XV Domenica del Tempo Ordinario

Dal vangelo di Marco 6,7-13

Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: “Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro”. Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

“Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due”. Così inizia il brano del Vangelo di Marco che ascoltiamo in questa domenica. Gesù li chiamò e li mandò. In questi due verbi (chiamare e mandare) si può dire che è racchiusa tutta l’identità del discepolo e di ogni comunità cristiana. Queste parole, infatti, con quel che esse significano, non sono riservate a gruppi particolari o a persone privilegiate. Tutti i cristiani sono chiamati a stare con Gesù e ad essere inviati per comunicare il Vangelo al mondo. Il Concilio Vaticano II richiama con estrema chiarezza questa missione affidata a tutta la Chiesa: “La Chiesa peregrinante è per sua natura missionaria… e ad ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di diffondere, per quanto gli è possibile, la fede”. Il cristiano pertanto è anzitutto un chiamato, un convocato da Dio. Propriamente parlando, non si diviene cristiani per autonoma scelta; lo si diventa in risposta (ovviamente libera) ad una chiamata che ci precede. Sì, c’è un amore che sta prima della nostra risposta. Paolo, nello splendido inizio della Lettera agli Efesini, ce lo ricorda: “In Cristo (il Padre) ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci ad essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà” (Ef 1,4-6).
Tutta la tradizione dell’Antico Testamento, da Abramo in poi, pone Dio all’origine di ogni chiamata; l’iniziativa di avviare la storia della salvezza del popolo d’Israele è tutta del Signore. “Abramo, chiamato da Dio, obbedì”, scrive l’autore della Lettera agli Ebrei (11,8), indicando ad ogni cristiano il paradigma della fede. Nelle narrazioni delle vocazioni profetiche emerge sempre il primato della chiamata divina. Emblematica è la vicenda di Amos. Non fu lui a scegliere. E neppure fu lui ad andare. Il Signore lo prese (“Il Signore mi chiamò mentre seguivo il gregge”) e lo scaraventò in un aspro confronto con le ingiustizie del potere politico. Dovette scontrarsi persino con le fredde considerazioni del “cappellano di corte”, il sacerdote Amasia, che lo esortava, come spesso accade, ad un’egoistica prudenza. Amos ribatte al sacerdote che alla radice delle sue parole non c’è una scelta personale legata a particolari prospettive. È Dio stesso che lo ha costretto alla missione profetica: “Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomoro; il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge e il Signore mi disse: ‘Va’, profetizza al mio popolo Israele ” (Am 7,14-15). Potremmo dire che ognuno di noi era (e spesso lo siamo ancora) raccoglitore di sicomori. E non di rado, nonostante la chiamata che Dio ci fa ogni giorno, ogni domenica, noi restiamo a coltivare i nostri personali sicomori.
Ma il Signore continua a chiamarci, e non una volta sola, strappandoci da un destino triste e scialbo. La chiamata è sempre per svolgere il servizio di comunicare, con le parole e con la vita, il Vangelo di Gesù sino agli estremi confini della terra. E qui ciascuno può trovare la propria santità. Tutte le chiamate del Signore sono un invito ad accogliere la missione che fa sempre andare oltre se stessi, oltre i confini che ciascuno si traccia per la propria vita. È anzi naturale per ciascuno di noi tracciare limiti, possibilmente chiari e definitivi, tra sé e gli altri, tra quello che riteniamo possibile fare e quello che pensiamo non lo sia. Tale istinto a tracciare confini nasce dalla paura: vogliamo essere tranquilli e certi, evitando l’ignoto e ciò che non ci è familiare. Si rinsaldano così i confini che dividono gli uomini tra loro: quelli della cultura e delle affinità, dell’età e della classe sociale, della nazione e della appartenenza. E altri ancora. Sono tutti confini che separano gli uni dagli altri e spesso con violenza, ingiustizia e talora anche con la guerra. E comunque portano sempre a sentire l’altro come un avversario, come un nemico. Ciascuno cerca di stare solo con i propri simili, ossia con se stesso.
Per Gesù non è così. Egli ha lasciato persino il cielo per venire in mezzo a noi, e non perché fossimo giusti, ma perché peccatori. Per questa ragione Gesù non può accettare né limiti né particolarismi. Del resto, anche il Padre che sta nei cieli “fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,45). L’orizzonte di Gesù è il mondo intero. Nessuno è estraneo alle sue preoccupazioni, neppure il peggiore dei nemici. Per il Signore tutti sono da amare e tutti da salvare. Egli per primo è stato mandato, ed ha obbedito: “Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il Vangelo del regno e guarendo ogni malattia e infermità”, scrive Matteo (9,35). Ancora oggi Gesù non cessa di commuoversi sulle folle stanche e sfinite di questo mondo, in particolare quelle più povere che vagano come pecore senza pastore. E manda i suoi, “due a due”, perché continuino la sua opera di comunicazione del Vangelo. I discepoli di Gesù debbono essere liberi nello spirito e universali nel cuore, particolarmente oggi mentre le distanze tra le persone e i paesi si sono accorciate come non mai e tuttavia crescono a grande velocità nuovi muri e nuovi confini, reclamati dall’individualismo e dal particolarismo di singoli e di gruppi, di etnie e di nazioni. Come Gesù non è venuto a salvare se stesso, così i cristiani non vivono per se stessi ma per salvare gli altri.
Gesù invita i suoi discepoli, di ieri e di oggi, a non prendere nulla con sé, né pane né bisaccia né denaro (e ciascuno deve interrogarsi su cosa sono oggi per noi il pane, la bisaccia e il denaro). Essi, muniti solamente del bastone del Vangelo e dei sandali della misericordia, debbono percorrere le vie degli uomini predicando la conversione del cuore e guarendo malattie e infermità. Per entrare nelle case degli uomini, ossia nella dimora più intima e delicata che è il loro cuore, non occorrono armi particolari. I discepoli, indifesi e poveri, debbono andare due a due perché la loro prima predicazione sia l’esempio del vicendevole amore. Del resto Gesù aveva detto: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”. Ricchi pertanto solo della misericordia di Dio e del Vangelo, i cristiani potranno abbattere i muri di divisione e liberare il cuore degli uomini dai limiti e dai pesi che li opprimono. Davanti a tale compito, affascinante e terribile, non possiamo tirarci indietro. E assieme ai discepoli santi, diciamo: “Eccomi, manda me!” (Is 6,8).