Umanesimo antidoto al doppio contagio
di Andrea Di Consoli
Mons. Vincenzo Paglia, alle persone di fede ci si sta rivolgendo con domande dozzinali (“Dov’è Dio?”, “Come fa la preghiera ad aiutare un malato?”, ecc.). È come se la religione fosse un ricettario, un bignami di risposte pronte all’uso, e non una difficile possibilità di senso, una straordinaria e difficile opportunità di andare alla radice del male e dell’amore, alla radice del senso, che non può essere affrontato solo quando il m ale si presenta in tutta la sua drammaticità. Avverte anche lei un bisogno di usare le risposte della fede come fossero pillole da ingerire rapidamente per avere benefici immediati?
“Pensavamo di rimanere sempre sani in un mondo malato, ora ti imploriamo: Signore, svegliati!”. Così Papa Francesco, in quell’indimenticabile 27 marzo, dal sagrato di una Piazza San Pietro completamente vuota, si rivolgeva al Cielo a nome del mondo intero travolto da una tempesta, improvvisa, sconosciuta, terrificante. Questo gesto di fede non c’entra nulla con un ricettario per pillole tranquillanti. Lei ha ragione: ridurre la fede a una pillola vuol dire non comprendere né la vita né la fede. Papa Francesco – che di fede se ne intende, mi verrebbe da dire – parla della Chiesa come di un “ospedale da campo”. E quella sera aggiunse: “Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti…”. Ed ecco dove siamo arrivati: l’umanità intera è stata messa in ginocchio da una molecola, un microorganismo che neppure è vivente. L’altissimo livello tecnologico che il mondo ha raggiunto non ci ha salvato. In alcuni casi ha persino peggiorato. Insomma, neppure la scienza è “dio”. Le nostre sicurezze sono crollate e la paura si è impossessata degli animi. E la fede cosa c’entra? La fede è la fatica di comprendere quanto è accaduto, di accettare la comune fragilità e alzare gli occhi in Alto. La fede si colloca in questo crocevia e nel grido a Dio: “Svegliati!”. Al di là della risposta che noi vogliamo.
In ogni uomo di fede immagino ci sia uno spazio senza risposte, uno spazio bianco. Nel momento in cui al centro della scena del mondo s’impone la malattia, il pericolo e la morte, chiunque tenti ragionamenti articolati e non semplicistici viene emarginato, perché le persone vogliono una cura e basta, per poi tornare alla rimozione di sempre dell’abisso della nostra natura di creature fragili. Qual è lo spazio bianco di Monsignor Vincenzo Paglia?
Lo “spazio bianco”, come lei lo chiama, si trova tra la coscienza del limite radicale (“ricordati che sei polvere”, ci dice la Chiesa ogni Mercoledì delle Ceneri) e la tentazione prometeica di farcela da soli. È lo spazio dove si colloca il dubbio, il rischio, l’eccesso, l’oltre, il “mistero” e, quindi, anche l’umiltà. E non scompare finché non “salti”, non “rischi”, non “vai oltre”. Non è tranquillo, anzi è lo spazio del grido, della ricerca (onesta e angosciosa, preoccupata e speranzosa). E’ lo spazio del mendicante, dell’umile a stendere la mano, di chi cerca senso o, meglio, amore. Insomma, l’altra riva inizia con l’abbandonarsi all’amore.
La morte ci accompagna, come diceva Cesare Pavese, “dalla mattina alla sera”. A cosa serve rimandare continuamente la linea d’ombra della morte pur di non affrontarla di petto in tutta la sua potenza misteriosa? Cosa abbiamo da imparare dalla morte?
È un tema di sempre. Quando abitavamo ancora nelle capanne e nelle palafitte, costruivamo le piramidi e tombe di marmo per i morti! Che tragedia aver esculturato la morte! La morte ci porta sulla “soglia del mistero”, una soglia che accomuna credenti e non credenti. Gli unici che si tirano fuori sono i non-pensati, i non-cercanti, appunto gli orgogliosi che sono fondamentalmente sciocchi. Chi pensa non può non pensare alla morte come un passaggio. Questa pandemia è un invito pressante ad alzare lo sguardo da un narcisismo avvilente. L’opportunità di crescere c’è, perché la domanda sulla morte è stata sepolta non cancellata. Per chi non crede è l’opportunità di non negare quella soglia. Per chi crede è l’opportunità di ascoltare la voce che viene dall’Alto. Dio parla a tutti anche attraverso di noi. Non si crede mai solo per se stessi. In queste settimane la morte è tornata, improvvisa e in modalità sconosciuta. E’ una occasione per svegliare le nostre coscienze intorpidite da un benessere egocentrico, narcisista. È risuonata più forte la voce: non siete immortali!
