Stare accanto alla vita (sempre)

Desidero anzitutto ringraziare la Fondazione don Gnocchi, in particolare il presidente Don Enzo Barbante e tutti voi che siete impegnati a stare accanto alla vita, soprattutto quando le persone malate si trovano in condizione di estrema fragilità e la loro salute è gravemente compromessa. È un servizio che richiede grande generosità e grande umanità, per cui occorre prepararsi non solo sul piano delle conoscenze e delle competenze, ma anche sul piano della formazione personale. Infatti, davanti al dolore e alla sofferenza così profonda, sia delle persone malate sia delle loro famiglie, come quelle che voi incontrate nel vostro lavoro professionale, vengono messi in questione gli aspetti più delicati e profondi della nostra esperienza esistenziale, anche come credenti. Apprezzo molto quindi l’iniziativa di formazione che avete svolto in questi mesi, anche nello spirito del vostro fondatore, il beato don Carlo Gnocchi, per rispondere a queste esigenze.

Il titolo che avete scelto: “stare accanto alla vita (sempre)”, mi ha richiamato alla memoria quanto papa Francesco ci ha detto in occasione del convegno che come Pontificia Accademia per la Vita abbiamo tenuto nel novembre 2017,insieme alla Associazione Medica Mondiale, sulle decisioni che si pongono circa i trattamenti da somministrare o da sospendere quando si avvicina il momento della morte. Egli ha insistito sulla “prossimità responsabile”, come un imperativo imprescindibile. Questo è un compito da assumere e da svolgere sempre, qualunque sia la scelta per cui si opta: il paziente non va mai abbandonato e sempre dobbiamo prendercene cura. Anche quando non si può guarire, si deve sempre curare.

Ed è proprio sulla questione della cura che vorrei offrire qualche riflessione. E’ un tema di particolare importanza e interesse, anche se ai nostri giorni non è popolare. C’è come una contraddizione che traversa la società: per un verso la cura è la parola più richiesta dagli uomini e dalle donne di oggi, per l’altro è la parola più dimenticata. Infatti, non la cura, ma la solitudine sembra essere di fatto la compagna più diffusa nella vita dei nostri contemporanei. La cura, nel suo significato più immediato chiede un atteggiamento contrario a quello ben più di moda che è mettere al centro il proprio interesse a scapito di quello degli altri. Lo chiamiamo, infatti, noncuranza. Sembra una parola lieve, ma pesa come un macigno: in una società della noncuranza, più sei debole più sei trasparente. E se diventi ingombrante, vieni scavalcato, superato, scartato.

Di fronte a questa contraddizione abbiamo un solo correttivo: contrapporre alla cultura dello scarto la cultura della cura. Una cultura che si estende a tutta la vita, sia nella sua dimensione temporale che di senso. Va quindi oltre la dimensione della salute o il comparto della sanità. La cura riguarda sia il livello delle relazioni interpersonali, sia quello del loro strutturarsi sul piano sociale. La stessa etimologia della parola “cura” evoca le dimensioni fondamentali dell’esistenza. Il termine “cura” rinvia a “cor”, al cuore, che alcuni studiosi collegano all’espressione “quia cor urat”, perché scalda il cuore, lo sollecita, lo coinvolge. La pratica della cura rinvia alla reciprocità di una relazione che torna anche in parole come l’accorgersi (il rendersi conto a partire da una percezione che tocca il cuore), l’accordarsi (in mettersi in sintonia in un modo che coinvolge il cuore) e il ricordarsi (riportare alla memoria, non solo su piano intellettuale, ma anche sul piano degli affetti). La cura, insomma, è strettamente legata alla compassione. Ed è significativo che il luogo principale in cui si svolge la cura sia l’ospedale, cioè uno spazio definito dalla pratica dell’ospitalità. Potrei anche accennare al fatto che la parola “curato” contiene la stessa radice: il curato è un sacerdote a cui è affidata la cura spirituale di una popolazione. Mentre è da un’altra radice che viene la parola curia, che deriva piuttosto da kurios – signore. Meglio essere “curato” che “curiale” (nel senso di frequentare le “curie”). Del resto nel vocabolo in esame troviamo anche una risonanza che evoca l’essere accorti, cioè il procedere in modo avvertito, assennato e competente, così da infondere sicurezza.

