i beni che posseggo secondo giustizia. Il ricco epulone infatti non fu punito per avere sottratto agli altri, ma solo per essersi dato disordinatamente ai beni ricevuti. La condanna all’inferno gli fu data perché non conservò il sentimento del timore nella felicità, perché divenne arrogante a motivo delle ricchezze che possedeva, senza alcun sentimento di pietà…”. Il “sentimento del timore nella felicità” è un’osservazione da accogliere con attenzione. Spesso la felicità inebria, fino a pensare che si può essere felici contro gli altri e senza gli altri.
I poveri fin da ora sono essere maestri silenziosi: con molta umiltà (perché non hanno né la forza né l’autorità per farlo con arroganza) ci inquietano quando ci sentiamo orgogliosi o arroganti. L’amicizia con i poveri ci evangelizza in profondità, se per evangelizzazione non intendiamo qualcosa di cattedratico, ma una comunicazione vitale. Il povero Lazzaro era un messaggio chiaro per il ricco epulone se avesse allargato il suo sguardo fuori dal suo orizzonte di benessere, oltre la soglia di casa sua. Il povero Lazzaro non urla né s’impone, ma la sua presenza parla. I poveri – secondo Gregorio Magno – non solo ci evangelizzano ora, ma nel futuro saranno anche i nostri intercessori. Il pensiero dei poveri come intercessori è stato presente con continuità nella tradizione cristiana. Ad esempio, Erma sottolineava che il ricco e il povero si aiutano vicendevolmente: «Quando il ric¬co rimane accanto al povero e lo soccorre in ciò di cui ha bisogno, crede che ciò che fa per il povero può trovare ri¬compensa presso Dio, perché il povero è ricco in intercessio¬ne e confessione, e la sua intercessione ha gran potere presso Dio».