Le persone aspettano ansiosamente un vaccino, un farmaco contro il coronavirus. E tutto questo è comprensibile. Ma quanto è pericoloso, quanto ci rende ancora più fragili e sperduti affidarci esclusivamente alle risposte della scienza? Potrà mai dare la scienza tutte le risposte alle nostre domande?
L’ho appena detto: la scienza è caduta rovinosamente dal trono più alto e sta ritrovando faticosamente il suo posto, sebbene c’è ancora l’assalto per riportarlo sul trono che non le spetta. E’ bastato un cinese che mangiasse un pipistrello e il mondo intero è stato schiaffeggiato. L’altissimo livello tecnologico e di pensiero è stato sorpreso da un minuscolo parassita. Tutti, dal più grande al più piccolo, dal più potente al più debole, siamo stati improvvisamente “livellati” e l’intero mondo della politica, dell’economica, della finanza, della scienza si è scoperto impotente. La nostra sicurezza è crollata, la nostra euforia manageriale e la nostra brama di controllo si sono sgretolate. Ci siamo scoperti fragili, e pieni di paura.
In Italia ci sono due contagi: quello del coronavirus e quello della paura. Come fare per non soccombere alla paura? Basta “salvare la pelle” per uscire vivi da quest’epidemia? Cosa dice di noi – di noi occidentali del XXI secolo – questa paralisi causata dalla paura? Quanto è giustificabile e quanto è rischiosa?
In effetti il coronavirus (che colpisce il corpo), ha messo in moto un altro virus (che colpisce gli animi), ossia angoscia e paura. Stati d’animo questi ultimi pericolosissimi perché generano depressioni e reazioni incontrollate. L’antidoto efficace per questa pandemia dello spirito è un nuovo umanesimo fraterno. Un umanesimo che si colloca “sulla soglia del mistero”, ossia sul primato dell’uomo e non della ricchezza, sul senso della promozione della fraternità più che del profitto. Umanesimo solidale vuol dire che tutto l’impegno scientifico, finanziario, economico, politico ed anche religioso deve essere diretto alla realizzazione del sogno di Dio sul mondo: aiutare tutti i popoli della terra a convivere in pace, rispettando la diversità di ciascuno, ma camminando insieme verso quella fraternità universale che è già dalla creazione il disegno di Dio sul mondo. Gesù lo ha ripreso e, se possibile, allargato ancora, non solo depurandolo da ogni autoreferenzialità, ma dandoci anche una nuova forza per affrettarlo. Questo sogno era nascosto anche nella ben nota triade: fraternità, libertà e uguaglianza. Faremmo un passo avanti se tornassimo a riprendere questa bandiera.
Sembra che solo adesso gli italiani stiano scoprendo gli anziani, la loro fragilità, la loro solitudine. E quasi si dice con sollievo che questa epidemia colpisce principalmente loro. Cosa abbiamo sbagliato rispetto agli anziani? Perché non sappiamo più far tesoro della loro ricchezza? Davvero gli anziani non servono più nelle società “avanzate”?
Quel che sta accadendo alle ormai note Rsa sulle quali ora anche la magistratura indaga, è la punta di un iceberg. Insomma, sta esplodendo drammaticamente quella contraddizione che le segnava già prima del coronavirus. Abbiamo allungato la vita (grazie al progresso in tanti campi!) ma poi abbiamo creato i grandi istituti per anziani (una sorta di pre-cimitero dove “deporre” i nostri anziani). Il profitto è valso più dei nostri padri. Papa Francesco ha bollato questo modo di fare come figlio di una “cultura dello scarto”. E’ ovvio – me lo auguro – che la tragedia di queste migliaia e migliaia di morti anziani sia una lezione per ripensare in maniera umana il nostro futuro. A partire dal mio visto che in questi giorni compio 75 anni. E vedo con scandalizzato terrore uomini politici e anche della sanità che condannano gli anziani – da 65 anni, io ne ho già 10 di troppo – a farsi da parte. Una società che arriva anche solo a ipotizzare queste prospettive è di una disumanità tale che mi fa tornare in mente quel salmo che dice “nella prosperità l’uomo non dura, è simile alle bestie che muoiono”(Sl 49,13). Ricordo don Oreste Benzi che diceva, amaramente: “Dio ha creato la famiglia, noi abbiamo creato gli istituti”.
Cosa significa pregare di fronte a un pericolo reale? Cosa significa pregare quando la morte aleggia intorno a una persona?