Curare e guarire nella tradizione cristiana

In questa mia riflessione vorrei focalizzare il rapporto tra cura e guarigione come appare nella tradizione cristiana. Leggendo i Vangeli si resta colpito dal notevole spazio dedicato alle guarigioni dei malati da parte di Gesù. Su 53 miracoli riportati nei Vangeli, ben 30 riguardano guarigioni di malati. E’ uno dei motivi della missione stessa missione: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (Lc 5,31). La loro guarigione è una costante insopprimibile tanto che gli evangelisti ne fanno uno dei due poli che sintetizzano la missione di Gesù: “egli andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe predicando la buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità”(Mt 4,23). Ecco i due pilastri: predicare il Regno di Dio e guarire i malati. E’ bella la scena descritta da Luca: “Al calar del sole, quelli che avevano infermi colpiti da mali di ogni genere li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva” (Lc 4,40). Anche Marco scrive: “Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era radunata davanti alla porta. Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni” (Mc 1, 32-34).

Perché quest’opera di Gesù? La ragione è chiara nei Vangeli: la guarigione dei malati è il segno visibile dell’intervento di Dio nella storia degli uomini. Gesù, con la sua opera di guaritore, liberava il corpo e la psiche degli uomini dal potere del male e instaurava il potere di Dio che libera da ogni schiavitù. Questo stesso potere Gesù lo affida anche ai discepoli: “Diede loro forza e potere su tutti i demoni e di guarire le malattie” (Lc 9,1). La guarigione dei malati perciò non è un’azione laterale all’annuncio, è il chiaro segno che il Regno di Dio è iniziato nella storia. E Gesù dice ai discepoli che avrebbero fatto cose più grandi lui: “In verità, in verità vi dico, anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi” (Gv 14,12). Per Gesù la malattia va sempre combattuta. Mai nei Vangeli si parla di rassegnazione ad essa. E mai Gesù ha accettato le spiegazioni correnti sul legame diretto tra malattia e peccato personale. Al contrario, egli passava beneficando e sanando tutti mostrando quale fosse la volontà del Padre: la salvezza di tutti o, se si vuole, la guarigione di tutti.

E’ con questa visione utopica che i cristiani di ogni generazione si avvicinano ai malati: attraverso la loro guarigione inizia il Regno dell’amore di Dio a cui tutti i popoli sono destinati. Il legame tra la cura dei malati e loro guarigione è parte dell’annuncio cristiano. Ecco perché nell’antichità i cristiani non hanno esitato a chiamare Gesù “medico dei cristiani” e la Chiesa “vera e propria clinica”. E’ nota l’espressione di Ireneo: “Il Signore è venuto come medico di coloro che sono malati”. E Origene insegnava: “Sappi vedere (nei Vangeli) che Gesù guarisce ogni debolezza e malattia non solo in quel tempo in cui queste guarigioni avvenivano secondo la carne, ma ancora oggi guarisce; sappi vedere che non è disceso solo tra gli uomini di allora, ma che ancora oggi discende ed è presente. Ecco, infatti, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo”. Potrei continuare a lungo citazioni di questo genere, da quella della Liturgia di San Marco: “Signore… Medico delle anime e dei corpi, visitaci e guariscici”, a un’antica iscrizione cristiana: “Ti prego, Signore, vieni in mio aiuto, tu solo medico”.

Tutto ciò non significava fomentare disprezzo per la medicina. Semmai è vero il contrario, tanto che è quasi impossibile una storia della medicina senza il riferimento alla Chiesa. Indipendentemente dal carisma di fare “miracoli”, il cristianesimo ha sempre sostenuto lo sviluppo del “potere” di curare, con tutti i mezzi di intelligenza e di abilità, materiale e spirituale, di cui il Signore ha reso capace la creatura, dotandola di un’anima intelligente, che sa inventare tecniche appropriate. La Chiesa d’altra parte non ha mai abbandonato l’utopia della guarigione totale come della salvezza piena: la frontiera di questa unità simbolica dell’essere guariti e dell’essere redenti è anche un presidio umanistico: noi dobbiamo custodire anche quello che non riusciamo a guarire, per tenere viva la nostra speranza nella liberazione dal male promessa da Dio nella risurrezione di Gesù. Dio ha destinato l’umanità e il mondo alla pienezza della vita: la reciproca cura della nostra vulnerabilità è il modo in cui ne diventiamo degni. Per i cristiani la cura delle ferite del corpo non è mai stata disgiunta dalla fede nella risurrezione della carne. Un mistero di speranza per la totalità della condizione umana su cui tropo poco si riflette e che andrebbe a mio avviso recuperato e predicato con maggiore audacia. Non separare la cura del corpo da quella dello spirito è la condizione sovrana di un umanesimo totale, che onora la dignità della persona reale. Ho cercato di offrire qualche riflessione su queste tematiche che purtroppo sono state accantonate anche dalla predicazione cristiana.

