“Sul fine vita troppe zone d’ombra, serve una legge chiara”

di Vanessa Seffer

In mancanza di una legge nazionale, alcune regioni hanno pensato di proporre un disegno di legge nei Consigli regionali che ha reintrodotto il tema del suicidio assistito e della sua depenalizzazione. Solo il Veneto lo ha respinto, seppur per un voto.
Il tema del fine vita crea agitazione e disagio dagli albori della medicina, dal giuramento di Ippocrate, dove i medici si impegnavano a non somministrare farmaci letali o abortivi.
Ci siamo rivolti a Monsignor Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la vita e consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio, sostenitore delle cure palliative, per fare un pò di chiarezza e conoscere meglio il suo pensiero a riguardo.

Cos’è che rende una vita degna di essere vissuta?

Vivere secondo il Vangelo: vicini alle sofferenze delle persone, compassionevoli, trattandoci con rispetto e dignità. Il contrario del conflitto, della guerra, dell’indifferenza verso le ingiustizie. Siamo tutti figli e figlie di Dio, il che ci rende fratelli e sorelle tra noi, in un disegno mondiale di fraternità universale. Non è utopia. È il messaggio profondo della Bibbia e di tutte le religioni.

Si teme più la parola “suicidio” o la parola “assistito” ?

Si teme di più la sofferenza. Le persone non vogliono morire prima. Non vogliono soffrire, il che è diverso. Dalla paura della sofferenza e del dolore scaturisce una richiesta di morte anticipata. Ma qui c’è un equivoco di fondo, che si dipana solo attraverso le procedure della terapia del dolore e delle cure palliative, che sono una forma fondamentale di presa in carico della persona e di carità cristiana, come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica e l’esperienza di migliaia di hospice in tutto il mondo.

Cos’è la libertà di decidere per sè stessi e questa stride con il concetto di “dono” di Dio? Il dono della vita.

Le dirò che ‘niente stride con niente’. Nella sua domanda tocca il mistero della vita umana e della libertà. Dio ci ha creati liberi. Anche liberi di andare contro la sua volontà, come dice il racconto biblico della Creazione e della cacciata dal paradiso terrestre. È la libertà umana; e possiamo compiere anche scelte disastrose. Lo vediamo ogni giorno nelle guerre, nei milioni di persone che muoiono per fame, nella sofferenza dei bambini a causa degli adulti. Qui si innesta l’insegnamento della Chiesa: la libertà e la vita ci sono state date per fare del bene, nell’operare per il meglio, per costruire e non per distruggere. Spetta a noi scegliere. Quindi come vede, ‘niente stride con niente’!

Alcuni malati terminali, in cui il dolore diventa refrattario ai trattamenti antalgici, manifestano altri sintomi che diventano “incontrollabili” come la nausea, il delirium, la dispnea, l’irrequietezza, ma anche l’angoscia di essere un peso a causa della dipendenza da altri, questo aspetto è il più frequente. Queste, insieme ad altre, sono le situazioni in cui si può fare ricorso alla sedazione palliativa, che non va confusa con l’eutanasia e serve per alleviare o eliminare la sofferenza attraverso farmaci scelti per il controllo del sintomo fino all’abolizione della coscienza. La differenza con l’eutanasia è che la sedazione palliativa è reversibile e può essere effettuata a vari livelli di profondità. Questa è eticamente accettabile secondo lei? Richiede sempre il consenso informato del paziente.

Il tema fu affrontato già da Papa Pio XII, che aveva legittimato con chiarezza, distinguendola dall’eutanasia, la somministrazione di analgesici per alleviare dolori insopportabili non altrimenti trattabili, anche qualora, nella fase di morte imminente, fossero causa di un accorciamento della vita. Al giorno d’oggi gli sviluppi della medicina hanno praticamente fatto scomparire questo genere di situazione. Ma non si esclude che possa ripresentarsi un analogo quesito, collegato all’uso di nuovi farmaci che riducono lo stato di coscienza e consentono diverse forme di sedazione. Per l’insegnamento della Chiesa, l’impiego di queste procedure richiede sempre un attento discernimento e molta prudenza. Esse sono infatti assai impegnative sia per gli ammalati, sia per i familiari, sia per i curanti: con la sedazione, soprattutto quando protratta e profonda, viene annullata quella dimensione relazionale e comunicativa che abbiamo visto essere cruciale nell’accompagnamento delle cure palliative. Essa risulta quindi sempre almeno in parte insoddisfacente, sicché va considerata come estremo rimedio, dopo aver esaminato e chiarito con attenzione le indicazioni.
È bene non dimenticare che per i familiari gli ultimi tempi di vita del paziente possono essere molto logoranti: frequentemente sperimentano sentimenti di colpa e di impotenza dinanzi alla situazione del loro congiunto, e una condizione di sfinimento fisico ed emozionale. Per questo è importante coinvolgerli nel processo decisionale, assicurando loro il supporto necessario.

Come considera il concetto di dolore umano la Chiesa? Qual è il limite dell’umana sofferenza? A Sua immagine e somiglianza non può essere il limite!

