Trasmettere la fede

Da sempre le vecchie generazioni fanno fatica a comprendere le nuove e così, all’affetto carico di speranza con cui si guarda ai più giovani, non di rado si associano frasi del tipo: “ai miei tempi…”, “noi non facevamo così alla loro età…”.

Questa frattura fra generazioni si è acuita particolarmente quando si parla in modo più specifico dell’esperienza religiosa: oggi più che in altre situazioni si fa una grande fatica a trasmettere la fede a figli e nipoti. I giovani sembrano spesso refrattari, indifferenti, se non, addirittura, in opposizione a tutto ciò che riguarda la fede e la chiesa.

Bisogna anzitutto dire che non sempre è così, come le magnifiche giornate dell’incontro dei giovani con Papa Francesco a Rio de Janeiro ci hanno mostrato. È però vero che molte volte le mie orecchie di vescovo hanno ascoltato lo sconforto di genitori e nonni profondamente dispiaciuti perché “i ragazzi non ne vogliono più sapere di andare a Messa” o per alcune scelte che proprio non si condividono, quale quella di andare a convivere con la propria ragazza/o senza sposarsi.

Almeno due sono i motivi che hanno reso oggi particolarmente evidente e carica di sofferenza questa distanza tra generazioni. Il primo consiste nell’accelerazione che caratterizza i mutamenti in questo tempo. Tutto accade più velocemente e se in passato erano necessari decenni per cambiare alcune usanze, dunque con tutto il tempo per abituarsi alla novità, ora le cose mutano da un anno con l’altro, senza preparazione alcuna.

Il secondo motivo, più specifico, risiede in quel fenomeno che gli studiosi chiamano secolarizzazione e che, ormai, nelle giovani generazioni è sempre più evidente, a tal punto che ha fatto recentemente grande scalpore il libro di Armando Matteo intitolato La prima generazione senza Dio. Il fenomeno è molto complesso e chiede ancora di essere approfondito, certo però mai nella storia dell’occidente si era assistito a un allontanamento così radicale dei giovani non soltanto dalla pratica religiosa ma anche dall’idea stesso di Dio.

Cosa fare davanti a tale situazione?

La prima cosa che mi sento di dire con forza è “non disperiamo!”. Certamente il contesto e la realtà sono difficile, ma guai a cadere nel pessimismo; esso, con la tristezza che lo accompagna, non viene mai da Dio.

Piuttosto non si deve avere paura di ascoltare i giovani, le loro domande, le loro inquietudini, anche i loro silenzi: i grandi desideri e le questioni di fondo dell’esistenza umana abitano anche i loro cuori. Ascoltiamoli anche se parlano una lingua a volte a noi poco comprensibile, proviamo a rispondere loro assumendo la fatica di rendere ragione della nostra fede con parole e riflessioni che forse non ci appartengono ma che riconosciamo necessarie per continuare quel fecondo dialogo che da duemila anni permette la trasmissione della fede.

E se c’è un linguaggio che i giovani continuano a comprendere e apprezzare, esso è quello dell’autenticità: la migliore testimonianza si dà con la coerenza e la radicalità evangelica. Sono i comportamenti talvolta eroici, più spesso di fedeltà quotidiana che interpellano efficacemente i cuori dei ragazzi. E’ il perché del “successo” di papa Francesco.

Infine pregate per loro, perché il Signore tocchi le loro orecchie e i loro occhi, così che possano ascoltare la Sua parola e vedere il Suo volto, come ha fatto duemila anni fa con il sordo muto e il cieco nato del vangelo e come ha fatto anche con noi. E ringraziatelo per i giovani di questo tempo, che ci impongono di non dare nulla per scontato, ci obbligano ad approfondire la nostra fede, ci spingono ad essere nientemeno che testimoni autentici del Vangelo. Che siano anche merito loro la nostra conversione?