La deriva tecnologica e i suoi paradossi

E’ facile che la medicina contemporanea si faccia coinvolgere dall’obiettivo della guarigione come vittoria sulla malattia, fino al punto che se la guarigione non arriva pensa al suo fallimento quasi più che alla cura del malato, che pure è sempre un suo compito fondamentale. Il sapere tecnico progredisce così velocemente che l’illusione di poter mirare all’immortalità diventa – inconsciamente, ma per qualcuno apertamente – il vero obiettivo del progresso della clinica. Per meno di questo, ogni altro risultato incomincia a diventare provvisorio e parziale. Una simile forma mentale – a motivo del suo delirio di onnipotenza – è già un fallimento del senso della cura: svuota la medicina del suo stesso senso e toglie prestigio alla semplice cura del malato.

L’accelerazione di questo processo parte dalla rivoluzione scientifica del XVII secolo, quando lo sviluppo della tecnica – anche nel campo sanitario – ha portato verso una concezione che separa il corpo e la persona. Il corpo (umano) viene di fatto sempre più relegato nel campo della conoscenza empirica e della tecnologia che utilizza categorie oggettivanti che spingono a mettere tra parentesi l’esperienza vissuta che noi abbiamo del nostro corpo. Mettere però tra parentesi le numerose e complesse esperienze di relazioni che coinvolgono il nostro corpo, significa considerarle irrilevanti sino a farle scomparire dall’orizzonte della conoscenza. Il difetto da riparare, la funzione da ripristinare, l’organo da sostituire diventano l’unico tema di attenzione. La conseguenza è che l’essere vivente viene studiato lasciando in disparte il suo vissuto e ancora di più il senso stesso del suo esistere.

Questa tendenza è rinforzata da un secondo elemento di natura pratica. Non dobbiamo certo sottovalutare gli straordinari risultati positivi che la tecnica ha portato per la salute umana. Ma quel che sta accadendo è che la ragione strumentale tende a imporsi come paradigma esclusivo. In tal modo la tecnica diviene una potenza assoluta con la pretesa di far divenire l’uomo creatore di sé stesso. Il corpo e la vita umana rischiano di essere sottomessi alla logica della tecnica e del mercato: la vita, la sua lunghezza, la sua qualità tendono a trasformarsi in merce, all’interno di una forma di scambio economico. Ma è un itinerario che porta a situazioni paradossali. Ne accenno due.

La prima riguarda la capacità della biomedicina di trattare le malattie acute provocando situazioni patologiche croniche di cui alcune decisamente sconcertanti. Ad esempio i cosiddetti “stati vegetativi” (che in realtà non sono né stati, perché sono molto dinamici e oscillanti, né vegetativi, perché gli umani non sono mai equiparabili alla condizione vegetativa). Avremo sempre più realtà di co-morbilità, avvalendoci di trapianti, di protesi e di innesti di materiali bionici che suppliscono a funzioni biologiche che i nostri organi non sono più in grado di svolgere. Allungare la vita significa allungare il tempo di convivenza con le malattie.

La seconda situazione paradossale consiste nell’occultamento della domanda di senso che la sofferenza, la malattia e la morte incessantemente pongono. Gli interrogativi che esse sollevano vengono spostati dal terreno dei significati e dei valori a quello delle soluzioni tecniche, riducendoli a problemi. L’essere umano rischia di diventare egli stesso ostaggio della tecnica che, con lo scopo di superare i limiti e di aumentare le prestazioni funzionali, prende il sopravvento sulla capacità di orientarne il senso. Ma da questo riduzionismo scaturisce un incomprimibile disagio, che non trova soddisfazione in risposte surrogate. Come già diceva Pascal: “Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci” (Pensieri, 168,B). Ma ignorare gli interrogativi che la strutturale fragilità umana solleva non equivale a eliminarla. Queste domande risorgono appena si incontrano persone in situazione di grave sofferenza o si è direttamente colpiti dalla malattia e dall’angoscia che essa provoca. Voi che siete quotidianamente confrontati con persone in situazione di salute molto grave o con serie disabilità lo sapete bene.