La presenza del patire nell’esperienza umana non è mai del tutto eliminabile e rinvia alle costitutive finitudine e vulnerabilità che sono proprie della condizione umana. Già sul piano biologico, lo scorrere della vita è segnato da un progressivo deperimento in termini di energia e di funzionalità, che può venire accentuato da eventi patologici specifici, fino al trapasso del morire. Lo stesso può dirsi sul piano biografico: lo svolgersi della vita comporta separazioni e perdite che, se da una parte sono intrinseche all’ordinario processo di maturazione e di crescita, dall’altra sono (anche) motivo di disagio e di sofferenza. In questa prospettiva possiamo leggere le parole di san Giovanni Paolo II: «La rivelazione da parte del Cristo del senso salvifico della sofferenza non si identifica in alcun modo con un atteggiamento di passività. È tutto il contrario. Il Vangelo è la negazione della passività di fronte alla sofferenza. Cristo stesso in questo campo è soprattutto attivo […] Egli passa “beneficando”, ed il bene delle sue opere ha assunto rilievo soprattutto di fronte all’umana sofferenza» (Salvifici Doloris, par. 30). Viene così smentita una visione che celebra il dolore come strumento di redenzione, che si è talvolta erroneamente sostenuta, anche nella tradizione cristiana. Sono invece benvenuti gli strumenti sempre più efficaci che la medicina ha sviluppato per la terapia del dolore, fino alla sedazione profonda. Nello stesso tempo è importante non trascurare come l’elaborazione del dolore sia un compito da svolgere non solo sul piano individuale, ma anche comunitario. L’esperienza del dolore, come si è detto, ha un versante oggettivo, dove si collocano danno e malattia, e uno personale e culturale, che rinvia al contesto di significati al cui interno il dolore può essere elaborato, senza nascondere la radicale reazione di rifiuto e di ribellione che esso suscita.

Il tema del fine vita suscita moltissime domande, è diventato sempre più popolare, altrimenti non avrebbero raccolto oltre un milione di firme per presentare il quesito alla Corte Costituzionale. Un tema che riguarda persone “inguaribili”, collegate a dei macchinari, che necessitano di nutrimento e idratazione artificiali, che non sono autonomi per spostarsi, per muovere un solo dito. Vita quindi è anche questo, pur non volendolo?

Siamo su una frontiera che richiede grande delicatezza. Ne va della vita delle persone che soffrono. Per questo la Corte Costituzionale ha definito quattro criteri stringenti, in base ai quali una persona malata e sofferente potrebbe (potrebbe, è una possibilità non un obbligo!) richiedere di terminare anticipatamente la propria vita ma sotto stretto controllo medico e giuridico. Si tratta di situazioni limite. Dove al quesito etico – è lecito? – si deve aggiungere una considerazione scientifica. Sono i progressi nelle cure e nelle tecnologie, ad avere sollevato problemi nuovi. Oggi con il progresso nelle tecniche di rianimazione e di assistenza, si prolunga la vita delle persone, mentre solo 40 o 50 anni fa non era possibile. Però proprio nel prolungare, nel salvare la vita con interventi complessi, si aprono nuove questioni etiche e ci chiediamo fin dove valga la pena di vivere una vita assistiti da macchinari. La Corte Costituzionale ha indicato dei criteri stringenti, ma ha anche chiesto al Parlamento di legiferare. E questo non avviene. In questa zona d’ombra in cui siamo, si aprono dispute e problemi. Tocca alla politica compiere il passo decisivo per risolvere.

Nella Carta di Nizza, così come nella nostra Costituzione, il diritto alla salute viene considerato non solo per l’alto livello delle prestazioni sanitarie (art.35 Carta di Nizza, art.1 Convenzione di Oviedo) ma ancor prima come diritto di autodeterminazione che si esercita mediante il consenso. Come si può non considerare quindi la libera scelta di una persona che soffre di come vuole terminare la sua vita?

L’autonomia del paziente non va vista solo come dovere di non interferenza, bensì positivamente, come fonte del dovere del medico di informare il paziente e verificare, in un vero e proprio processo di comunicazione, l’effettiva comprensione dell’informazione data. Ed anche come capacità dello stesso medico di ascolto e di comprensione delle richieste del paziente, capacità necessaria per individuare le scelte terapeutiche più opportune e rispettose della persona nella sua interezza. L’ammalato esige disponibilità, attenzione, comprensione, condivisione, dialogo, insieme a perizia, competenza e coscienza professionali. È in questo modo che il pieno rispetto della sua autonomia si collega a una relazione di cura che esprime un impegno profondamente umano e il consenso informato diventa il punto di bilanciamento nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico. In Italia abbiamo degli strumenti, forse troppo poco conosciuti. Abbiamo un’ottima legge che stabilisce l’introduzione delle cure palliative a livello nazionale. E ce l’abbiamo dal 2010. Abbiamo una legge del 2017 che introduce le Disposizioni anticipate di trattamento, in modo che ogni persona possa decidere per tempo e con ponderazione a quali trattamenti vorrebbe o non vorrebbe venire sottoposta. Sono strumenti preziosi, nel consenso informato che deve costituire il principio cardine del rapporto tra il medico ed il paziente e la sua famiglia. Vanno fatti conoscere. Questa è la sfida da affrontare, e vincere.

IL SECOLO D’ITALIA