“Serve una nuova cultura della vita che sia condivisa”

Cita il presidente francese Francois Mitterand, che malato di tumore disse di volersi opporre all’eutanasia: «Non ho abolito la pena di morte per poi reintrodurla in un’altra forma!». Cita Luciana Castellina, come pure romanzi e pubblicazioni scientifiche, filosofi e sociologi. Tenendo sempre presenti le pagine del Vangelo. «Sorella morte. La dignità del vivere e del morire» (Piemme) è il nuovo libro che il vescovo Vincenzo Paglia, neo-presidente della pontificia Accademia della vita, manda in libreria in questi giorni. 275 pagine dedicate alle «cose ultime», a quel tabù che ormai rappresenta nella nostra cultura, la morte, diventata, spiega l’autore dialogando con Vatican Insider, «qualcosa di pornografico, da tenere debitamente nascosto». L’uscita del libro coincide con il nuovo incarico assunto da monsignor Paglia.

Una coincidenza di tempi. Ha saputo con largo anticipo della nomina?  

«No, si tratta di una coincidenza fortuita. Il libro era strato scritto prima. È il frutto di un confronto con alcuni amici della Comunità di Sant’Egidio che si occupano di assistere anziani e i malati ormai al termine della loro vita».

Siamo purtroppo abituati, su questi temi, a dibattiti al calor bianco, con prese di posizioni polemiche. Spera di dare un contributo a un confronto diverso?  

«Sì, mi piacerebbe. Cerco di parlare di questi argomenti, delle “cose ultime”, con lo sguardo libero da pregiudizi e schemi ideologici. E anche con lo sguardo libero dalla pressione dei cosiddetti “casi limite”, che così tanto incidono nel dibattito pubblico. Mi piacerebbe che si creassero le condizioni per un dialogo a tutto campo. Stiamo parlando del senso del vivere e del morire. È un dibattito che esige il coinvolgimento da parte di tutti: di laici e credenti delle diverse religioni»

Il libro si apre con la citazione di un romanzo dello scrittore svedese Carl-Henning Wijkmark, che nel 1978 descriveva un immaginario convegno segreto organizzato dal ministero degli Affari sociali di Svezia nel quale si diceva: «Ormai il crescente numero di anziani rende insostenibile l’economia del Paese». Ecco perché bisognava rendere «desiderabile» l’eutanasia. Quasi un «obbligo volontario» da parte degli anziani a chiedere di andarsene. Sempre in nome dei buoni sentimenti, per non essere di peso…  

«Quel romanzo è impressionante, ed è stato scritto ormai quasi quarant’anni fa. Bloccarsi a discutere sul “caso limite” che la cronaca ci sottopone, ci impedisce di guardare l’orizzonte più ampio, quello nel quale la tecnica e il mercato condannano alla disperazione e alla solitudine. È un esempio della cultura dello scarto di cui parla spesso Papa Francesco. Una delle conseguenze di questa cultura del mercato, dell’io ab-solutus – cioè sciolto da tutto e da tutti, assolutizzato – fa sì che si metta da parte tutto ciò che non serve, ciò che disturba. C’è il rischio di passare da una cultura del “diritto alla morte”, a una cultura del “dovere della morte”. Una cultura che conduce ad auto-scartarsi sotto le spoglie di uno pseudo-amore, con la scusa di non voler essere di peso agli altri».

Non è difficile ribatterle che le battaglie pro-eutanasia fanno leva sulla libertà personale, sull’autodeterminazione…

«Ma l’autodeterminazione e la libertà personale non possono mai essere slegate dalla dimensione relazionale dell’uomo. Mai in nessun modo possiamo ritenerci slegati dagli altri. Dall’esperienza che ho vissuto accompagnando le persone verso l’ultimo passo mi sembra di poter dire che il problema vero è la solitudine, la mancanza di accompagnamento. Una pericolosa deresponsabilizzazione che caratterizza una cultura segnata dall’individualismo esasperato e porta alla paura di affrontare momenti drammatici senza qualcuno accanto, soprattutto se si aggiunge la sofferenza fisica. Nel libro ho citato le parole di Luciana Castellina, la quale, dopo il suicidio assistito di Lucio Magri, pur essendo anche lei favorevole alla legalizzazione dell’eutanasia, ha detto di non poter perdonare l’amico che non aveva tenuto conto dei suoi sentimenti: “Vuol dire che i legami di amicizia non servono a fermarti e che il tuo dolore conta più del dolore che procuri”».

Dunque il vero problema è la solitudine?  

«Domani in Piazza San Pietro viene canonizzata Madre Teresa di Calcutta. Lei diceva sempre che la solitudine è la malattia dell’Occidente. E aggiungeva che la medicina contro questa malattia è l’amore. Tenersi per mano in vita e in morte è sintesi e paradigma della vita umana. Siamo nati per tenerci per mano, siamo nati per essere in relazione con gli altri. Ecco perché la scelta del suicidio non è mai un valore ma piuttosto un dolore che ha sopraffatto l’amore».

Di che cosa c’è bisogno, secondo lei, in questo momento?  

«Io spero in un dialogo franco, sincero e vero, al di là degli steccati, per suscitare una nuova, condivisa, cultura della vita e un maggiore impegno per favorire le terapie contro il dolore. Non dobbiamo aver fretta di fare nuove leggi su questi temi sulla spinta dei “casi limite”, senza aver trovato un comune denominatore. Bisogna confrontarsi a tutto campo sulla sofferenza, sul dolore, sul giudizio universale. Anche inferno e paradiso vanno a mio avviso ripensati in un orizzonte umanistico senza proiettare tutto soltanto nell’aldilà. Per cominciare a capire l’aldilà da questa terra. Un anziano che trova un giovane che va a trovarlo, è paradiso. Ciò che accade ai nostri fratelli siriani o ai bambini che muoiono di fame in Africa, è inferno».

(da La Stampa)