La preghiera è anzitutto un grido, un grido di aiuto. Diventa preghiera se c’è qualcuno che l’ascolta. Erano preghiere gli sguardi imploranti e terrorizzati di quei malati di coronavirus che medici e infermieri nei reparti di terapia hanno visto e a cui hanno risposto come hanno potuto. Come sono un inizio di preghiera le grida di aiuto dei migranti nel mediterraneo o dei bambini di Aleppo o di alcuni villaggi africani senza aiuto. Tutte queste grida diventano preghiera se c’è chi le ascolta e si commuove. Purtroppo noi del mondo ricco abbiamo ridotto la preghiera a una pratica di pietà, a una devozione, a una moltiplicazione di parole. Non è più un grido. Aveva ragione Davide Maria Turoldo, poeta e uomo di fede, ed anche amico, quando diceva : “Pregare è forse il discorso più urgente. Non il tanto discorso sulla preghiera o quello sulle devozioni, quanto lo spirito di preghiera: ossia alzare gli occhi verso l’Alto e gridare”. Lo è da sempre, in verità. Ma in questo tempo, mentre siamo come precipitati all’improvviso «in una valle oscura» (Salmo 23, 4), è davvero urgente alzare gli occhi e sperare in un “Oltre” che ascolti e intervenga. Di fronte a un nemico invisibile e presente, impalpabile e certo; di fronte alla sproporzione tra la capacità della morte di distruggerci e la nostra incapacità di difenderci, come non gridare in Alto? E lasciamo dire: questa è un’angoscia che squarcia il cielo e che, possiamo dire, turba anche la quiete di Dio. Tutto il pianeta ne è avvolto. Anche Dio è inquieto. Nulla di noi gli è estraneo. Un altro Dio non esiste. E tutti speriamo in un futuro nuovo.
Cosa significa amare quando si ha paura, quando si perde il lavoro, quando si rischia di morire, di rimanere disoccupati, quando non hai nessuno al tuo fianco nel momento del bisogno, del terrore, della caduta? Significa essere buoni? Oppure significa avere un’idea più dirompente e problematica del concetto di amore?
Dicevo che la vittoria su questa pandemia è il contagio della fraternità. Purtroppo, la fraternità è la grande promessa mancata della modernità. Dire “fraternità”, oggi, non è scontato, non è una parola vuota. “Fraternità” richiede una grande battaglia, innanzitutto contro il proprio individualismo, contro l’idolatria di se stessi. E’ la battaglia più difficile da combattere e da vincere. E il luogo dove si combatte è il cuore di ciascuno di noi. Non so se correggere quanto ho detto prima. Il vero compagno del coronavirus è l’individualismo che ha corroso tutte le difese immunitarie. L’individualismo è la grande eresia della modernità. Certo, la affermazione dell’individuo come soggetto di diritti (ed anche di doveri, sebbene qui si debba intervenire meglio), è stata una grande e irrinunciabile conquista della modernità. La sua deregulation ha condotto ad una sorta di dittatura del’io, dell’ego, che non è estranea al fallimento di questo tempo. Dobbiamo riscoprire e con urgenza il primato della “famiglia umana” chiamata ad abitare la “casa comune” che ci è stata affidata.
Cosa ha provato quando ha visto Papa Francesco pregare da solo in piazza San Pietro? E’ stato un momento di solitudine?
Papa Francesco, in quella sera, si è posto davanti a Dio come il grande intercessore per un mondo fallito. Da solo, a mani nude, forte solo di una fede viscerale, ha fronteggiato Dio stesso. Non per sé, non per i suoi fedeli, non per i credenti, ma per il mondo intero. Mi è venuto in mente il passaggio biblico che racconta dell’ira di Dio perché, nonostante la liberazione dall’Egitto, il popolo di Israele si era costruito un vitello d’oro da adorare. Dio decide di distruggerlo e lo confida a Mosé dicendogli tuttavia che avrebbe dato a lui un nuovo popolo da guidare. Mosé, anche lui solo sul monte, davanti a Dio, arriva a dirgli: “Signore, se tu pensassi di abbandonarli, con tutto il rispetto per te, abbandona anche me, perché neppure io potrei seguirti”. Un vero “capo” arriva a questo. E Papa Francesco, quella sera, era davvero il fratello universale di tutti. Abbiamo fatto bene a “fissare” quella immagine. Non spostiamoci! Quella icona è forse il discorso più urgente: alzare gli occhi verso l’Alto. Sempre dobbiamo farlo. Ma ora, toccata con mano la fragilità che ci accomuna tutti, è indispensabile alzare lo sguardo verso l’Eterno. C’è troppa sproporzione tra la capacità accelerata della morte di distruggerci e la nostra incapacità di difenderci. La vulnerabilità globale di un mondo globale ha raggiunto il suo picco. È un’angoscia che squarcia anche il cielo, turba anche la quiete di Dio. Nulla di noi gli è estraneo. E un Dio diverso non esiste.