In realtà, il malato svela la debolezza insita in ogni persona umana. “La malattia – scrive il cardinale Martini – è parte della vita… Non è un incidente, ma la rivelazione della condizione normale di limite insita in ogni soddisfazione umana, è qualcosa che mi definisce nel mio essere fragile, debole, incerto, mancante. Rivela chiaramente ciò che è nascosto in me anche quando sto bene. E la temo, la malattia, perché non voglio che emerga la verità della mia limitatezza, della mia povertà”. La malattia non è perciò un semplice fatto biologico: va letta anche come metafora della vita che si accompagna anche al dolore e alla sofferenza. Si tratta di un mistero che segna le nostre vite. Se per un verso dobbiamo combattere le malattie, per l’altro sappiamo che eliminarle è di fatto impossibile. Accompagnare i malati, sempre. E in maniera generosa e amorevole. Come Dio. Riprendo una bella affermazione di Calvino: possono esserci degli uomini senza-Dio, ma non potrà mai esserci un Dio senza-gli-uomini. Dio non protegge da ogni dolore, ma ci sostiene sempre in ogni dolore. La compagnia amorevole è la prima cura per il malato. La malattia, infatti, non è solo un problema di medicina: è anche una domanda di amore. La risposta radicale alla malattia è l’amore che salva.

La cura: assumere responsabilmente la vulnerabilità

Ho accennato alla pretesa prometeica della medicina di voler garantire la guarigione. Certo, possiamo sempre sperare la guarigione, mai però garantirla. Dobbiamo invece sempre garantire la cura. Gli antichi ripetevano questo sapiente adagio: medicus curat, natura sanat (Deus salvat). La guarigione non è nella disponibilità assoluta del medico. Certo, l’impegno a rispondere alla domanda di salute coinvolge il medico ad andare per quanto possibile verso la guarigione, sempre però deve mantenere la cura. La malattia è senza dubbio un male (fisicum), e come tale va riconosciuto e combattuto, ma la vulnerabilità è costitutiva dell’essere umano. E’ importante e urgente ridare senso alla fragilità umana. Essa, considerata come dannosa, va riscoperta nella sua profondità. La fragilità – proprio perché è un “ferita” – spinge a chiedere ascolto, gentilezza, amore, compagnia. Al contrario, l’autonomia e l’autosufficienza ne sono l’opposto,visto che sognano un’impossibile salute piena. Le conseguenze di una società di forti e autosufficienti disprezza i deboli e i vulnerabili: è una società crudele, disumana.

Le persone consapevoli della loro fragilità sentono il bisogno degli altri, sanno invocare aiuto, sanno pregare, sanno suscitare una forza di solidarietà e ritessere le lacerazioni. C’è, insomma, un magistero della fragilità che va riscoperto e ascoltato. Coloro che si credono forti, diventano facilmente arroganti, litigiosi, sino a prevaricare sugli altri. La fragilità costitutiva dell’essere umano è una prospettiva a cui tutti dobbiamo essere sensibilizzati, a partire da coloro che si dedicano alle professioni di cura. Non è un caso che Cecily Saunder, che ha dato inizio al movimento delle cure palliative, fosse un’infermiera, e solo in momento successivo, per motivi soprattutto strategici, ha studiato medicina. È perciò un compito formativo permanente quello di riconoscere le nostre reazioni interiori davanti a persone che soffrono, perché ci aiuta a vincere lo spavento e l’angoscia che ci provocano, e quindi non fuggire, ma a “stare” con loro e a ospitare il loro smarrimento dell’altro e il loro perché.

