Consiglio provinciale aperto in seduta congiunta con il consiglio comunale

Consiglio provinciale aperto in seduta congiunta con il consiglio comunale

 

“E’ importante questa occasione di incontro tra noi. E’ importante perché ancora una volta vogliamo esprimere la nostra preoccupazione e il nostro impegno per il futuro per il nostro territorio. Lo spunto nasce da una decisione che Governo e Parlamento stanno prendendo in queste settimane, una decisione ancora non definita e che i più auspicano sia rivista e sostanzialmente cambiata. E’ in effetti una decisione che appare insufficiente e non coerente con l’obiettivo che intende perseguire. Il paese è in un momento difficilissimo e scelte dolorose sono necessarie. Queste scelte debbono però riguardare tutti e non possono essere ristrette a pochi con metodi irragionevoli e forse anche di incerta compatibilità con le regole costituzionali.

E’ questo un mio personale giudizio: non sono un esperto di diritto o un politologo. Io sono il Vescovo di Terni Narni Amelia, cioè di quella porzione del popolo di Dio che è in Terni Narni Amelia. E’ dunque dal punto di vista del rapporto tra la Chiesa e la città che posso oggi portare il contributo che mi è proprio. Essere Vescovo significa infatti anche confrontarsi con la città e il suo futuro, anche con la città degli uomini e non solo con la città di Dio. Tra la Chiesa e la città c’è infatti distinzione, una distinzione importante a salvaguardia della libertà religiosa, delle libertà della persona e dei limiti del potere politico. Ma c’è anche un’intimità per cui l’una è interna all’altra, le preoccupazioni delle città, delle comunità, le loro ansie e speranze sono le ansie e le speranze della Chiesa.

Il Vescovo, i laici credenti, i presbiteri, i religiosi e le religiose della nostra Chiesa – chiamati al discernimento di questo tempo storico – sono oggi preoccupati per il futuro delle nostre città, per la loro capacità di crescere, di contrastare l’ingiustizia e l’esclusione sociale, per la loro capacità di perseguire il bene comune. Ma il bene comune è una responsabilità comune, una responsabilità di tutte le sfere sociali, dell’economia come della politica, delle comunità religiose come del mondo della cultura, e così via. Senza supremazie o distinzioni tra ruoli centrali e ruoli periferici. Quando si parla di bene comune siamo tutti centrali. E’ un tema che abbiamo affrontato più volte in questi anni e che oggi torna vigorosamente alla nostra attenzione. Solo con una visione poliarchica della città possiamo affrontare con successo le sfide che abbiamo di fronte a noi.

Se dunque una visione poliarchica ci mette nella giusta posizione per guardare al futuro dobbiamo cambiare molti dei nostri atteggiamenti. Non possiamo, ad esempio, continuare a pensare che altri ci debbano garantire status, condizioni sociali, qualità della vita. Non abbiamo più uno stato che garantisce la provincia. Non abbiamo più uno stato che crea sviluppo e posti di lavoro. Non abbiamo più uno stato che ci assicura contro la povertà. E non possiamo neppure sostituire la regione allo stato, non è questo il federalismo che può far crescere l’autonomia e la responsabilità delle nostre città. In altre parole non abbiamo più alibi.

Non avere più garanzie, o meglio non avere più le forme di garanzia che la storia recente ci aveva abituato a dare per scontate, ci obbliga così ad un salutare ripensamento delle nostre responsabilità, delle nostre capacità di far fruttare le risorse di cui siamo dotati e di lasciare spazio ai nostri talenti. Non dobbiamo chiedere garanzie ad altri ma chiedere a noi stessi di impegnarci di più, di lavorare di più e meglio, di avere più cura e di dedicare più tempo a chi resta indietro.

Abbiamo cioè di fronte una responsabilità tutta nostra: una responsabilità comune per il futuro che ci deve aiutare a contrastare il ripiegamento che rischia di attanagliarci e, accanto al ripiegamento, la tentazione di sostituire la rivendicazione alla laboriosità. Non è questa la nostra storia: è la nostra tentazione ma non è la nostra storia. Al contrario dobbiamo fare nostro l’invito di Paolo ai cristiani di Tessalonica: “vi esortiamo a progredire ancora di più, a fare tutto il possibile per vivere in pace, occuparvi delle vostre cose e lavorare con le vostre mani” (1Ts 4,10-11).

Impegno per la crescita, capacità di far fronte alle urgenze del tempo presente, liberazione dei talenti locali, ricerca di una responsabile autonomia. Sono questi i pilastri di una visione per il futuro del territorio. Su questi pilastri possiamo edificare una nuova fase della vita della città, una fase “costituente”, una fase capace di porre nella giusta prospettiva anche le questioni dei rapporti tra i diversi livelli territoriali di esercizio del potere politico. Si tratta, volendo usare un’immagine, di sottoporre la città come ad una torsione nella quale lo sforzo deve concentrarsi nel restituire centralità a tutte le sfere sociali, nel lasciare che il protagonismo di tutti costruisca il futuro. Non si possono difendere forti livelli di governo dove le altre sfere sociali sono deboli, avvilite, dipendenti e non autonome, fiacche e non vigorose, dove c’è cooptazione e non sana competizione.

Gli strumenti per mettere in moto questo processo possono essere diversi, non è certo mio compito cercare di definirli, ma la visione è decisiva e occorre che sia una visione condivisa. Solo nella condivisione è possibile cercare un rafforzamento delle possibilità. Un futuro per il quale questo territorio deve saper guardare in ogni direzione, deve saper stringere alleanze senza preclusioni che non hanno più ragione di essere coltivate, e senza fedeltà che spesso non sono che il frutto di convenienze di breve periodo o di sudditanze non più giustificate.

Il momento nazionale e internazionale di crisi può tramutarsi in una grande opportunità. Le risorse per privilegiare le garanzie e le rivendicazioni a scapito della responsabilità e dell’autonomia sono esaur