Occorre perciò valorizzare stili di vita e di relazione che non fuggano dalla fragilità, ma assumano l’evidenza del progressivo declino cui tutti siamo sottoposti e che, come ho detto sopra, la medicina contemporanea rende paradossalmente sempre più necessari, perché prolunga il tempo di convivenza con la malattia. Una elaborazione di questo genere non può essere frutto di un impegno individuale, è un cammino da condividere: dobbiamo apprendere ad affidarci nelle mani di altri. Vorrei richiamare qui i momenti originari in cui la passività si manifesta con maggiore evidenza all’inizio della vita, alla nascita, nella relazione tra madre e figlio. Fin dall’epoca della gravidanza, la madre fa esperienza nel proprio corpo di un altro da sé che cresce e si espande dentro di lei, con una sua dinamica non disponibile e demarcando progressivamente la sua differenza. È la forma più immediata della cura nei confronti di un ospite sia familiare, sia estraneo. L’ambivalenza ha il suo incanto, ma anche il suo trauma: tanto che può arrivare ad essere vissuta come un’esperienza drammatica: fino a far percepire la presenza della nuova vita come occupazione di un invasore ostile, che mi stravolge il corpo e la vita. La madre è quindi sollecitata ad articolare la propria identità con la differenza di un essere altro da sé, che deve essere riconosciuto come ospite da accogliere e del quale prendersi cura, appunto. Una dinamica che coinvolge anche le più fini regolazioni biochimiche, a partire dal sistema immunitario dove risiede l’identificazione biologica dell’organismo, che viene parzialmente disattivato per consentire la crescita del feto. Il legame madre figlio ha quindi un’ampia portata simbolica e ci aiuta a comprendere il limite come luogo di reciproco riconoscimento e affidamento.

L’accoglienza della fragilità è il luogo in cui si costruisce il legame fondamentale che accomuna gli esseri umani: ha una valenza che va ben oltre il momento della nascita e che si irradia come universale verità e comunanza di origine, permettendoci di accoglierci come fratelli-sorelle affidati alla cura gli uni degli altri. È un cammino che si svolge in tutto l’arco della nostra esistenza e di cui le professioni sanitarie in cui voi siete impegnati/e sono pratiche di testimonianza qualificata.

Curare è amare

La cura non può esaurirsi nella tecnica e neppure in una pura etica del dovere. La cura richiede l’orizzonte dell’amore, l’unico nel quale si realizza quel coinvolgimento profondo tra chi cura e chi è curato. In questo orizzonte i malati diventano quei fratelli e quelle sorelle su cui riversare non solo le proprie capacità di ordine tecnico-scientifico ma anche la passione per la loro guarigione. Troppo spesso il medico, l’infermiere, il sacerdote, i parenti, stanno in piedi di fronte al malato, estranei alla sua debolezza. Alla indispensabile professionalità scientifica si deve aggiungere l’audacia dell’amore. E’ purtroppo una dimensione che sembra attutirsi nella società contemporanea. E spesso anche nelle comunità cristiane. Eppure la storia della Chiesa è piena di santi taumaturghi. Credo urgente, anche nella Chiesa, il recupero di una spiritualità della guarigione. I miracoli sono possibili. Ma non avvengono nei crinali delle pratiche esoteriche, bensì solo nel vasto campo dell’amore. Un antico cristiano, Cipriano di Cartagine, assegnava alla santità personale anche un’efficacia taumaturgica: “Quando saremo casti e puri, modesti nelle nostre azioni, frenati nelle nostre parole, potremo guarire anche i malati”. La guarigione é sempre un insieme di amore e di cura. Fa pensare il fatto che, malgrado l’imperante mentali­tà razionalista, ci sia un’enorme domanda di guarigione. Migliaia di persone vanno alla ricerca di pratiche magiche, occulte, miracolistiche! E’ un’affannosa – e spesso molto dispendiosa – ricerca di protezione, di sicurezza e di guarigione. Ma non c’è in essa una grande domanda d’amore?

Vorrei terminare queste mie riflessioni con questa testimonianza di Ennio Flaiano, uno scrittore abruzzese, “laico”, che aveva una figlia, Luisa, malata di un’encefalopatia epilettoide. Curata amorevolmente dai suoi, Luisa, morì nel 1992. Questo scrittore, negli anni Sessanta, aveva pensato ad un film-romanzo di cui è rimasto solo un abbozzo. In esso egli immagina il ritorno di Gesù sulla terra, infastidito da giornalisti e fotoreporter, ma con lui attento solo ai malati. Scrive, ad un certo punto, Flaiano: “un uomo condusse a Gesù la figlia malata e gli disse: io non voglio che tu la guarisca ma che tu la ami. Gesù baciò quella ragazza e disse: In verità, quest’uomo ha chiesto ciò che veramente io posso dare. Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando la folla a commentare i suoi miracoli e i giornalisti a descriverli”.

Intervento al convegno della Fondazione Don Gnocchi – 30 ottobre 2019